"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

6 dicembre 2022

Camminare insieme nella fede degli Apostoli. Intervista a Mar Awa III, Patriarca della Chiesa assira d'Oriente

Gianni Valente

Un programma ecclesiale sinodale è fecondo se «aiuta tutti a camminare nella fede degli Apostoli custodita dalla Tradizione». Per questo i richiami alle dinamiche sinodali non possono essere usati «per aprire fratture tra i membri della Chiesa su questioni di fede o di morale». Così Mar Awa III, Patriarca della Chiesa della Chiesa assira d’Oriente, offre da una prospettiva orientale coordinate suggestive e utili per guardare anche al processo sinodale avviato nella Chiesa cattolica.
Sabato 19 novembre Mar Awa III ha compiuto la sua visita fraterna a Papa Francesco, che lo ha ricevuto nel Palazzo apostolico. In occasione della sua prima trasferta a Roma da Patriarca, Mar Awa III ha anche tenuto presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum) una conferenza sulla “teologia della sinodalità nella Chiesa dell’Oriente”, nel quadro del Simposio ecumenico internazionale “Listening to the East” (Ascoltare l’Oriente) promosso dall’Angelicum e dalla Fondazione Pro Oriente per ascoltare relazioni, dibattiti e testimonianze sulla sinodalità nella vita e nella missione delle Chiese ortodosse e nelle antiche Chiese orientali.
Nell’intervista a tutto campo, rilasciata all’Agenzia Fides, il Patriarca assiro critica le campagne di “demonizzazione” della Chiesa ortodossa russa e del suo Patriarca Kirill. Mar Awa offre risposte non scontate e illuminanti anche sulla condizione dei cristiani in Medio Oriente, sulla ricerca di una data comune per la celebrazione della Pasqua, sul cammino verso la piena comunione tra la Chiesa assira d’Oriente e la Chiesa di Roma. Il Primate della Chiesa assira accenna anche al “segreto” della grande progressione missionaria della antica Chiesa d’Oriente, che nei primi secoli cristiani aveva portato l’annuncio del Vangelo fino in Cina, in Mongolia e nella Penisola arabica.
Il 122esimo Patriarca della Chiesa assira d’Oriente, eletto l’8 settembre 2021, viene dagli USA e ha compiuto parte del suo percorso di formazione nelle accademie cattoliche. Nato 47 anni fa a Chicago, e quindi figlio della diaspora assira negli USA, David Royel è stato ordinato diacono già a 17 anni, e in seguito ha conseguito titoli di laurea in sacra teologia presso la Loyola University di Chicago e presso l’University of Saint Mary of the Lake. Successivamente ha conseguito la licenza in Sacra Teologia e il dottorato presso il Pontificio Istituto Orientale di Roma. È stato ordinato Vescovo dall’allora Patriarca Mar Dinkha IV nel 2008, prendendo il nome di Awa (che in lingua assira significa “padre”) e divenendo il primo Vescovo della Chiesa assira nato negli USA. Prima dell’elezione patriarcale, Mar Awa era Vescovo della diocesi assira di California (USA) e Segretario del Santo Sinodo.

