By Il Nuovo Torrazzo, 30 settembre 2011
Mons. Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk in Iraq, è un coraggioso esponente della comunità cristiano-caldea irachena. Originario di Mosul, è un difensore delle minoranze minacciate e un sostenitore del difficile processo di democratizzazione e di riconciliazione in Iraq. In questi giorni in Italia per partecipare all'edizione 2011 di "Molte fedi sotto lo stesso cielo", promossa dalle Acli di Bergamo, mons. Sako è un testimone del dialogo e della riconciliazione in Iraq, e negli ultimi anni si è fatto interprete delle difficoltà dei cristiani iracheni, costretti ad una vita catacombale a causa dell'aggressività del fondamentalismo islamico.
I riconoscimenti a lui attribuiti, nel 2008 "Defensor Fidei", nel 2010 Premio per la pace "Pax Christi", nel 2011 Premio per i diritti umani della Fondazione Stephanus (Germania), lo stanno a ricordare.
Il SIR lo ha incontrato per fare il punto sulla situazione in Medio Oriente alla luce degli eventi più recenti.Un passo positivo per tutta la regione.
La disamina di mons. Sako parte dalla richiesta di Abu Mazen all'Onu di uno Stato palestinese.
"Il mondo arabo - dice - aspetta il riconoscimento di uno Stato palestinese. Sarebbe un passo avanti nella soluzione del conflitto israelo-palestinese. Anche i negoziati potrebbero trarne vantaggio dal momento che a dialogare saranno due Stati, in condizione di parità. A beneficiare della nuova possibile situazione sul campo saranno anche le minoranze cristiane, spesso assimilate all'Occidente alleato di Israele. A lungo tempo i cristiani hanno pagato, e continuano a farlo, la crisi israelo-palestinese". "Ingiustamente - ribadisce l'arcivescovo - perché bisogna ricordare che i pionieri della liberazione della Palestina sono stati i cristiani. Sono stati tra i primi a chiederla e a combattere per la Palestina, con le loro milizie. Il riconoscimento è un passo verso un futuro migliore e per questo dobbiamo sostenerlo. Il fatto che i palestinesi possano avere un'entità statale e con essa anche un'identità non potrà che avere dei riflessi positivi su tutto il mondo arabo che da decenni attende la soluzione al conflitto".
Primavera araba e paure dei cristiani.
L'inizio del 2011 è stato caratterizzato dal fiorire della "primavera araba", popoli in piazza in molti Stati per invocare democrazia, giustizia, diritti e migliori condizioni di vita. Sullo sfondo, però, le ombre del fondamentalismo islamico che rischia di prendere il posto dei regimi caduti. I timori delle minoranze cristiane sono forti.
Ma, per mons. Sako, "i cristiani non dovrebbero avere paura poiché fanno parte della popolazione araba, sono cittadini a pieno titolo e in quanto tali possono e devono avere un ruolo in questo cambiamento. Ci vuole prudenza, certo, ma è lecito chiedere ai rispettivi governi, per esempio a quello siriano, riforme profonde, a livello sociale, economico, politico e culturale. I cristiani devono far valere quelle capacità di mediazione e di dialogo, connaturate alla nostra fede, per riavvicinare le posizioni ed evitare odio e violenza. Questo è il grande contributo dei cristiani".
Costoro, aggiunge il presule caldeo, "non devono limitarsi ad aspettare l'aiuto dell'Occidente o a cercare una protezione da fuori". "Il futuro dei cristiani - sottolinea - è legato a quello dei loro concittadini musulmani. Vivere insieme è possibile, anche con i musulmani fondamentalisti avviando un dialogo aperto, sincero e coraggioso che porti alla conoscenza armonica e reciproca. Farlo è possibile perché si condivide la stessa lingua, la stessa cultura, la stessa storia. Anche quella futura".
Dialogare con tutti.
Dialogare con i fondamentalisti, i fratelli musulmani, i salafiti, le autorità sunnite e sciite è fondamentale per mostrare loro "la nostra lealtà, il nostro impegno e la volontà di vivere insieme con rispetto e dignità. La laicità positiva, quella rispettosa dei valori religiosi e dei principi di giustizia, per cui tutti i cittadini hanno gli stessi diritti e doveri e sono uguali davanti alla legge, passa attraverso il dialogo". Il dialogo deve poi essere accompagnato da alcune decisioni concrete come quella di "modificare i programmi di educazione religiosa ed eliminare le espressioni di violenza, odio, esclusione ed emarginazione e di permettere l'insegnamento di tutte le religioni con rispetto e in modo positivo per sviluppare una convivenza pacifica ed armonica". Come a dire che le autorità religiose musulmane "devono avere un modo moderato e aperto per presentare l'Islam e aiutare l'integrazione dei musulmani nella società contemporanea" ma che nel contempo anche "i cristiani devono essere consapevoli di vivere in un contesto musulmano, e quindi essere realistici per contribuire al cambiamento restando nella loro terra e non emigrando. I Paesi occidentali - rimarca a riguardo mons. Sako - non dovrebbero incoraggiare l'emigrazione, salvo casi specifici. Devono aiutare alla riconciliazione e a una cultura del dialogo e della pace". "Nonostante tutte le difficoltà - sostiene - siamo rispettati dalla maggioranza dei musulmani, apprezzati per la nostra apertura, formazione scientifica e testimonianza, per questo possiamo contribuire alla costruzione di una cultura del dialogo e della riconciliazione. I musulmani dicono che 'i cristiani sono i nostri fiori'; dunque, siamo per loro un segno di pace e di speranza".
