"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

16 maggio 2012

Incontri di amicizia e di pace.Un nuovo "diario di viaggio" dalle terre del Kurdistan iracheno

By Peacelink  15 maggio 2012 
di Andrea Misuri

Il cielo lattiginoso dei primi giorni, per la polvere sollevata dalla terra arida, ha lasciato il posto a raffiche gelate di pioggia e di vento - che depositano sui vestiti una sottile lamina giallognola - poi, nei giorni successivi, a una trama leggera di neve farinosa che ci ha accompagnato per un lungo tratto, nel ritorno all’aeroporto di Erbil. Al check point al passo di Taslwja, i giovani peshmerga, kalashnikov in mano, sono intabarrati nei giacconi, con le sciarpe alzate fin sotto gli occhi e i copri orecchi a proteggere dal freddo di una primavera che tarda ad arrivare. Scendiamo a valle. Il paesaggio ora è piatto e brullo. Passiamo vicino a piccoli villaggi: Bazian, Takia, Qara-Hanjeer, prima di costeggiare l’enclave di Kirkuk e le cime innevate della catena montuosa sulla nostra sinistra, mentre la strada corre verso nord. Improvvisamente tutto scompare. “Nebbia in Val Padana” scherziamo tra noi. Una nebbia ben strana, però, di un colore ocra sospetto che ci fa subito propendere per quello che realmente è, un muro impalpabile di sabbia che ci accompagna fino alle porte di Erbil.
“Finché esistono le montagne, non abbiamo paura di niente” è un proverbio curdo degli anni della guerra. Lo racconta Arsalan Baiz presidente del Parlamento regionale, per spiegarci la determinazione con la quale i curdi hanno combattuto per la loro libertà. “A quel tempo costruivamo le case ad almeno cinquanta metri l’una dall’altra, per evitare che una bomba potesse colpire entrambe le abitazioni.” Oggi il Parlamento di Erbil è l’espressione del caleidoscopio etnico e religioso che convive in questa regione nel nord dell’Iraq. Dare voce a tutte le istanze e riportarle nel comune consesso istituzionale è un percorso obbligato che trova risposta in qualche numero: centoundici parlamentari, dei quali trentacinque dell’opposizione; quarantadue donne elette; cinque rappresentanti della minoranza turcomanna; sei di quella caldea.

Prendiamo ad esempio la comunità caldea, concentrata in gran parte a Erbil, nel quartiere di Ankawa. Oltre ventimila abitanti che aumentano costantemente, per lo stillicidio di arrivi da Baghdad e dalle città del sud dell’Iraq, dove i muri alzati per separare i diversi quartieri e i rispettivi gruppi etnici, niente possono contro le quotidiane minacce che colpiscono i credenti cristiani. Per chi arriva, ci sono i problemi della casa e del lavoro. Per quest’ultimo, nel Parlamento regionale si sta cercando una soluzione legislativa. In un Paese dove i dipendenti pubblici rappresentano la maggioranza dei lavoratori, potrebbero ottenere una sorta di trasferimento, per alleviare i disagi di una fuga dalle città d’origine. A Sulaimaniya, la collettività è estremamente esigua. La chiesa cattolica caldea di St. Joseph, una costruzione moderna affiancata da un campanile stilizzato, è posta di lato alla Direzione del Ministero della Cultura. Al cancello, una garitta e un soldato armato ricordano come non sia possibile abbassare la guardia dal pericolo fondamentalista. Il vasto interno circolare dell’edificio è ingentilito da bianche colonne e dalle pareti fasciate di legno chiaro.
Padre Ayman Aziz Hermiz, trenta anni, proviene da Kirkuk. Ha l’espressione attenta e gioviale; una barba nera e ben curata gli incornicia il mento. Ci accoglie con cordialità. La comunità è composta da duecentocinquanta famiglie, novecento fedeli in tutto, in una metropoli di oltre un milione di abitanti. Un isolamento che percepisco nello sguardo e nella voce di padre Ayman. “La strada della convivenza è l’unica percorribile –ci dice sorridendo – Musulmani e cristiani torneranno a vivere insieme”. Tutti i pomeriggi alle cinque, la messa officiata da padre Ayman è l’occasione quotidiana per riunire la comunità di fedeli intorno a questo giovane prete.