Nel processo sinodale avviato nella Chiesa cattolica, alcuni ancora suggeriscono di guardare alle Chiese d’Oriente per “imparare” la sinodalità. Nell’esperienza delle Chiese d’Oriente quale è il criterio che orienta e può rendere ecclesialmente fecondo l’esercizio della sinodalità?
MAR AWA III: La dinamica sinodale della Chiesa consiste nel camminare insieme nella fede della Tradizione apostolica. La modalità sinodale serve a custodire e confermare l’unità della fede in questo cammino, facilitandolo per tutti e liberando tutti da pesi inutili e prassi ecclesiali che lo intralciano. Quindi il criterio per valutare la validità e la fecondità di un processo sinodale è se esso, nel tempo presente e nell’attuale condizione storica, aiuta tutti a camminare nella fede degli Apostoli custodita dalla Tradizione.
L’esercizio della sinodalità, se davvero è il cammino di tutti i battezzati e di tutti i vescovi come successori degli Apostoli, non può mai essere utilizzato per allontanarsi dall’alveo della Tradizione apostolica, della fede trasmessaci dagli Apostoli, che unisce la Chiesa cattolica e le antiche Chiese d’Oriente. Condividiamo lo stesso Depositum fidei ricevuto dagli Apostoli.
In molti casi il cammino sinodale viene presentato come un processo dialettico tra posizioni diverse che cercano di ottenere un consenso per mantenere o cambiare la posizione della Chiesa su un’agenda di temi ecclesialmente e dottrinalmente sensibili. Con dinamiche che assomigliano a quelle politiche e “parlamentari”.
MAR AWA III: Qualcuno mi ha parlato di questo. Forse si può correre questo rischio, quando si passa da una gestione centralizzata in cui tutto è nelle mani di una sola persona a una modalità sinodale di conduzione delle dinamiche ecclesiali. Eppure il modello sinodale praticato nelle Chiese d’Oriente non è interessante perché è più vicino ai sistemi di gestione moderna del potere, ma perché è più congeniale a manifestare il consenso intorno al Depositum fidei, e a custodirlo insieme. Un’autentica dinamica sinodale nasce proprio dal fatto che i vescovi e tutti i battezzati camminano insieme nella stessa fede, e convergono nel cercare insieme le forme e le prassi più adatte a testimoniare la stessa fede nel tempo presente. Immagino che anche la gran parte dei vescovi cattolici condividano il desiderio e la volontà di mantenere la dottrina tradizionale, anche su questioni come il matrimonio.
Se le dinamiche sinodali esprimono il camminare di tutta la Chiesa nel solco della fede degli Apostoli, non possono essere usate per aprire fratture tra i membri della Chiesa su questioni di fede o di morale. Piuttosto, l’esercizio della sinodalità serve anche a mantenere l’unità nello stesso cammino di sensibilità diverse, comprese quelle di chi auspica un maggiore adattamento alla mentalità del mondo attuale.
Molti cristiani vanno via dal Medio Oriente. Il Patriarcato assiro è invece tornato in Mesopotamia da pochi anni, dopo otto decenni di “esilio” prima a Cipro e poi negli USA. Ora Lei risiede a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Dal suo punto di vista in Iraq, quali sono le cose davvero necessarie per custodire la presenza dei cristiani in Medio Oriente?
MAR AWA III: Ci vuole impegno a livello delle autorità politiche e militari affinché sia garantita sicurezza, e che non ritorni un giorno, magari tra qualche anno, un altro “Stato Islamico” a spargere paura e angoscia tra i cristiani. Serve anche creare opportunità di lavoro per garantire un minimo di sicurezza economica. Adesso la situazione appare difficile per tutti, e lo è ancor più per i gruppi sociali più deboli e minoritari. E la corruzione diffusa nel paese peggiora tutto. Ma ci sono luoghi dove i buoni segni di speranza si vedono, come accade appunto nel Kurdistan iracheno.
Il Patriarca latino emerito di Gerusalemme Michel Sabbah ha detto che il futuro dei cristiani in Medio Oriente non è una questione di numeri, ma di fede.
MAR AWA III: Se non c’è vincolo di affetto e gratitudine con le terre in cui si è nati e dove si è ricevuto il dono della fede, poi è più facile che per legittimi motivi tante persone preferiscano andar via. Non tutto si spiega solo con le discriminazioni e i maltrattamenti subiti. I cristiani possono rimanere solo se si ravviva in loro il legame di affetto con una terra e una storia ricca di fede, come testimoniano i nostri antichi monasteri. E anche su questo punto le autorità civili possono fare qualcosa. Ho suggerito a Masrour Barzani, il Primo Ministro della Regione autonoma del Kurdistan, di incentivare il turismo religioso e i pellegrinaggi nei monasteri antichi e nei luoghi cari alla memoria delle nostre Chiese. Così anche la nostra gente emigrata e i loro discendenti nati nella diaspora possono tornare a visitare gli antichi villaggi d’origine, con le loro chiese, e ravvivare il vincolo con le terre dei loro padri.
Il dialogo di Papa Francesco con autorevoli esponenti dell’islam, focalizzato sulla riscoperta della fratellanza universale e ispirato dal Documento di Abu Dhabi, che riflesso ha sulla condizione dei cristiani in Medio Oriente?
MAR AWA III: Magari qualcuno può pensare che il dialogo sulla fratellanza esprima una prospettiva idealistica con scarse possibilità di generare conseguenze concrete. Ho parlato anche di questo, nel mio incontro con Papa Francesco. Io credo che questi incontri e questi dialoghi siano comunque utili, anche quando rimangono a livello di auspici e dichiarazioni d’intenti. È comunque confortante vedere che il Papa e gli altri Capi delle Chiese hanno a cuore la sorte dei cristiani in Medio Oriente, e anche per questo tessono rapporti e dialoghi fraterni con Capi musulmani. Anche i concittadini musulmani, quando vedono i loro capi dialogare con alti rappresentanti delle Chiese, possono liberarsi da pregiudizi e sentimenti ostili verso i cristiani. Questo non risolve magicamente tutti i problemi, ma comunque aiuta molto.
Tra la Chiesa di Roma e la Chiesa assira d’Oriente non c’è stata mai nessuna rottura diretta su questioni dogmatiche e teologiche. Nel dialogo teologico tra le due Chiese si sono ottenuti risultati importanti. Papa Francesco, nel discorso rivolto a Lei, ha auspicato che la Chiesa assira diventi la prima tra le antiche Chiese d’Oriente con cui la Chiesa di Roma possa ritrovare la piena comunione sacramentale.
MAR AWA III: Non c’è stato nessun anatema tra la antica Chiesa Assira d’Oriente e la Chiesa di Roma. La separazione è cominciata dal Concilio di Efeso, nel 431, ma il Depositum fidei che celebriamo prima di Efeso è condiviso, e siamo chiamati a custodirlo insieme. Nel 2025 si celebrano i 1700 anni del Concilio di Nicea. Si è iniziato a parlare della possibilità di avere un incontro per celebrare quel Concilio tutti insieme: la Chiesa di Roma, le Chiese ortodosse, le antiche Chiese d’Oriente… Nicea ci unisce. Nicea è di tutti. In tutte le nostre diverse liturgie recitiamo il Credo di Nicea, anche se non siamo in piena comunione.
A che punto è il cammino del dialogo ecumenico tra Chiesa assira e Chiesa di Roma, dopo la fondamentale dichiarazione cristologica comune firmata da Giovanni Paolo II e dal Patriarca Mar Dinkha IV?
MAR AWA III: Nel 2017 abbiamo firmato un testo in cui cattolici e assiri riconoscono mutuamente la validità dei sacramenti celebrati e amministrati nella Chiesa cattolica e nella Chiesa assira d’Oriente. Quindi si può dire che la seconda tappa del cammino si è conclusa con successo. Adesso siamo entrati nella terza fase del nostro dialogo, che tratta della Costituzione della Chiesa. E ovviamente in questa fase è implicata anche la questione del primato del Vescovo di Roma e la questione della comunione e del primato a livello locale e anche universale.
Il consenso sulla validità dei sacramenti cosa comporta?
MAR AWA III: Non siamo ancora arrivati alla piena e incondizionata possibilità di ricevere i sacramenti amministrati da sacerdoti e vescovi dell’altra Chiesa. Ma già dal 2001, con un accordo entrato in funzione già all’epoca di Papa Giovanni Paolo II e Mar Dinkha IV, può essere praticata tra le due Chiese una “ospitalità sacramentale” speciale, per motivi pastorali di necessità. Questo rimane. E in più si è aggiunto il riconoscimento che la Chiesa cattolica e la Chiesa assira concordano nella dottrina e nella teologia sacramentale. Però, arrivare alla piena comunione è un cammino a lungo termine e sarebbe un cammino da condividere con tutte le altre Chiese non cattoliche, un cammino guidato dalla preghiera intensa e dallo stesso Spirito Santo.
Il Cardinale Louis Raphael Sako, come Patriarca della Chiesa caldea – che condivide con la Chiesa assira lo stesso patrimonio liturgico e teologico – ha proposto di avviare un cammino di riunificazione tra le due Chiese, ambedue “eredi” dell’Antica Chiesa d’Oriente…
MAR AWA III: Coi caldei, che sono certo i nostri fratelli, noi siamo sempre pronti a parlare di unità e della riunificazione in una unica Chiesa d’Oriente. Però rifiutiamo totalmente l’uniatismo, il quale è stato alle origini dello scisma di 1552. La proposta del Patriarca Sako credo sia questa: i due Patriarchi, il caldeo e l’assiro, si dimettono dai loro incarichi, e i vescovi assiri e caldei eleggono insieme un altro Patriarca della Chiesa d’Oriente, ma poi quel Patriarca deve essere in comunione gerarchica con il Papa. E questa procedura non mi sembra percorribile. La strada è quella di ritrovare le radici della Chiesa d’Oriente, risalire a prima del 1552, vedere quale era l’ecclesiologia condivisa nel momento della separazione.
Anche nell’incontro tra Lei e Papa Francesco è stata toccata la questione di trovare una data comune per celebrare la Santa Pasqua. Ritiene che questa sia davvero una possibilità all’orizzonte?
MAR AWA: Noi nel Sinodo del 2019, sotto il mio predecessore Mar Gewargis III, abbiamo accettato l’idea di trovare con le altre Chiese una data comune fissa per celebrare la Pasqua. Per quanto ne so, su questa possibilità concordano anche i copti e i siro ortodossi. Papa Francesco su questo è molto disponibile. E ultimamente ha espresso apertura anche Bartolomeo I, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli. Magari si potrebbe provare a trovare prima un accordo sulla data comune per la celebrazione della Pasqua tra la Chiesa cattolica, la Chiesa Assira e le altre antiche Chiese d’Oriente. Gli ortodossi potrebbero poi unirsi progressivamente, se di volta in volta matura il consenso in ogni singola Chiesa ortodossa.
Lei, prima di venire a Roma e incontrare Papa Francesco, ha incontrato Kirill, il Patriarca di Mosca.
MAR AWA III: Sì, la settimana prima ero andato in Russia, a incontrare la nostra comunità in quel Paese, e ho incontrato a Mosca anche il Patriarca Kirill. Abbiamo parlato a lungo sulla condizione attuale dei cristiani del Medio Oriente. Lui mi ha detto anche di portare i suoi saluti sinceri a Papa Francesco, cosa che ho fatto qualche giorno dopo.
Il Patriarca Kirill viene attaccato come complice e quasi corresponsabile della guerra in Ucraina. Lei come lo ha trovato? E cosa pensa delle misure prese contro di lui e contro la Chiesa ortodossa russa?
MAR AWA III: Il Patriarca Kirill mi è apparso molto sincero. E comunque ogni demonizzazione della Chiesa russa o dello stesso Kirill non è giusta. Lui è a capo di una Chiesa, non guida la politica del Paese. E si capisce che lui sta in una posizione molto difficile. Bisogna tener conto anche di questo. Anche la decisione dell’Unione Europea di porre sanzioni ad personam contro di lui è una cosa inopportuna, crea un precedente grave e contraddice tutti i richiami a distinguere sfera ecclesiale e sfera politica, Chiesa e governo secolare. Se si prende questa strada, può accadere lo stesso a altri Capi e esponenti ecclesiali che siano fatti oggetto di valutazioni negative da parte di qualche apparato politico.
La guerra in Ucraina è anche una grande tragedia cristiana. Con Kirill ne avete parlato?
MAR AWA III: Io ho espresso il desiderio che si arrivi presto a un cessate il fuoco, e si arrivi a una soluzione per far cessare le sofferenza del popolo. Ucraini e russi condividono lo stesso battesimo, attingono alla stessa sorgente spirituale. E non ho trovato giuste nemmeno le pressioni operate per marginalizzare gli ortodossi russi negli incontri ecumenici, come si è tentato di fare nell’Assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese (WCC) ospitata tra agosto e settembre a Karlsruhe, in Germania. Bisogna sempre lasciare aperte le porte al dialogo. Mentre se si seguono certi ragionamenti, bisognerebbe per coerenza eliminare tutti i cappellani militari, che benedicono soldati inviati a fare la guerra, da una parte o dall’altra.
La teologia e la spiritualità della Chiesa assira sottolineano con forza la natura umana di Cristo. Questa prospettiva spirituale non potrebbe essere maggiormente valorizzata per l'annuncio cristiano nel tempo che stiamo vivendo? 
MAR AWA III: Nei manuali classici di teologia si scrive che la Chiesa assira mette l’accento con forza sull’umanità di Cristo. Ma prima occorre chiarire che noi confessiamo l’unità di divinità e umanità nella singola persona di Cristo. Come mostra la Scrittura e come è affermato anche vari Padri comuni della Chiesa, riconosciamo che arriviamo a contemplare il mistero della divinità di Cristo attraverso i gesti concreti della sua umanità. Questo fa parte dell’esperienza quotidiana dei cristiani quando pregano, quando vanno a messa e ricevono l’eucaristia.
Annunciando il Vangelo con questo accento, l’antica Chiesa assira d’Oriente ha vissuto una delle avventure missionarie più impressionanti della storia. Cosa può suggerire quell’esperienza dei primi secoli del cristianesimo ai missionari di oggi?
MAR AWA III: Nel 1904 a Turfan, nell’attuale provincia cinese dello Xinjiang, hanno trovato un libro di preghiere in cui le formule erano in siriaco e le rubriche erano riportate nella lingua locale. Si continuano a trovare resti di chiese e monasteri appartenuti a quella cristianità nell’attuale Mongolia e in tutta la Penisola arabica. I missionari della antica Chiesa d’Oriente erano un “esercito” di tipo spirituale. Erano soprattutto monaci e monache, e si recavano in contesti plasmati da altri pensieri, da antiche culture e mentalità religiose. Avvincevano i cuori delle persone con dolcezza, e non per dinamiche di conquista. E poi aiutavano le popolazioni locali a trovare i segni grafici per mettere in forma scritta le loro lingue e le loro parlate. E ogni urgenza, ogni problema concreto della vita diveniva occasione per fare il bene, diventando amici e fratelli con tutti.

2 dicembre 2022

UN: Iraq Christians were victims of Islamic State war crimes

By AP
Edith M. Lederer

Evidence collected in Iraq strengthens preliminary findings that Islamic State extremists committed crimes against humanity and war crimes against the Christian community after it seized about a third of the country in 2014, a U.N. investigative team said in a report circulated Thursday.
The report to the U.N. Security Council said crimes included forcibly transferring and persecuting Christians, seizing their property, engaging in sexual violence, enslavement and other “inhumane acts,” such as forced conversions and destruction of cultural and religious sites.
In addition, the team said it has identified leaders and prominent members of the Islamic State extremist group who participated in the attack and takeover of three predominantly Christian towns in the Nineveh plains north of Iraq’s second largest city, Mosul, in July and August 2014 -- Hamdaniyah, Karamlays and Bartella. It also started collecting evidence on crimes committed against the Christian community in Mosul.
Islamic State fighters seized Iraqi cities and declared a self-styled caliphate in a large swath of territory in Syria and Iraq in 2014. The group was formally declared defeated in Iraq in 2017 following a three-year bloody battle that left tens of thousands dead and cities in ruins, but its sleeper cells continue to stage attacks in different parts of Iraq. The 26-page report was submitted by the U.N. Investigative Team to Promote Accountability for Crimes committed by the Islamic State group, also known as IS, ISIL and Daesh.
The team updated its investigations into the extremists’ development and use of chemical and biological weapons, attacks on the Yazidi and Sunni communities, the mass execution of prisoners and detainees at Badush prison near Mosul in June 2014, and crimes in and around Tikrit.
In December 2021, the head of the U.N. team, Christian Ritscher, told the Security Council that Islamic State extremists committed crimes against humanity and war crimes at the prison in Badush.
In May 2021, Ritscher’s predecessor, Karim Khan, told the council that investigators had found “clear and compelling evidence” Islamic State extremists committed genocide against the Yazidi minority in 2014. He also said the militant group successfully developed chemical weapons and used mustard gas.
The new report said Ritscher’s team found evidence of payments to the families of Islamic State members killed deploying chemical weapons and records of payments for training senior operatives on the use of chemical weapons and devices to disperse such weapons.
The team said it is still assessing evidence of the use of agents.
“Evidence suggests that ISIL manufactured and produced chemical rockets and mortars, chemical ammunition for rocket-propelled grenades, chemical warheads and improvised explosive devices,” the report said. “Furthermore, the ISIL program involved the development, testing, weaponizations and deployment of a range of agents, including aluminum phosphide, chlorine, clostridium botulinum, cyanide, nicotine, ricin, and thallium sulphate.”
As for the destruction of cultural and religious sites by Islamic State fighters, the team said it expanded its investigations into different Iraqi communities and focused on several areas in Nineveh and Mosul.
This has led to a preliminary inventory of over 150 Kaka’i, Shabak and Shia Turkmen sites “suspected of having been destroyed by ISIL, along with enforced displacements, disappearances and sometimes killings of members of those communities,” the team said. It also identified places of worship and heritage sites in Tikrit that were severely damaged or destroyed by ISIL.
“The evidence obtained thus far shows that religious and cultural sites were either intentionally destroyed or taken over and occupied by ISIL, sometimes for military purposes, which resulted in their severe damage or destruction,” it said. “While the motives and methods adopted by ISIL are still being reviewed, it appears that explosives and heavy equipment were used to destroy many of the sites."
With regard to attacks on the Yazidi community in Sinjar, the team said it has expanded the list of identified perpetrators to currently include the names of 2,181 individuals, including 156 foreign fighters.
“In-depth case files have been developed in relation to 30 primary persons of interest,” it said.
The team said it has expanded its investigation into crimes by Islamic State against the Sunni community in Anbar, citing progress in its probe of the execution of hundreds of members of the Albu Nimr tribe between 2014 and 2016.
The U.N. investigation of the mass execution of detainees at Badush prison on June 10-11, 2014, continues, the team said, including interviews with additional witnesses and survivors.
This yielded “new and corroborative evidence on the circumstances under which approximately 1,000 predominantly Shia prisoners were targeted and executed by ISIL inside the prison and in various other locations,” it said.
The team said it has also continued investigating crimes against civilians in Tikrit and Alam in 2014 and 2015, and is gathering further evidence on the mass killing of unarmed military cadets and personnel from the Tikrit Air Academy in June 2014.
In the coming months, the investigators said they plan to focus on transitioning from investigations to building cases and sharing information with Iraq to spur prosecutions and accountability.