Mons. Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk in Iraq, è un coraggioso esponente della comunità cristiano-caldea irachena. Originario di Mosul, è un difensore delle minoranze minacciate e un sostenitore del difficile processo di democratizzazione e di riconciliazione in Iraq. In questi giorni in Italia per partecipare all'edizione 2011 di "Molte fedi sotto lo stesso cielo", promossa dalle Acli di Bergamo, mons. Sako è un testimone del dialogo e della riconciliazione in Iraq, e negli ultimi anni si è fatto interprete delle difficoltà dei cristiani iracheni, costretti ad una vita catacombale a causa dell'aggressività del fondamentalismo islamico.
I riconoscimenti a lui attribuiti, nel 2008 "Defensor Fidei", nel 2010 Premio per la pace "Pax Christi", nel 2011 Premio per i diritti umani della Fondazione Stephanus (Germania), lo stanno a ricordare.
Il SIR lo ha incontrato per fare il punto sulla situazione in Medio Oriente alla luce degli eventi più recenti.Un passo positivo per tutta la regione.
La disamina di mons. Sako parte dalla richiesta di Abu Mazen all'Onu di uno Stato palestinese.
"Il mondo arabo - dice - aspetta il riconoscimento di uno Stato palestinese. Sarebbe un passo avanti nella soluzione del conflitto israelo-palestinese. Anche i negoziati potrebbero trarne vantaggio dal momento che a dialogare saranno due Stati, in condizione di parità. A beneficiare della nuova possibile situazione sul campo saranno anche le minoranze cristiane, spesso assimilate all'Occidente alleato di Israele. A lungo tempo i cristiani hanno pagato, e continuano a farlo, la crisi israelo-palestinese". "Ingiustamente - ribadisce l'arcivescovo - perché bisogna ricordare che i pionieri della liberazione della Palestina sono stati i cristiani. Sono stati tra i primi a chiederla e a combattere per la Palestina, con le loro milizie. Il riconoscimento è un passo verso un futuro migliore e per questo dobbiamo sostenerlo. Il fatto che i palestinesi possano avere un'entità statale e con essa anche un'identità non potrà che avere dei riflessi positivi su tutto il mondo arabo che da decenni attende la soluzione al conflitto".
Primavera araba e paure dei cristiani.
L'inizio del 2011 è stato caratterizzato dal fiorire della "primavera araba", popoli in piazza in molti Stati per invocare democrazia, giustizia, diritti e migliori condizioni di vita. Sullo sfondo, però, le ombre del fondamentalismo islamico che rischia di prendere il posto dei regimi caduti. I timori delle minoranze cristiane sono forti.
Ma, per mons. Sako, "i cristiani non dovrebbero avere paura poiché fanno parte della popolazione araba, sono cittadini a pieno titolo e in quanto tali possono e devono avere un ruolo in questo cambiamento. Ci vuole prudenza, certo, ma è lecito chiedere ai rispettivi governi, per esempio a quello siriano, riforme profonde, a livello sociale, economico, politico e culturale. I cristiani devono far valere quelle capacità di mediazione e di dialogo, connaturate alla nostra fede, per riavvicinare le posizioni ed evitare odio e violenza. Questo è il grande contributo dei cristiani".
Costoro, aggiunge il presule caldeo, "non devono limitarsi ad aspettare l'aiuto dell'Occidente o a cercare una protezione da fuori". "Il futuro dei cristiani - sottolinea - è legato a quello dei loro concittadini musulmani. Vivere insieme è possibile, anche con i musulmani fondamentalisti avviando un dialogo aperto, sincero e coraggioso che porti alla conoscenza armonica e reciproca. Farlo è possibile perché si condivide la stessa lingua, la stessa cultura, la stessa storia. Anche quella futura".
Dialogare con tutti.
Dialogare con i fondamentalisti, i fratelli musulmani, i salafiti, le autorità sunnite e sciite è fondamentale per mostrare loro "la nostra lealtà, il nostro impegno e la volontà di vivere insieme con rispetto e dignità. La laicità positiva, quella rispettosa dei valori religiosi e dei principi di giustizia, per cui tutti i cittadini hanno gli stessi diritti e doveri e sono uguali davanti alla legge, passa attraverso il dialogo". Il dialogo deve poi essere accompagnato da alcune decisioni concrete come quella di "modificare i programmi di educazione religiosa ed eliminare le espressioni di violenza, odio, esclusione ed emarginazione e di permettere l'insegnamento di tutte le religioni con rispetto e in modo positivo per sviluppare una convivenza pacifica ed armonica". Come a dire che le autorità religiose musulmane "devono avere un modo moderato e aperto per presentare l'Islam e aiutare l'integrazione dei musulmani nella società contemporanea" ma che nel contempo anche "i cristiani devono essere consapevoli di vivere in un contesto musulmano, e quindi essere realistici per contribuire al cambiamento restando nella loro terra e non emigrando. I Paesi occidentali - rimarca a riguardo mons. Sako - non dovrebbero incoraggiare l'emigrazione, salvo casi specifici. Devono aiutare alla riconciliazione e a una cultura del dialogo e della pace". "Nonostante tutte le difficoltà - sostiene - siamo rispettati dalla maggioranza dei musulmani, apprezzati per la nostra apertura, formazione scientifica e testimonianza, per questo possiamo contribuire alla costruzione di una cultura del dialogo e della riconciliazione. I musulmani dicono che 'i cristiani sono i nostri fiori'; dunque, siamo per loro un segno di pace e di speranza".