Kamaran Ahmed è radiologo al “Sulaymani Radiation Oncology Center”, l’ospedale “italiano” di Sulaimaniya. Si è formato alla scuola fiorentina del prof. Giampaolo Biti. L’ultima volta ci si era visti due anni fa. Nel frattempo Kamaran si è sposato con Hezha Abdullah, anche lei medico. Come l’amico e collega Shakhawan Said, con il quale mi viene a prendere allo Yadi Hotel, nei pressi della Biblioteca pubblica in Salim Street. L’invito a cena è di quelli che non si possono rifiutare. E Hezha è cuoca d’eccezione. Kifta, yaprakh, kwba, alcuni dei piatti della tradizione curda della serata. Questi giovani medici fanno parte, anagraficamente, della nuova classe dirigente del Kurdistan iracheno. La prima, in tempo di pace e dopo i lunghi anni dell’isolamento politico, in grado di superare il gap tecnologico che frena lo sviluppo economico del Paese. L’abitazione di Kamaran e Hezha si trova nella zona est della città, in un quartiere nuovo al quale, con un pizzico di ottimismo, è stato dato il nome di Green City. Decine di palazzi sorti in ordine sparso, in attesa delle strade (e del verde) che – mi assicura l’amico – saranno pronte per l’estate. Intanto, per la pioggia di questa primavera soltanto di nome, l’auto arranca tra il fango sulle collinette di Green City.

Per l’inclemenza del tempo, la cerimonia per l’anniversario della strage di Halabja si svolge all’interno di un hangar, a breve distanza dal cimitero che contiene le lapidi, con i nomi – e spesso soltanto con quelli, perché non fu possibile dare sepoltura ai corpi - dei cinquemila morti del 16 marzo 1988. Erano le due del pomeriggio di un mercoledì, i bambini stavano per uscire dalle scuole. Le sostanze chimiche liberate dalle bombe sprigionarono nell’aria l’odore dolciastro delle mele. Per ricordarlo, oggi le mele – in questa stagione ancora piccole e acerbe - sono state legate agli arbusti lungo il vialetto del cimitero. La delegazione italiana è guidata da un sindaco entusiasta quale Vincenzo D’Asaro della siciliana Mazzarino. Primo cittadino da tempo impegnato, spesso in sinergia con il Comune di Firenze, nel perseguire progetti di pace nel Kurdistan iracheno. Portatore di una proposta destinata a far discutere, idealistica e insieme concreta. Costruire nella sua città un monumento alle vittime di Halabja, come quello posto all’entrata della città martire curda. Per far conoscere in Europa il tragico evento di 24 anni fa, per aprire un ponte tra culture e religioni diverse. Un progetto solido come la pietra che servirà per costruire il monumento. Quando il sindaco termina l’intervento con alcune parole in curdo, zor swpas brayan w khwshkan (grazie, fratelli e sorelle), seguite da bzhe ashte (viva la pace), scoppia l’applauso dei presenti che riempiono in ogni ordine di posti il pur immenso hangar.
La cerimonia continua, con l’intervento di oratori civili e religiosi. Poi la folla si zittisce di colpo. Il silenzio improvviso è quasi ingombrante, per noi che non comprendiamo. Sul palco viene mostrata una teca di vetro con all’interno una corda. Ora i presenti gridano e applaudono. Urla e fischi di approvazione, concitare di mani, i volti intorno a noi tradiscono forti emozioni. Più tardi, l’amico (e interprete prezioso) Nariman Ali ci spiega. La corda è quella usata per l’impiccagione di Ali il Chimico. E’ stata donata al Mausoleo della città e vi rimarrà per non dimenticare.