1 dicembre 2022

Il frutto della visita di papa Francesco in Iraq: procedono i lavori di costruzione della chiesa di Abramo ad Ur.

By Baghdadhope - Al Iraqiya - Shafaq

Photo Al Shafaq
La visita di Papa Francesco in Iraq nel marzo 2021 sta cominciando a dare frutti  concreti con l'avanzamento dei lavori di costruzione della chiesa che sorgerà ad Ur, il luogo natale del profeta Abramo e che ad egli sarà dedicata. 
Secondo quanto dichiarato all'inizio dei lavori lo scorso luglio dal vice governatore del governatorato di Dhi Qar, Ghassan Al-Khafaji, "La chiesa sarà dedicata ad Ibrahim Al-Khalil* dal nome del padre dei profeti nato in questa terra, mentre la grande sala interconfessionale sarà chiamata Pope Francis Hall secondo le istruzioni del Patriarca Louis Sako, la più alta autorità dei cattolici caldei nel mondo”.
Qualche giorno fa il supervisore del progetto, Talib Al Rikabi, ha dichiarato che  in tre mesi è stato completato il 30%  dei lavori di costruzione ed ha spiegato che la chiesa sarà situata su una superficie di 10.000 mq, conterrà una grande sala di 600 mq ed avrà una torre campanaria alta 23 metri.
Photo Al Shafaq
"La chiesa,"  la cui costruzione ha goduto di una cospicua donazione pari a 2 milioni di dollari da parte dell'uomo d'affari iracheno Edouard Fatohui Boutros,  e che sarà affiancata da una moschea come parte dell'iniziativa tesa alla pacifica convivenza delle religioni nella terra del profeta Abramo  "sarà un importante punto di riferimento turistico e religioso in grado di assicurare un ritorno economico."  
Il fatto poi che il complesso sarà polo di attrazione per i pellegrini che arriveranno in Iraq ed in particolare, quindi, nell'area archeologica di Ur, servirà, secondo Al Rikabi a fare pressione sui paesi a monte perché aumentino il rilascio di acqua necessaria alla sopravvivenza delle paludi, la dimora originaria dei Sumeri.
Un chiaro riferimento ai problemi idrici dell'Iraq causati non solo dai cambiamenti climatici ma anche dalla costruzione di grandi dighe da parte della Turchia sul Tigri (Diga di Ilisu) e dell'Iran (Diga di Daryan) sull'Eufrate.  

* Al Khalil (الخليل) "Amico di Dio" è l'epiteto di Abramo
 
nota di Baghdadhope 

29 novembre 2022

Iraq, la ricostruzione fisica e sociale di Mosul


L’inviato del Tg2000 Massimiliano Cochi ha raggiunto Mosul, dove procede la ricostruzione fisica e sociale della città dopo la liberazione, cinque anni fa, dal dominio del Califfato islamico.

   

25 novembre 2022

Erdogan spara sui curdi iracheni. Baghdad sposta le truppe al nord

Luca Geronico

Un nuovo fronte che si potrebbe aprire nel Rojava, il Kurdistan siriano a cui si guarda con apprensione anche a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno.
«Qui la vita quotidiana è la stessa di settimana scorsa», assicura il vescovo siro-cattolico di Erbil Nizar Semaan ma «vi è preoccupazione e auspichiamo che tutti agiscano responsabilmente».
I timori di una avanzata turca in Siria per creare la “zona cuscinetto” avanzando di 30 chilometri nel Nord Est della Siria, mercoledì sera ha convinto Baghdad ad ordinare di spostare più truppe lungo la frontiera: l’obiettivo è garantire la «linea zero» lungo i confini con Siria e Turchia.
Da domenica si sono intensificati i raid turchi in Iraq contro le basi del Pkk nascoste nella catena del Qandil, come nelle settimane precedenti quelli degli iraniani contro le basi del Pdk e della Lega dei lavoratori non lontano da Koy Sanjaq.
«Da alcuni villaggi le famiglie sono scappate per mettersi al sicuro», conclude il vescovo Semaan. Fughe che avvengono periodicamente quando la Turchia colpisce duro le basi del Pkk nei villaggi di frontiera dei governatorati di Duhok, Zako e ad Altun Kupri vicino a Kirkuk. Pezzi di una “guerra a pezzi” e dimenticata hanno fatto ricordare l’accordo turco iracheno degli anni ‘80 del secolo scorso quando, contro l’irredentismo curdo, la Turchia ottenne di poter fare incursioni di 20 chilometri oltre confine. La nuova partita, però, ora è quella in Siria con una possibile avanzata e la creazione di una “zona cuscinetto” che rappresenterebbe la fine dell’autorità regionale curda del Rojava. Alla Turchia serve, però, il «via libera» di Mosca e Washington. Il lavoro diplomatico con Mosca è già iniziato ad Ankara, sfruttando il primato negoziale per la crisi ucraina: «Continueremo a rispondere ai crescenti attacchi da parte di organizzazioni terroristiche nel nord della Siria contro civili turchi nelle zone di confine», ha affermato ieri il ministro della Difesa turco Hulusi Akar in una telefonata al collega russo Sergeij Shoigu.
«Nuovi equilibri» funzionali a garantire un successo internazionale ad Erdogan in vista delle elezioni politiche e presidenziali di giugno. Così, dopo anni di gelo, Erdogan ha affermato che «un incontro con Assad è possibile» dopo aver riattivato i contatti di intelligence tra Siria e Turchia. Lo scorso giugno Mosca aveva negato il via libera all’avanzata di terra turca e due giorni fa al vertice di Astana con Iran e Turchia sulla situazione in Siria Mosca ha rispolverato l’accordo di Adana del 1998 sui confini tra Siria e Turchia che dava la possibilità di incursioni 10 chilometri oltre il confine, ma non a una avanzata in grande stile. Solo mezze dichiarazioni da Washington, alleata dei peshmerga delle Ypg curdo-siriane. Ma il silenzio non riuscirà a disinnescare la bomba ad orologeria: finiti i raid in Iraq a dicembre, secondo la stampa turca inizierà il conto alla rovescia per “azzerare” il Rojava.

Kurdistan iracheno, p. Samir: Iran e Turchia unite nel colpire i curdi


I curdi nelle loro storiche terre fra Iraq e Siria sono presi fra due fuochi: da un lato la Turchia che “da molto tempo sta bombardando le montagne” sul versante di Amadiya e Zakho e, dall’altro, la “novità” rappresentata dall’Iran che “attacca dalla parte di Erbil e Sulaymaniyah, molto più vicino alle montagne”. 
A raccontarlo ad AsiaNews è p. Samir Youssef, parroco di Enishke, diocesi di Amadiya nel Kurdistan iracheno, che riferisce di una escalation delle operazioni di Teheran contro “i curdi iraniani fuggiti in passato. Di recente hanno colpito un centro profughi” provocando la morte “di almeno 11 civili”, fra i quali “una donna incinta” deceduta assieme al figlio che portava in grembo “nonostante i tentativi dei medici di salvarla”.
Nonostante i tentativi di sabotaggio della Cina, ieri il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato l’istituzione di una missione chiamata a indagare sulla violenta repressione degli ayatollah iraniani, in risposta all’ondata di proteste per l’uccisione della 22enne curda Mahsa Amini per mano della polizia della morale. 
Una mossa che non basta però a fermare il pugno di ferro impresso dalle autorità di Teheran, che in poche ore hanno compiuto altri due arresti eccellenti: Farideh Moradkhani, nipote della guida suprema Ali Khamenei, famosa per le sue battaglie pro-diritti umani e il calciatore Voria Ghafouri, con l’accusa di aver “insultato e infangato l’onore della nazionale” e per “propaganda contro lo Stato”.
Sul versante turco prosegue l’operazione “Spada ad artiglio” (Claw Sword) voluta dal presidente Recep Tayyip Erdogan contro i gruppi combattenti curdi Pkk e Ypg oltreconfine in Iraq e Siria, dove si lavora a un attacco di terra oltre all’uso di caccia e droni e giunta al quarto giorno. Una risposta all’attentato del 13 novembre a Istanbul e attribuito a una cellula curda, sebbene il Pkk abbia smentito ogni coinvolgimento. Il governo turco dice di aver già “neutralizzato” 254 “terroristi” e sta muovendo carri armati e truppe sul terreno. Per Erdogan questo è “solo l’inizio” e l’obiettivo è la messa in sicurezza del confine con Siria e Iraq, anche se i critici rispondono che è solo un tentativo di deviare l’attenzione da difficoltà interne e crisi economica.
“Gli iraniani hanno bombardato e minacciato i governi di Erbil e Baghdad - spiega p. Samir - dicendo di voler proseguire gli attacchi contro i curdi per togliere loro le armi. In realtà sono in larghissima maggioranza profughi, che Teheran colpisce con droni e razzi mentre dalla Turchia si susseguono attacchi dei caccia. Un movimento incessante, tanto che si fatica a dormire per il rumore”. Una situazione che, a differenza delle profonde divisioni del passato, spinge il sacerdote a ipotizzare “una qualche forma di collaborazione” fra il sultano e gli ayatollah in chiave anti-curda.
L’obiettivo per Teheran, prosegue, “potrebbe essere il Sinjar, già nel mirino in passato dello Stato islamico. Un avamposto strategico, una montagna ambita che potrebbe essere funzionale per colpire Israele in caso di risposte a un attacco”. “Il popolo curdo - afferma il parroco di Enishke, area in cui hanno trovato rifugio centinaia di migliaia fra cristiani e musulmani fuggiti dall’Isis nel 2014 - è oggi in mezzo a due fuochi: ma la novità è l’Iran che, per la prima volta, bombarda con forza anche nelle città dove si nasconderebbero basi e sedi di questi movimenti di opposizione”. E i loro razzi, avverte, hanno lambito anche “villaggi cristiani come quello di Armuta, dove gli abitanti ora hanno paura di una ulteriore escalation”.
“L’atmosfera è cupa - racconta - e i bombardamenti a tappeto calpestano la dignità del Paese e feriscono” l’Iraq e il Kurdistan. L’attentato a Istanbul “ha offerto il pretesto al governo turco per colpire con maggiore forza”, mentre l’Iran sembra sfruttare la repressione delle proteste per regolare i conti con i gruppi dissidenti fuggiti all’estero e che, secondo la versione ufficiale, soffierebbero dall’esterno “sul vento della protesta. In realtà le manifestazioni in Iran hanno un carattere vario e vedono anche la presenza di cristiani, sciiti, sunniti, curdi” in una lotta per la libertà. 
“Certo, noi siamo abituati alla guerra - conclude p. Samir - io stesso sono nato nel 1975 e ho vissuto quella con l’Iran, poi quella del Golfo, l’invasione Usa e lo Stato islamico. Ci eravamo abituati anche agli attacchi dei turchi, ma questa escalation con Teheran è più dura da accettare anche sul piano psicologico perché riporta alla mente sofferenze del passato”.

Guarda il video di TG 2000 cliccando sul titolo: 

Iraq, la storia di Harmota il villaggio cristiano ai confini con l'Iran

Patriarca caldeo Sako: i cristiani iracheni lasciano il Paese al ritmo di 20 famiglie al mese


I cristiani iracheni, in buona parte concentrati nelle città della Piana di Ninive e in altre aree del nord Iraq, continuano a lasciare il Paese “al ritmo di 20 famiglie al mese”.
Il dato è stato riferito dal Cardinale iracheno Louis Raphael Sako, Patriarca della Chiesa caldea, in una sofferta riflessione sulla condizione dei cristiani in Iraq.
Nelle sue considerazioni allarmate, diffuse dai canali mediatici del Patriarcato caldeo, il cardinale ricorda che più della metà dei cristiani iracheni sono emigrati negli ultimi lustri, e tanti altri “sono in lista d’attesa”.
Nel suo intervento il Patriarca caldeo si sofferma sui tanti fattori sociologici, politici e ambientali che favoriscono il lento e silenzioso esodo dei cristiani autoctoni dalle loro terre natìe. Instabilità politica e sociale, insicurezza, assenza di pari opportunità, discriminazioni e misure penalizzanti subite nei posti di lavoro, carenza di disposizioni giuridiche che tutelino la piena uguaglianza dei cittadini – compresi quelli cristiani – davanti alla legge.
In particolare, il Primate della Chiesa caldea chiama in causa la perdurante assenza di una legge sullo status personale dei cristiani, che continua a aprire la strada a discriminazioni di matrice settaria, costringendo tutti a regolare le questioni relative allo statuto della persona (come ad esempio il diritto matrimoniale, o le successioni ereditarie, o la custodia dei minori) secondo leggi che attingono alla tradizione giuridica islamica, e fanno riferimento, diretto o indiretto, alla Sharia.
Nel suo testo, il Patriarca deplora anche l’utilizzo strumentale di parole e simboli religiosi nelle propagande e nelle controversie politiche.
Il Patriarca riporta anche a titolo di esempi alcuni casi recenti di corruzione e discriminazione di cui è venuto a conoscenza. “Se qualcuno non vuole che rimaniamo nel nostro Paese come cittadini con pari dignità” conclude il Cardinale iracheno “ce lo dica con franchezza, in modo che possiamo affrontare la questione prima che sia troppo tardi”.

"Revive the Spirit of Mosul" e il ruolo degli UAE: la speranza trionfa sul fanatismo

Pablo Augusto

"Revive the Spirit of Mosul" è un'iniziativa lanciata nel 2018 dall'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura (UNESCO). L'organismo delle Nazioni Unite afferma che si trattava di una "risposta per il recupero di una delle città iconiche dell'Iraq".
Mosul ha sopportato un'occupazione durata tre anni (2014-2017) da parte dell'autoproclamato Stato islamico (Daesh), che ha portato alla distruzione dell'80% della citta'.
L'UNESCO afferma che il patrimonio della Città Vecchia "riflette l'interscambio di valori di tolleranza e convivenza attraverso molti secoli".
Lo storico iracheno Omar Mohammed, Research Fellow alla George Washington University, conosciuto inizialmente come il blogger anonimo 'Mosul Eye', che informava il mondo sulla vita sotto lo Stato Islamico, sottolinea che Mosul è una città dove ebrei, cristiani, yazidi e I musulmani di diverse sette una volta vivevano insieme. "Una città nota per la sua diversità unica", aggiunge.
L'UNESCO, secondo cui Mosul è stata "un luogo strategico per via del suo crocevia e ponte tra nord e sud, est e ovest" per millenni, afferma che la diversità della città l'ha resa un obiettivo per lo Stato islamico. Distrutta dalla guerra, un progetto di ricostruzione della città doveva tener conto di tutto ciò, basandosi su tre pilastri: patrimonio, vita culturale e istruzione, "Revive the Spirit of Mosul" è stato finanziato da 15 partner. Tra questi, gli Emirati Arabi Uniti, che hanno contribuito con 50 milioni di dollari e l'Unione Europea.
Inizialmente, il contributo degli Emirati Arabi Uniti alla ricostruzione del patrimonio culturale di Mosul riguardava il ripristino e la ricostruzione di punti di riferimento, come la Moschea Al-Nouri e il suo minareto Al-Hadba di 45 metri, costruito più di 800 anni fa. Tuttavia, un anno dopo, gli Emirati Arabi Uniti e l'UNESCO hanno rinnovato la loro collaborazione includendo il sostegno alla ricostruzione della Chiesa di Al-Tahera, considerata dall'UNESCO "un simbolo iconico intessuto nella storia di Mosul", e della Chiesa di Al-Saa, nota anche come Chiesa di Nostra Signora dell'Ora, entrambe costruite nel XIX secolo.
Dopo aver firmato l'accordo, Noura bint Mohammed Al Kaabi, Ministro della Cultura e della Gioventù degli Emirati Arabi Uniti, ha affermato: "Siamo molto onorati di firmare questa partnership con l'UNESCO e il popolo iracheno per portare avanti i nostri sforzi per aiutare a ricostruire Mosul e rilanciare il spirito di convivenza e coesione sociale”.
Anni dopo il lancio dell'iniziativa, Paolo Fontani, Direttore dell'UNESCO in Iraq, ha affermato in una conversazione con l'Agenzia di stampa degli Emirati (WAM) che "il dialogo è effettivamente lì; sta accadendo" in una città che è sempre stata vista come un luogo simboleggiano gli scambi, la convivenza di culture ed etnie diverse.
"Quindi questa è l'idea di far rivivere lo spirito di Mosul. Sta facendo rivivere la libertà della gente di Mosul e riportando le loro identità lavorando insieme. Sottolinea che la forza del male non vincerà e che la cultura rimarrà sempre parte del nostro patrimonio", dice Fontani, aggiungendo che la ricostruzione potrebbe significare un "simbolo di rinascita in Iraq" e nel mondo.
L'iniziativa, rallentata dalla pandemia di COVID-19, si sta avviando verso la fase finale. Il capo dell'Unesco in Iraq ci ricorda che è in corso la ricostruzione della moschea di Al Nouri, del minareto di Al Habda, della chiesa di Al-Saa'a e di Tahera. Fontani ritiene che la maggior parte dei monumenti sarà terminata entro la fine del 2023.
Il minareto di Al Habda richiederà alcuni mesi in più. "Stiamo costruendo utilizzando le stesse tecniche, lo stesso materiale, utilizzando modalità di ricostruzione che manterranno il valore di ciò che stiamo facendo", sottolinea.
Insieme alla ricostruzione edilizia prosegue anche quella del tessuto sociale, secondo Omar Mohammed. Lo storico afferma che la ripresa di Mosul è lenta ma va avanti. "Il tessuto sociale si sta riprendendo, è in fase di ri-sviluppo o sviluppo della sua narrativa di convivenza. E in futuro, più assistiamo al recupero dei siti del patrimonio culturale della città, più vediamo rafforzarsi il tessuto sociale”, ha dichiarato.
Mohammed ha citato le visite nel 2021 di Papa Francesco e del presidente francese, Emmanuel Macron, come tappe importanti nel processo di riabilitazione e ha espresso la speranza per una visita del Ministro della Cultura degli Emirati Arabi Uniti, Noura Al Kaabi, che, secondo lui, ha un collegamento diretto con Mosul e la sua ripresa.
Anni dopo la liberazione della città in una battaglia che ha ucciso migliaia di persone, altri segni confermano la sua riabilitazione. Paolo Fontani ci ricorda che il numero degli studenti iscritti all'Università di Mosul è salito dopo aver condiviso una conversazione con il capo dell'istituto. "Sapere che l'università prima della guerra aveva 37.000 studenti, e ora ne ha il doppio è stato rassicurante. Il numero di cristiani o yazidi ora è salito a migliaia, prima erano a due cifre", ha spiegato il capo dell'Unesco in Iraq.
"Revive the Spirit of Mosul" ha avuto un impatto multidimensionale e tangibile sulla città di Mosul. Il rappresentante dell'UNESCO in Iraq afferma che più di 1700 persone sono state formate e più di 3500 sono state impiegate nell'ambito dell'iniziativa. "Stiamo lavorando su un'area specifica, in cui si vedono le cose tornare indietro. Non stiamo solo costruendo monumenti, ma stiamo anche costruendo case. La gente sta tornando a vivere nell'area. Alcune organizzazioni culturali hanno iniziato a lavorare a Mosul, in particolare nella Città Vecchia. Di sicuro c'è attività, anche economica", aggiunge Fontani.
Quell'attività rappresenta un cambiamento rispetto allo scenario che Fontani ha dovuto affrontare al suo arrivo a Mosul nel 2019. "La prima volta che sono arrivato a Mosul c'era silenzio; probabilmente era la cosa più incredibile, era il silenzio; non c'erano macchine, persone, nessuno. Tutto è stato distrutto e c'era un silenzio totale", afferma. "Ora, negli anni, quando torno nella parte occidentale di Mosul, la Città Vecchia di Mosul è piena di gente, piena di traffico, forse già troppo traffico, ma movimento, negozi aperti, mercati aperti, Bazar aperti, gente che ricostruisce", dice.
Fontani ritiene che il fatto che un ente come l'UNESCO sia riuscito ad attrarre finanziamenti significativi per investire nel patrimonio e nella cultura dimostri che possono diventare una parte vitale del settore dello sviluppo di un Paese. "In Europa o nel mondo la cultura a volte rappresenta il 6% dell'occupazione, il 3% del Pil dei Paesi, quindi stiamo dimostrando che questo può accadere anche in Iraq; che la cultura può e deve diventare un motore di sviluppo e inoltre è molto stabile per lo sviluppo perché le persone stanno lavorando sul proprio patrimonio, sulla propria identità e questo è davvero importante", afferma.
"La ripresa di Mosul non è importante solo per la popolazione di Mosul, ma anche per il resto del mondo per mostrare l'importanza della mobilitazione internazionale. Mostra quanto sia importante questo tipo di collaborazione è, quanto è importante questo tipo di cooperazione", sottolinea Omar. Lo storico auspica che la sua città torni ad essere un centro culturale ed economico, uno spazio definito dalla convivenza e dal pluralismo. "La rinascita del patrimonio di Mosul rivelerà che l'unico modo per vivere insieme è credere nella diversità come un mosaico, dove ogni pezzo distinto è parte integrante della rivelazione del tutto, dove ogni pezzo mancante, alla fine, farà cadere tutti i loro comuni destini", afferma Mohammed.
Il recupero del tessuto sociale di Mosul, città il cui nome significa "punto di collegamento" in arabo, richiederà più tempo della ricostruzione di muri, moschee e chiese. Ma come ricorda il direttore dell'Unesco in Iraq, il dialogo è già presente. E Fontani è anche convinto di un brillante futuro davanti.
Concludendo il suo pensiero sull'iniziativa, Paolo Fontani sottolinea l'importanza del supporto dei partner che hanno sposato l'idea. "Penso che sia molto chiaro che tutto questo non sarebbe accaduto senza il grande sostegno degli Emirati Arabi Uniti e di altri donatori - una richiesta di aiuto che è stata ben accolta, che ci rende orgogliosi e consapevoli della responsabilità che ci hanno consegnato", conclude.