Insieme ai nomi dei morti incisi nel nero marmo della centrale sala circolare. Insieme alle foto, scattate dai reporter arrivati con i primi soccorritori, come il turco Ramazan Őztürk che immortalò quel padre disteso invano a proteggere con il suo corpo quello della figlia. L’immagine, oggi simbolo della strage, quell’anno vinse “The best photo” di Time e Newsweek. I fotografi ripresero anche i bambini che, pur feriti, sarebbero sopravvissuti, sfuggendo così a un destino già scritto da chi aveva programmato lo sganciamento delle bombe su Halabja. Wshyr Omar aveva 11 anni, anche Akram Mohamad ne aveva 11 e Bakhtyar Omar già 13. Omed Hama Ali era il più grande con 14 anni, Mohamed Mohamad Said soltanto 6. Ora sono qui. Indicano le foto che li vedono distesi nella polvere, accanto ad altri ragazzi morti.

Ho conosciuto i sopravvissuti di Auschwitz. Ho incontrato gli hibakusha dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, dediti, fino a che il peso degli anni glielo consente, a far sapere ciò che accadde alle nuove generazioni. Hanno in comune, nonostante il tempo trascorso, lo sguardo intenso e rivolto al passato di chi ha visto troppo orrore e disperazione. Lo stesso sguardo hanno i superstiti di Halabja. Per questo, trascriverne i nomi è un atto dovuto, per riconoscere il loro martirio.
La signora Hero Ahmed Ibrahim, con la quale condividiamo un consolidato rapporto di stima e fiducia, ci riceve nella sede locale del PUK, dove è tornata a guidare il Partito. Una palazzina tinteggiata di verde - colore del Partito - sulla Salim Street, l’arteria che attraversa il centro di Sulaimaniya. Con sobria eleganza indossa una blusa grigia; i capelli poggiano sulle spalle. Trasmette carisma e personalità, racchiusi in un corpo minuto ancor più di sempre. Energia e semplicità sono le stesse descritte da Joyse Lussu quando incontrò Hero Khan, allora giovanissima, a Damasco: “…lei mi si aggrappò stringendomi forte, perché le portavo notizie del suo uomo molto amato che combatteva lontano”. Sobrio anche l’ambiente in cui lavora, l’arredamento ridotto all’essenziale. Alle pareti una fotografia del marito e Presidente dell’Iraq Jalal Talabani, oltre a due paesaggi delle amate montagne curde.Hero Khan parla a voce bassa: “Ancora oggi, quando mi sveglio, per un attimo penso se siamo ancora in guerra. Abbiamo percorso una lunga strada. Ma ne abbiamo ancora tanta da fare, per alzare il livello economico del nostro popolo. Il tempo, però, lavora per noi. L’isolamento dei curdi fa parte del passato”. Parole di ottimismo che fotografano il presente del Kurdistan iracheno. Un gigantesco cantiere, impensabile sotto i cieli della nostra Europa, stressata tra spread e default. I proventi del petrolio sono investiti in infrastrutture, indispensabili per lo sviluppo e che la Regione non ha mai avuto. Una crescita tumultuosa, spesso priva di regole (oltre che di Piani regolatori), che avrà bisogno di essere incanalata. Per questo servono modelli politici con cui confrontarsi. Intanto, la conquistata autonomia, oltre al ritorno della rappresentanza democratica, ha attivato anche un radicale cambiamento della qualità della vita.