How Christians Are Battling Trauma In Iraq

By Learning from Christ

In 1945 a letter was sent to England by an unknown soldier fighting on the beaches of Normandy. The letter was a poem about how he rediscovered his faith during the battle. Later, it was picked up by the Canadian hospital ship, Letitia, which published it in their paper under the tidal “In the Foxhole.” [1]
The poem became a bit of a hit and is still discussed by history buffs and poetry lovers today. 
 In modern Christianity, there is a saying related to the unknown soldier’s poem. Although it takes many forms, it’s typically recited like this, “There are no atheists in a foxhole.” 
 On its face, the saying accurately describes the spiritual transformation many undergo during battle. As bombs and bullets rain from the sky, the dark stair of death becomes a suffocating reality, which causes many to call out to God. 
However, once the guns cease and death retreats back into the background of our day-to-day, the trauma of war lingers on—haunting those who survived.

The State of Christianity In Iraq
It is no secret that Iraq has seen its fair share of war. For the past 100 years, the nation has been in a state of almost constant conflict. For generations, the people of Iraq have witnessed local uprisings, civil wars, and wild warlords. Local political struggles aside, the nation has also received global attention as the battlefield for the most powerful countries and terrorist cells in the world.
This history of war, combined with the most recent conflict with the Islamic fundamentalist group, has adversely impacted the mental health of the local Christian community. Who, in the best of times, have to deal with unfair stigmas and persecution.
On the front lines of this mental health crisis stands a monk named Brother Wisam.
According to open doors USA, [2] Brother Wisam is a hardworking, hoody-wearing minister who deeply cares for the people of his community. After the displacement, he got to work helping those in need.
He told Open Doors, “I am not a psychologist… But what I saw working with the people during the displacement and then afterward alarmed me: People cannot get rid of the anger inside of them, triggering conflicts in families; people suffer from sleeplessness, substance abuse and [thoughts of] suicide, especially among young people.” 
In the interview, he told a reporter that, “If we don’t deal with the trauma in our community, the future of Christianity in Iraq is very dark,”
The severity of the mental pain he witnessed in the Christian community and the nation in general motivated Brother Wisam to do something.
Alongside an Open-Door partner, Brother Wisam has spearheaded a trauma care program in his local area of Al Kosh.

Vian, Trauma, and Hope
A great example of the trauma care program’s important work can be seen in a 35-year-old social worker named Vian. Working in the same region as Brother Wisam, Vian is the program facilitator at the trauma care center.
Like many of her peers, Vian is no stranger to conflict. She told Open Doors, “There were so many conflicts during my lifetime that I cannot even count them.”
Unlike the wars most of us in the Western world are familiar with, the battlefield was in Vian’s backyard. According to the article, her hometown was near the front lines of the recent conflict with the Islamic fundamentalist groups.
Fortunately, they were not overrun; however, they lived in a constant state of fear, ready to flee at a moment’s notice. Her experiences with the worst side of humanity genuinely impacted her spiritual health.
She told Open Doors, “When people used to tell me about God’s existence, I would be like, but what about the suffering, the torture, the displacement?… It is only through actively working through my trauma that I have been able to see the presence of God in all this.”
Her struggle to trust God after experiencing the horrors of war is an all-too-common story.
Brother Wisam explained the situation like this, “’After [the Islamic State group’s atrocities], people lost their trust. Their trust in each other, their trust in the future, and even their trust in God,’ ‘You have to imagine that some people lived next to their neighbors for 40 years, but when the Islamic State group came, the neighbors didn’t help [the Christians]; even worse, [the neighbors] stole from the Christians’ houses after they’d fled. If you cannot trust people that you see—how can you trust God, someone you don’t see?’”

Community and Stereotypes
Vian
is a shining example of the trauma care program’s positive effect on the local community. The program has allowed her to work through her trauma and inspired her to help others do the same. Currently, she is six months into her education at the center’s counseling school.
She told Open Doors, “’After graduation from the school, I hope to help people in need…’ ‘I want to help people realize that others are thinking about them, that people are for them. I want to use the skills I have learned to encourage people, so that we can build a strong and healthy Christian community together.’
Like many modern communities, mental health is not taken seriously in Iraq. Vian told Open Doors, “’As a society, we don’t accept the concept of trauma’… ‘We see people who are mentally ill as either crazy or lazy.’”
However, people like Brother Wisam, Vian, and the Open Doors partner are changing the way people view mental health in Iraq. 
According to Open Door, their partner has been combating the stigma surrounding mental health in the Christian community for the last seven years. Today the organization operates “three functioning trauma care centers, as well as a two-year counseling school for Christians in professions that encounter traumatized people.” Even with all this progress, there is still much work to do.
According to Brother Wisam, they are just getting started helping Christianity flourish in Iraq. “Because of the projects, many people are at least able to function in their daily lives. They are struggling, … but [they] survive. But wounds as deep as we are facing here aren’t fixed with one training. Creating awareness and achieving healing takes time. It might take years, generations. We have no other way: We must become people of peace.”

24 novembre 2022

Post-conflict Reconstruction in the Nineveh Plains of Iraq


The Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), founded and co-financed by the Swedish Government and known for scholarly work on issues of conflict and cooperation in the context of global peace and security developments, has released a recent report titled Post-conflict Reconstruction in the Nineveh Plains of Iraq: Agriculture, Cultural Practices and Social Cohesion.
The report focuses on the Nineveh Plain, part of Iraq's Nineveh province and the traditional homeland of the indigenous Assyro-Chaldean Christian population. The area also includes the ancient Assyrian ruins of the cities of Nineveh, Nimrud and Dur Sharrukin. In addition a minority of Yezidis, Shabaks and Turkmens lived there prior to the occupation by the Islamic State (IS) 2014.
According to the report, "between 2014 and 2017, tens of thousands of Iraqis were killed and millions were displaced as a result of the brutal occupation by the Islamic State (IS) group and the subsequent military campaign to defeat it. IS particularly targeted Members of these communities were executed, enslaved or forcibly converted to IS's radical form of Sunni Islam. Infrastructure and houses were reduced to rubble, and livelihoods based on crop and livestock farming were devastated. In addition, the destruction of many historical, religious and cultural heritage sites resulted in a sense of spiritual loss and community estrangement."
The report further summarizes that "the atrocities committed by the IS left deep scars on the Nineveh Plains in northern Iraq. IS deliberately targeted ethnic and religious communities with the aim of erasing the traces of diversity, pluralism and coexistence that have long characterized the region. IS destroyed sites of cultural and religious significance to these communities and devastated their livelihoods, including their crop and livestock farming activities."
The SIPRI Research Policy Report stresses the need for a holistic, a people-centered approach which is an "approach to post-conflict reconstruction in the Nineveh Plains that not only focuses on rebuilding the physical environment and economic structures but also pays adequate attention to restoring the ability of communities to engage in cultural and religious practices, and to mending social and inter-community relations. The report highlights the inter-connection of physical environments, economic structures, cultural practices and social dynamics. It stresses the need to address the impacts of the IS occupation while taking into account other pressing challenges such as climate change and water scarcity."

Open Doors Enables Mimi’s Family to Stay in Iraq

By MB Missions Box

Mimi (12) was very young when she fled her home in Bartella with her grandparents after so-called Islamic State invaded the Nineveh Plains. 
Until recently, Mimi’s parents were considering leaving Iraq – until they received a microloan to set up a farm through Open Doors partners.

Mimi:
“I love Iraq, because it is my country and I was born in it. I don’t want to leave. When Islamic state came and attacked Iraq I was sad about Iraq and asked why they did this.”

12-year-old Mimi is too young to remember all the details when Islamic State fighters invaded the Nineveh Plains in 2014. But she does recall fleeing with her grandparents from the town of Bartella that they used to call home.

Mimi:
“I was sleeping. And when I woke up I saw my grandfather and grandmother sitting there looking scared. I asked grandpa: ‘What’s wrong? Let’s go out for a little bit.’ They didn’t say anything. They said: ‘Later.’
“Then I saw them when we were in the car. I saw them going up to our place. I asked grandpa: ‘Where are we going?’ He said: ‘We’re just travelling.’ So we went and we reached a place, an apartment. We sat down and nana put on some cartoons on the TV, so we wouldn’t be scared.”

Even since Islamic State was driven out in 2017, many Iraqi Christians have chosen to leave the country. Mimi’s family also considered emigrating, until they heard about a microloan scheme supported by Open Doors partners. They received a loan and started a sheep farm about 30 miles north of Mosul. Mimi keeps chickens and loves to share what she has with her neighbours.”

Mimi:
“I have raised my chickens since they were little. I love them. At 7 o’clock in the morning, I collect the eggs from them. And in the afternoon at 4 o’clock, I also collect their eggs. Then someone might come who doesn’t have eggs and who wants eggs. He doesn’t have any he wants some little chicks. And I would give them to him so that he could raise them and they would become like my chickens. If someone would love to have chickens I would give them to him so that he would have chickens like me.
“I love this area. We are all brothers and sisters. We all know each other. I wouldn’t like to leave this place because first I have my chickens and second I have my friends.”

Iraq, la storia di Harmota il villaggio cristiano ai confini con l'Iran

By TG 2000
23 novembre 2022

  

L’inviato del Tg2000 Massimiliano Cochi è in Iraq, paese uscito dai riflettori dei media ma che non smette di patire per le guerre passate e per quelle presenti. Particolarmente difficile la situazione della sempre più esigua minoranza cristiana.

23 novembre 2022

Iraq. Un «ponte» che unisce Assisi e Ur per un vero pellegrinaggio di pace

Luca Geronico

«Noi come religiosi dobbiamo rafforzare il rapporto con Dio e servire l’uomo. Dobbiamo scendere dalle nostre poltrone e incontrare l’uomo».
Sorride affabile nella “divaneria” della moschea di Hussein – il più importante luogo santo per gli sciiti con il mausoleo di Ali a Najaf – lo sceicco Abdul Mahdi al-Karbalai: «Gesù viveva accanto agli uomini e noi, come i profeti, dobbiamo essere una porta per la misericordia di Dio. Dobbiamo imparare da Gesù e dagli altri profeti», afferma calmo lo sceicco conosciuto da tutti come il portavoce del grande ayatollah Ali al-Sistani. Il suo volto pacato che ogni venerdì, attraverso la televisione, entra nelle case di molti iracheni che ascoltano il “grande sermone”, ora accoglie qui a Kerbala la piccola delegazione giunta da Assisi.
Attraversare i portici che portano alla tomba di Hussein, a Kerbala – un centinaio di chilometri a sud di Baghdad – è un’esperienza che allarga i confini del sacro: in questo luogo nel 680 d.C. il figlio di Fatima, e quindi nipote del profeta Maometto, venne trucidato assieme a familiari e sostenitori dalle truppe del califfo omayyade Yazid. La moschea mausoleo di Hussein è al cuore dello sciismo: il martirio di Hussein sancì infatti la separazione definitiva tra sunniti e sciiti e ogni anno, per la festa dell’”ashura”, più di venti milioni di pellegrini visitano la moschea che ospita la tomba del martire sciita. In origine un minuscolo villaggio che attorno all’accoglienza di pellegrini da tutto il mondo ha visto fiorire una città santa, ed ora potrebbe diventare una tappa del cammino interreligioso dei figli di Abramo.
«In questo periodo la nostra maggiore attività è ancora di indagare tutti i crimini commessi nella Piana di Ninive e a Mosul: chiese, moschee, templi yazidi distrutti oltre a violenze sulle persone. Raccogliamo le prove che devono servire a far allontanare la gente da tutto questo: l’islam rifiuta tutto ciò che è violenza», spiega lo sceicco al-Karbalai che ricorda pure come nel «tempo della prova» a Kerbala «abbiamo accolto molti profughi da Mosul e dall’Ambar» che sono rimasti qui «finché non è passata la tempesta».
La «tempesta», ovviamente, è il Daesh che per tre anni ha seminato terrore nel Nord dell’Iraq, ma la «svolta» di cui ti parlano gli accompagnatori che fanno strada ai delegati della Diocesi di Assisi attraverso gli enormi portici della moschea è stata la visita di Papa Francesco in Iraq all’inizio di marzo del 2021.
Il detto dell’imam Ali: « Le persone sono di due tipi: o sono tuoi fratelli nella fede o tuoi simili nell’umanità» è divenuto un motto che ha aperto nuovi varchi e avviato contatti sinora inesplorati.
La foto del cardinale Gianfranco Ravasi sul telefonino dell’addetto stampa della moschea, pure lui in visita a Kerbala, è come un piccolo “trofeo” del nuovo corso.
A Najaf – l’altra città santa sciita a un centinaio di chilometri più a sud – è l’ayatollah Murtada al-Shirazi a ricevere la delegazione della “Commissione Spirito di Assisi” che, dopo aver celebrato con un convegno lo scorso 6 marzo nella città di San Francesco il primo anniversario della preghiera interreligiosa di Papa Francesco a Ur, ha risposto all’invito dell’ambasciata irachena di visitare i luoghi santi dell’Iraq.
Un pellegrinaggio di pace – con l’intenzione di costruire un ponte fra Assisi e Ur – iniziato con una celebrazione eucaristica sulla tomba di San Francesco: una riedizione aggiornata, dopo poco più di otto secoli, del viaggio di San Francesco fino in Egitto per incontrare il sultano al-Malik al-Khamil.
«La vostra – afferma austero e solenne l’ayatollah al-Shirazi nel salottino della scuola teologica a poche centinaia di metri dalla moschea-mausoleo di Ali – è una missione nobile di apertura di ponti. Sono necessari tre punti di partenza per il dialogo tra le religioni». Il primo: «Dio è il punto di incontro. “Al-Salam”, la pace è uno dei nomi di Dio.
Come è scritto nel Corano: tu guardi Dio e devi camminare sulla via della pace». Un dialogo che vuol dire pluralismo: «Come musulmani crediamo nel valore della democrazia che produce pace. La democrazia deriva dal Corano: in una sura si dice che se non ci fosse la sfida tra i partiti non ci sarebbe un comando. Senza questa sfida sarebbero caduti minareti e campanili».
Da Najaf – questo è il secondo punto – una mano tesa al dialogo tra le religioni e una sincera ammirazione per Gesù di Nazareth. Per affermarlo l’ayatollah, in modo solenne, apre il libro di un autore religioso del 1.160: «Ti abbiamo mandato per la misericordia nel mondo. La missione di Gesù è la carità, la preghiera di Gesù è a faccia a faccia con Dio». Toni molto poetici, prima di inanellare una versione sciita del discorso della montagna. «Beati gli operatori di pace, saranno più vicini a Dio nel giorno della risurrezione. Beati i puri di cuore, visiteranno Dio nel giorno della risurrezione...». E poi, terzo punto per il dialogo tra le religioni, la responsabilità. «Dio parla a Gesù: tu sei responsabile. Abbi pietà del debole, non trascurare l’orfano. Quello che sulla terra è per voi uomini, ma anche per gli animali: occorre responsabilità per l’ambiente».
Il pensiero, con spontanea naturalezza, va a un altro incontro – il 6 marzo del 2021 – in una spoglia casa nel centro di Najaf tra il grande ayatollah Ali al-Sistani e papa Francesco. « È stato un avvenimento coraggioso e storico. Una visita importante dal punto di vista spirituale, ma ora è importante fare altri passi concreti perché possa portare i dovuti frutti. Per questo il vostro lavoro come delegazione da Assisi è importante per dare concretezza ai risultati di quell’incontro. Chi fa il primo passo, indica una direzione, ma non può fare da solo: ci deve essere una collaborazione. Più incontri ci saranno, più frutti ci saranno», conclude l’ayatollah Murtada al-Shirazi.
La presa di contatto, da parte di una delegazione diocesana italiana, con i luoghi santi sciiti in Iraq è come un piccolo seme nella costruzione della fratellanza fra le fedi che, dopo la pubblicazione del Documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi e dell’enciclica Fratelli tutti, ha nella figura di Abramo il suo simbolo.
Così il 2 novembre lo spiazzo davanti alla ziggurat di Abramo, nel parco archeologico di Ur che accolse papa Francesco e gli altri leader religiosi iracheni è tornato a popolarsi. Scolaresche in festa e autorità locali hanno salutato il delegati della Terza conferenza del Comitato permanente per il dialogo interreligioso tra Iraq e Vaticano. I primi in assoluto svolti in Iraq, anche questo un risultato – gestito da governo iracheno e il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso del Vaticano – del viaggio di papa Francesco in Iraq.
La visita del Papa nel marzo 2021 ha rappresentato una svolta, dicono gli accompagnatori che fanno strada ai delegati diocesani della città di San Francesco. Un cammino appena iniziato, che può portare lontano
Molto significativo il tema scelto per il confronto fra i rappresentanti della Chiesa cattolica, sciiti, sunniti e altre minoranze religiose: l’educazione dei giovani con una particolare attenzione ai programmi scolastici e alla formazione degli insegnanti. La conferenza è stata così l’occasione per tornare a visitare i luoghi che papa Francesco aveva chiesto di custodire per ripercorrere «il cammino di Abramo» che fu «una benedizione di pace». Sotto il cielo che parlò ad Abramo, è tornata a risuonare la preghiera pronunciata il 6 marzo 2021: « Dio Onnipotente, Creatore nostro che ami la famiglia umana e tutto ciò che le tue mani hanno compiuto, noi, figli e figlie di Abramo appartenenti all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, insieme agli altri credenti e a tutte le persone di buona volontà, ti ringraziamo per averci donato come padre comune nella fede Abramo, figlio insigne di questa nobile e cara terra...».
Due giorni dopo, in Bahrein, papa Francesco incontrando i membri del Muslim council of elders, ha affermato: «Vengo a voi per camminare insieme, nello spirito di Francesco di Assisi, il quale era solito dire: “La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori”». Per poi aggiungere: «Credo che abbiamo sempre più bisogno di incontrarci, di conoscerci e di prenderci a cuore, di mettere la realtà davanti alle idee e le persone prima delle opinioni, l’apertura al Cielo prima delle distanze in Terra: un futuro di fraternità davanti a un passato di ostilità, superando i pregiudizi e le incomprensioni della storia in nome di Colui che è Fonte di Pace. D’altronde, come potranno i fedeli di religioni e culture diverse convivere, accogliersi e stimarsi a vicenda se noi restiamo estranei gli uni agli altri?» 
Intanto a Qaraqosh, nella Piana di Ninive ripopolata dopo la cacciata del Daesh, la fiamma di una lampada a olio, partita il 27 ottobre dalla tomba di San Francesco, attende accesa nella cappella del monastero dei Fratelli di Gesù redentore l’arrivo dei primi pellegrini sul cammino di Abramo.