Il City Star può essere assunto come immagine del Kurdistan di questo 2012. Un contenitore creato per soddisfare i desideri dei giovani di Sulaimaniya, in uno sfavillio continuo di roteanti, coloratissime luci. Un unico segno esteriore ricorda che non ci troviamo in una città europea, un metal detector (fuori servizio) ed un cartello con il disegno della pistola sbarrato, retaggio dei tempi della guerra. Quando, ancora pochi anni fa, per strada s’incontravano abitualmente uomini con il kalashnikov a tracolla o la pistola infilata nella cintura. Al City Star troviamo di tutto: la sala del bowling e quella riservata ai giochi per i più piccoli (peraltro attrezzata come nelle nostre più attente città), supermercato alimentare, negozi di informatica e quant’altro. Al secondo piano, il Flora è un Fast Food come i nostri, con tanto di patatine fritte e coca cola, e con l’aggiunta della pizza, sconosciuta fino a tre anni fa, e divenuta in breve tempo un piatto abituale della cucina locale. I nomi ne ricordano l’origine italiana: Margherita, Verdi (con i funghi), Roma (con il roastbeef). Non mancano, ovviamente, la pizza Kabab e la Mesopotamia (pesce, pollo e funghi), così come una concessione ai nostri cugini transalpini con La Fontaine, con il pollo, provata e impensabilmente davvero buona.
Al City Star s’incontrano ragazzi e ragazze che ridono e scherzano insieme, inimmaginabile fino a qualche anno fa in una società chiusa come è stata a lungo quella curda. La realtà sotto i nostri occhi è quella delle grandi città, e la situazione cambia, via via che lasciamo il centro e ci allontaniamo verso le lontane periferie e ancor più verso i villaggi, dove la vita contadina è segnata dal ritmo delle stagioni. Ma la tendenza è questa. Gli stipendi variano dai 500.000 ai 2.000.000 di dinari (100 dollari = 123.000 dinari). La disoccupazione raggiunge percentuali alte, ma i contributi statali sono tanti. Per luce, gas e acqua si spende mensilmente il corrispondente di una manciata di euro. Ogni famiglia riceve una quantità sufficiente di riso (elemento base della cucina curda) e farina. Si spiega in questo modo il gran numero di pick up giapponesi in circolazione - il cui costo varia dai 20 ai 30.000 dollari - moltiplicatosi in questi anni, tanto che nelle ore di punta, il traffico di Erbil e Sulaimaniya è ormai pari a quello di Roma e Firenze. E pensare che sono trascorsi cinque o sei anni da quando s’incrociavano soltanto vecchie Mercedes fatte arrivare dall’Europa. Carrette sbuffanti, con le nere targhe curde apposte sopra quelle originali, tedesche e danesi. Come sempre accade nelle ricostruzioni, le nuove generazioni non hanno vissuto gli orrori della guerra. L’autonomia regionale e la pace sono state conquistate pagando un prezzo altissimo in vite umane e in distruzioni. Ora è il momento dello sviluppo economico, senza perdere memoria del recente passato. I governanti - lo abbiamo costatato in questi giorni – hanno ben presente il rischio e di come la soluzione del conflitto abbia la necessità di essere coltivata giorno per giorno. Sono ancora tanti i passi democratici da fare e le conquiste dei diritti civili ed umani da consolidare.

E’ stata una settimana intensa, tra incontri e documenti da scrivere e firmare. Il tutto reso possibile da un professionale e motivato gruppo coeso. Il sindaco Vincenzo D’Asaro, improntato di un forte carisma umano e determinato nei propri obiettivi di solidarietà. Valerio, con la sua valigetta con il set operativo, con tanto di telecamera, macchina fotografica, cavi e strumenti informatici come si conviene ad ogni cronista televisivo. Bruno, innamorato dei colori e dei sapori della sua Sicilia. Filippo, ristoratore nella vita, in questi giorni, in perfetto stile fusion, s’è incontrato con la cucina curda. Come si dice, se l’è cavata in corner, grazie alle pizze di City Star. Luciano, compagno d’avventure amichevoli e di missioni politiche in Kurdistan fin dal primo viaggio. Con la giusta misura di curiosità e di sapere che necessitano alla scoperta del nuovo mondo che ci vede tutti fratelli e sorelle. Compagnia composita, anche questa volta, ma sappiamo che è nell’alchimia delle diversità che si realizzano le sinergie più riuscite ed efficaci.