22 novembre 2022

ROMA: Riunione della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira dell'Oriente

21 novembre 2022

Foto DPUC
Dal 16 al 19 novembre 2022, presso la Domus Sanctae Marthae in Vaticano, si è tenuta la quattordicesima sessione plenaria della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira dell'Oriente, ospitata dal Dicastero per la promozione dell'unità dei cristiani (DPUC).
La Commissione mista ha completato un documento di studio intitolato "Le immagini della Chiesa nella tradizione patristica siriaca e in quella latina", che si sofferma su alcune immagini e su alcuni simboli della Chiesa menzionati dalle Scritture e sviluppati dai Padri latini e siriaci nei primi secoli del cristianesimo.
Come spiega il comunicato rilasciato dalla Commissione, lo scopo del documento è “mostrare che le immagini della Chiesa, comuni a entrambe le tradizioni, sebbene talvolta espresse e comprese con sfumature diverse, possono aiutarci a trovare insieme i fondamenti di un'ecclesiologia comune”. Il documento riflette su nove immagini: Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo, Sposa di Cristo, Madre, vigna, ospedale spirituale, gregge e nave.
Mentre si riuniva la Commissione, ha avuto luogo anche la prima visita ufficiale di Sua Santità Mar Awa III, Catholicos-Patriarca della Chiesa assira d'Oriente, intronizzato nel settembre 2021.
Sabato 19 novembre, dopo la firma del documento da parte di Sua Beatitudine Mar Meelis Zaia, Metropolita di Australia, Copresidente della Commissione, e di Sua Eminenza il Cardinale Kurt Koch, Prefetto del DPUC, la Commissione è stata ricevuta in udienza da Papa Francesco presso il Palazzo Apostolico, insieme a Sua Santità Mar Awa III, Catholicos Patriarca della Chiesa assira d’Oriente.
Riflettendo sul nuovo documento della Commissione, il Santo Padre ha affermato che “Avete attinto all’ecclesiologia dei Padri, formulata in un linguaggio tipologico e simbolico ispirato alle Scritture. […] Questo linguaggio semplice, universale e accessibile a tutti, è più simile a quello di Gesù e dunque più vivo e attuale: parla ai nostri contemporanei più di tanti concetti. È importante che nel cammino ecumenico ci avviciniamo sempre di più, non solo tornando alle radici comuni, ma anche annunciando insieme al mondo d’oggi, con la testimonianza di vita e con parole di vita, il mistero d’amore di Cristo e della sua sposa, la Chiesa”.
La Commissione si riunirà nuovamente a Roma nel novembre 2023 per avviare uno nuovo studio sul tema "La liturgia nella vita della Chiesa: Uno studio comparativo delle tradizioni liturgiche della Chiesa latina e della Chiesa d'Oriente".
La Commissione era co-presieduta da Sua Beatitudine Mar Meelis Zaia, Metropolita di Australia, Nuova Zelanda e Libano, e da S.E. Mons. Johan Bonny, Vescovo di Anversa. I due Cosegretari sono l'Arcidiacono William Toma, Sottosegretario del Sinodo, e il Reverendo Padre Hyacinthe Destivelle, OP, Officiale del DPUC, incaricato delle relazioni con le Chiese ortodosse orientali.
L’ultimo incontro in presenza della commissione aveva avuto luogo i giorni 21-22 novembre 2019.

Nota di Baghdadhope: Presente anche il vescovo caldeo di Aleppo, Mons. Antoine Audo.

Udienza a Sua Santità Mar Awa III, Catholicos e Patriarca della Chiesa Assira d’Oriente

19 novembre 2022

Questa mattina, nel Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza Sua Santità Mar Awa III, Catholicos e Patriarca della Chiesa Assira d’Oriente, e Seguito. Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti nel corso dell’Udienza:

Discorso del Santo Padre

Santità,
La ringrazio per le cortesi parole e per la fraterna visita, la prima che compie in Vaticano in veste di Catholicos-Patriarca della venerabile e cara Chiesa assira dell’Oriente. Roma, tuttavia, non è per Vostra Santità estranea: in questo luogo ha vissuto e studiato e vorrei dirLe, parafrasando l’Apostolo Paolo, che qui non è uno straniero né un ospite, ma un concittadino (cfr Ef 2,19), anzi, un fratello amato, sul comune fondamento degli apostoli e dei profeti e soprattutto della pietra angolare che è Cristo Gesù, nostro Signore e nostro Dio (cfr v. 20).
A Lui rendo grazie per i legami intessuti negli ultimi decenni tra le nostre Chiese. A partire dalle numerose visite a Roma di Sua Santità Mar Dinkha IV, di benedetta memoria: dalla prima nel 1984 a quella di dieci anni più tardi, quando firmò con Papa Giovanni Paolo II la storica Dichiarazione comune cristologica, che pose fine a 1500 anni di controversie dottrinali riguardanti il Concilio di Efeso. Conservo poi nel cuore un grato ricordo degli incontri avuti con il Vostro venerato predecessore, Sua Santità Mar Gewargis III. In occasione della sua ultima visita a Roma nel 2018 firmammo insieme una Dichiarazione sulla situazione dei cristiani in Medio Oriente. Ricordo anche il nostro caloroso abbraccio a Erbil, durante il mio viaggio in Iraq, al termine della Celebrazione eucaristica: quel giorno tanti credenti, che avevano sperimentato immani sofferenze per il solo fatto di essere cristiani, ci circondavano con il loro calore e la loro gioia; il popolo santo di Dio sembrava incoraggiarci sulla strada di una maggiore unità!
Nel fare memoria del nostro cammino, vorrei salutare i membri della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira dell’Oriente e ricordare con gratitudine il lavoro finora svolto: sin dalla sua creazione nel 1994, la vostra Commissione ha prodotto risultati pregevoli. Penso allo studio sull’Anafora degli Apostoli Addai e Mari, che ha permesso nel 2001 la reciproca ammissione all’Eucaristia, in specifiche circostanze, dei fedeli della Chiesa assira dell’Oriente e della Chiesa caldea; come pure alla pubblicazione nel 2017 di una Dichiarazione comune sulla vita sacramentale. Gli incontri e il dialogo, con l’aiuto di Dio, hanno prodotto buoni frutti, hanno favorito la collaborazione pastorale per il bene dei nostri fedeli, un ecumenismo pastorale che è la via naturale della piena unità.
E venendo al presente, mi pare molto bello il tema del nuovo documento che state portando a termine: le immagini della Chiesa nella tradizione patristica siriaca e latina. Avete attinto all’ecclesiologia dei Padri, formulata in un linguaggio tipologico e simbolico ispirato alle Scritture. Più che presentazioni concettuali e sistematiche, i Padri hanno parlato della Chiesa evocando numerose immagini, come la luna, la tunica inconsutile, il banchetto, la stanza nuziale, la nave, il giardino, la vite… Questo linguaggio semplice, universale e accessibile a tutti, è più simile a quello di Gesù e dunque più vivo e attuale: parla ai nostri contemporanei più di tanti concetti. È importante che nel cammino ecumenico ci avviciniamo sempre di più, non solo tornando alle radici comuni, ma anche annunciando insieme al mondo d’oggi, con la testimonianza di vita e con parole di vita, il mistero d’amore di Cristo e della sua sposa, la Chiesa.
Santità, la vostra Chiesa ha in comune con la Chiesa cattolica caldea una luminosa storia di fede e di missione, la vita esemplare di grandi santi, un ricco patrimonio teologico e liturgico e, soprattutto negli ultimi anni, immani sofferenze e la testimonianza di numerosi martiri. Purtroppo il Medio Oriente è ancora ferito da tanta violenza, instabilità e insicurezza, e tanti nostri fratelli e sorelle nella fede hanno dovuto lasciare le loro terre. Molti lottano per rimanervi e io rinnovo con Vostra Santità l’appello affinché godano dei loro diritti, in particolare della libertà religiosa e della piena cittadinanza. In questo contesto il clero e i fedeli delle nostre Chiese cercano di offrire una testimonianza comune del Vangelo di Cristo in condizioni difficili e vivono già in molti luoghi una comunione quasi completa. Questo è vero e questa situazione è un segno dei tempi, un richiamo forte per noi a pregare e a operare intensamente per preparare il giorno tanto atteso in cui potremo celebrare insieme l’Eucaristia, il Santo Qurbana, sullo stesso altare, quale compimento dell’unità delle nostre Chiese, unità che non è né assorbimento né fusione, ma comunione fraterna nella verità e nell’amore.
Caro Fratello, Santità, so che fra qualche giorno terrà una relazione sulla sinodalità nella tradizione siriaca, nell’ambito del simposio “In ascolto dell’Oriente” organizzato dall’Angelicum, sull’esperienza sinodale delle varie Chiese ortodosse e ortodosse orientali. Il cammino della sinodalità, che la Chiesa cattolica sta percorrendo, è e dev’essere ecumenico, così come il cammino ecumenico è sinodale. Mi auguro che potremo sempre più fraternamente e concretamente proseguire il nostro “syn-odos”, il nostro “cammino comune”, incontrandoci, prendendoci a cuore, condividendo le speranze e le fatiche e soprattutto, come in questa mattina, la preghiera e la lode del Signore. Ringrazio in proposito Vostra Santità per aver dato voce al desiderio di trovare una data comune perché i cristiani celebrino insieme la Pasqua. E su questo io vorrei dire – ribadire – quello che San Paolo VI disse a suo tempo: noi siamo pronti ad accettare qualsiasi proposta che venga fatta insieme. Il 2025 è un anno importante: si celebrerà l’anniversario del primo Concilio Ecumenico (Nicea), ma è importante anche perché celebreremo la Pasqua nella stessa data. Allora, abbiamo il coraggio di porre fine a questa divisione, che alle volte fa ridere: “Il tuo Cristo quando risuscita?” Il segnale da dare è: un solo Cristo per tutti noi. Siamo coraggiosi e cerchiamo insieme: io sono disposto, ma non io, la Chiesa cattolica è disposta a seguire quello che disse San Paolo VI. Mettetevi d’accordo e noi andremo lì dove dite. Oso pure esprimere un sogno: che la separazione con l’amata Chiesa assira dell’Oriente, la prima duratura nella storia della Chiesa, possa essere anche, a Dio piacendo, la prima a venire risolta.
Affidiamo questo nostro cammino all’intercessione dei martiri e dei santi che, già uniti in Cielo, incoraggiano il nostro percorso in terra. In questo senso ho desiderato offrirLe, caro Fratello, una reliquia dell’Apostolo San Tommaso, per il cui dono ringrazio l’Arcivescovo Emidio Cipollone e l’Arcidiocesi di Lanciano-Ortona. So che essa sarà collocata nella nuova Cattedrale Patriarcale della Chiesa assira dell’Oriente, a Erbil. San Tommaso, che ha toccato con mano le piaghe del Signore, affretti il completo rimarginamento delle nostre ferite passate, perché presto possiamo riconoscere attorno a un solo altare eucaristico il Crocifisso Risorto e dirgli insieme: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).
Vorrei dire ancora una parola. Avrei voluto condividere con voi il pranzo, per concludere bene, comment il faut, ma devo partire alle 10.30. Per favore, scusatemi! Non vorrei che si dica che questo Papa è un po’ tirchio e non ci invita a pranzo! A me piacerebbe tanto condividere la tavola, ma non mancherà un’altra opportunità. Grazie, Santità, e grazie a tutti voi!

Accademico iracheno: da papa Francesco la via per il dialogo fra sunniti e sciiti

Dario Salvi

Il tema del dialogo islamo-cristiano e quello interno al mondo musulmano, sciita e sunnita, è riemerso a più livelli in questo mese di novembre in concomitanza con incontri di primissimo piano che hanno registrato la partecipazione delle massime cariche religiose.
Dal Forum for Dialogue in Bahrein con papa Francesco e l’imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, al Forum per la Pace di Abu Dhabi con la partecipazione di personalità musulmane, cristiane ed ebraiche, il cammino indicato dal pontefice nel 2019 continua seppur fra limiti e ostacoli.
Di recente il patriarca di Baghdad dei caldei card. Louis Raphael Sako ha sottolineato come “dialogo e riconciliazione” siano necessari per la “stabilità e la sicurezza regionale” e le “divisioni” fra sciiti e sunniti vanno superate mediante confronto “diretto” e “rispetto”.
Dagli Emirati sono giunte parole inedite anche da al-Tayyeb, il quale ha lanciato un raro appello all’unità: “Chiedo ai miei fratelli, agli studiosi musulmani in tutto il mondo e di ogni dottrina, setta e scuola di pensiero di promuovere il dialogo interno all’islam”. “Respingiamo insieme qualsiasi discorso di odio, provocazione e scomunica - ha aggiunto l’imam dell’università al Cairo, fra i centri più autorevoli dell’islam sunnita - e mettiamo da parte il conflitto antico e moderno, in tutte le sue forme”.
Abbiamo approfondito questi temi con Saad Salloum, giornalista, professore associato di Scienze politiche all’università di al-Mustanṣiriyya a Baghdad e vincitore di numerosi riconoscimenti, che attraverso la Fondazione Masarat di cui è presidente sostiene l’ideale del dialogo.
Intervistato da AsiaNews, egli ha sottolineato che è “fondamentale” venga mantenuto e rafforzato fra cristiani e musulmani, ma altrettanto importante che si affermi in modo concreto e costruttivo anche quello “interno […] fra sunniti e sciiti”. Una riflessione in linea con l’appello dell’imam di al-Azhar e fra i frutti più importanti “dei viaggi del papa” in Medio oriente. Un primo risultato di questa unità di intenti si è vista nelle proteste di piazza in Iraq, in cui “giovani di etnie e confessioni diverse” sono scesi “assieme” a manifestare “per riformare il sistema politico”.

Di seguito, l’intervista completa:
Dal Bahrein ad Abu Dhabi, si sono tenuti importanti forum cui hanno partecipato, fra gli altri, papa Francesco e l’imam di al-Azhar. Che valore hanno in un’ottica di dialogo fra fedi?
I forum in Bahrein e negli Emirati sono parte integrante e completano la visita del papa ad Abu Dhabi del 2019, l’incontro con lo sceicco al-Tayyeb e la firma del documento sulla fratellanza umana, infine il viaggio in Iraq e il faccia a faccia con al-Sistani a Najaf. Questi due ultimi eventi sono parte del percorso e riflettono la politica del pontefice, secondo cui è fondamentale il dialogo fra cristiani e musulmani ma è altrettanto importante quello interno all’islam, fra sunniti e sciiti. Ed è anche per questo che l’imam di al-Azhar, quando in Bahrein ha incontrato Francesco, ha sollevato la questione interna fra sunniti e sciiti. Porre al centro dell’attenzione questo tema è uno dei riflessi più importanti dei viaggi apostolici [in Medio oriente] e dell’invito al dialogo.
Il papa ha compiuto diversi passi verso il mondo musulmano, frutto della comune intesa con l’imam di al-Azhar. Ma questo percorso ha avuto una sponda nella società?
Certo! Oggi vi sono elementi visibili sul piano sociale o a livello di popolo. La visita del papa non è solo l’incontro fra leader, con al-Tayyeb o al-Sistani. Quando la sua immagine viene mostrata in televisione o nei social emerge la consapevolezza che cristianesimo e cristiani sono parte integrante della vita [della regione]. E vedere assieme cristiani e musulmani ai più alti livelli è un messaggio alle persone comuni: oggi il pontefice è una sorta di ”eroe popolare”, un portatore di pace e il simbolo dell’essere leader religiosi e incidere in modo positivo. Di come il clero possa essere parte della soluzione, non del problema come avveniva in passato.
Prof. Salloum, tornando alle parole di al-Tayyeb a che punto sono oggi i rapporti fra islam sunnita e sciita?
La lotta interna al mondo musulmano cambia l’identità e il volto del Medio oriente. Abbiamo due capitali, o due potenze regionali [Arabia Saudita e Iran], e ciascuna rappresenta una delle due interpretazione dell’islam. In questa battaglia vi sono molte nazioni coinvolte, anche se molte vorrebbero mantenere una posizione di neutralità in questo conflitto. Il ruolo del papa in questo dialogo, le sue visite sono un tentativo di cambiare questa lotta, spingere i leader politici di questi Paesi a pensare mille volte prima di focalizzarsi sulla competizione. Al contrario, devono costruire ponti. I vertici delle due dottrine hanno incontrato il pontefice e vogliono mostrare che l’islam è parte di questo nuovo mondo. Con il cristianesimo e l’ebraismo ha in comune la discendenza da Abramo, che assieme devono gettare le basi per sostenere la pace, non i conflitti. Abbiamo testimoniato la distruzione di molte nazioni come Siria, Yemen, Iraq, Libano ed è questo uno dei riflessi della lotta interna all’islam. La visita del papa è una luce per trovare una soluzione.
Il patriarca Sako ha chiesto maggiore confronto fra i due mondi. Sunniti e sciiti devono parlarsi di più e meglio secondo lei?
Quello che ha detto il primate caldeo e che io stesso ho ripetuto molte volte nelle televisioni irachene e libanesi, nelle università e nei congressi, e col lavoro della nostra fondazione Masarat è proprio di sostenere questo dialogo interno. È una premessa, una introduzione confronto con altre fedi. Le parole del papa e del patriarca [e l’invito dell’imam di al-Azhar] sono ciò di cui abbiamo bisogno per cambiare la realtà del Medio oriente a livello sociale, politico, culturale e religioso.
Come definirebbe oggi la realtà irachena in una prospettiva di dialogo interno?
Dopo l’Isis e la distruzione di Mosul, del Sinjar, della piana di Ninive e dei crimini jihadisti contro l’umanità, dopo il genocidio yazidi, il popolo iracheno ha iniziato davvero a riflettere e domandarsi come fare per non rivivere tutto questo ancora una volta. L’Iraq è in vetta alle nazioni del Medio oriente per atrocità vissute nella lotta interna al mondo musulmano. Per 17 anni dopo l’invasione Usa del 2003 abbiamo visto la distruzione della comunità sciita, di quella sunnita, la perdita di sovranità. Le persone vogliono vivere la loro vita; il cuore, la mentalità sono cambiate in Iraq prima di altre nazioni. Questo si è visto nelle proteste dell’ottobre 2019, quanto molti giovani di etnie e confessioni diverse, dai cristiani agli yazidi, dai sunniti agli sciiti sono scesi assieme in piazza Tahrir a manifestare per cercare di riformare il sistema politico.
Il valore del perdono e l’esegesi dei testi sacri sono ancora due elementi che differenziano islam e cristianesimo? Ed è possibile, o auspicabile, immaginare progressi?
Nel Corano e nella Bibbia vi sono passi che parlano di tolleranza e coesistenza. Non è solo questione di interpretazione, ma si tratta di avere anche un ambiente che sul piano sociale e politico sostenga questa interpretazione. Penso che la differenza fra Oriente e Occidente consista nel fatto che noi non abbiamo avuto, almeno sinora, un ambiente sociale e politico fondato sull’elemento della tolleranza. Qualcosa sta però scuotendo la regione e le nuove generazioni sembrano maggiormente orientate verso questa prospettiva, verso un cambiamento dei segni, dei passaggi, delle interpretazioni.
Quali passi vanno fatti per risolvere le dispute interne, le lotte, le divisioni?
Bisogna insistere sul dialogo interno, questo è il primo passo che dovremmo compiere. Va rafforzato il confronto, dobbiamo costruire ponti, fare comunità. Io stesso, nei miei studi e nel lavoro promosso dalla mia fondazione, sto spingendo proprio in questa direzione.