"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

13 dicembre 2008

Italia/Santa Sede: Frattini, grande impegno per minoranze cristiane

Fonte: ASCA

13 dicembre . Il ministro degli Esteri Franco Frattini, parlando a papa Benedetto XVI in occasione della visita di quest'ultimo all'ambasciata italiana della Santa Sede, ha sottolineato la ''profonda sensibilita'' del nostro Paese ''per la sorte delle minoranze cristiane in ogni parte del mondo, esercitando una costante azione a loro supporto''.
Nei confronti della minoranza cristiana in India, ''di fronte ai recenti luttuosi avvenimenti'', Frattini ha ribadito l'importanza dell'intervento italiano, ''sia bilateralmente che nell'ambito dell'Unione europea. Siamo inoltre fortemente convinti - ha aggiunto - che la stabilizzazione del Medio Oriente passi anche attraverso la salvaguardia delle diverse comunita' cristiane storicamente presenti nella regione alle quali, in particolare in Libano e in Iraq, forniamo il nostro supporto e aiuto''.

«Obama, non dimenticare i cristiani in Iraq»

Fonte: Avvenire

11 dicembre. «Non dimenticare l'Iraq e i cristiani che vi abitano». E' questo l'appello lanciato dal patriarca caldeo Emmanuel III Delli, creato cardinale da Benedetto XVI nel Concistoro dello scorso anno, al presidente eletto degli Stati Uniti Barack Obama. Il patriarca caldeo ha parlato a Detroit durante un viaggio negli Stati Uniti per incontrare le comunità caldee. Delli ha detto che «gli ultimi cinque anni sono stati il periodo peggiore che io abbia mai visto nella mia vita» e che «l'occupazione anglo-americana non è stata positiva per i cristiani e nemmeno per l'Iraq». Il cardinale Delli ha poi ricordato che la violenza colpisce tutti, anche gli islamici, «ma noi cristiani ne sentiamo maggiormente le conseguenze perché siamo un gruppo piccolo, senza alcuna protezione».

9 dicembre 2008

Stern: Apriamo le porte agli emigranti cristiani della Terra Santa

Fonte: Terrasanta
di Manuela Borraccino
Roma, 5 dicembre 2008

È giusto fare di tutto perché i cristiani del Medio Oriente «possano restare nei loro Paesi d'origine e prosperare» ma, date le «discriminazioni che caratterizzano la loro condizione di minoranza», nessuno può impedire l'esodo inarrestabile che nel giro di 15-20 anni potrebbe dimezzarne il numero in tutta la regione: «Occorre piuttosto favorire con adeguate politiche di accoglienza il loro inserimento nei Paesi occidentali». Una presa di posizione impopolare, quella di mons. Robert Strern, presidente della Missione pontificia per la Palestina e segretario generale della Catholic Near East Welfare Association (Cnewa), il braccio umanitario della Santa Sede per l'aiuto ai cristiani delle Chiese orientali.
Invitato a parlare alla Consulta mondiale dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro convocata ogni cinque anni per valutare la situazione dei cattolici di Terra Santa ed approvare gli aiuti umanitari, il sacerdote newyorchese che da quarant'anni viaggia nella regione ha analizzato le conseguenze delle tendenze demografiche in atto: «La nostra fede, a differenza dell'ebraismo e dell'islam, non dipende da luoghi fisici: se anche non restasse un solo cristiano in Terra Santa, il cristianesimo resterebbe vivo e diffuso» ha detto.
Lei viaggia da quarant'anni in Medio Oriente, nel Corno d'Africa, in India. Come vede il futuro dei cristiani?
Se tentiamo di tracciare uno scenario in modo asettico, ispirandoci alle statistiche demografiche come se fossimo dei sociologi, la tendenza inarrestabile che emerge dai dati è che l'esodo dei cristiani in atto da più di mille anni da tutto il Medio Oriente si sta accelerando nelle ultime generazioni. I cristiani di Terra Santa sono oggi la più piccola fra tutte le minoranze cristiane del Medio Oriente: in Israele, secondo le ultime statistiche dell'ottobre 2007, i cristiani rappresentano il 2 per cento della popolazione: circa 147mila su 7 milioni e 337mila abitanti, in gran parte arabi, ai quali vanno aggiunti almeno 300mila «non ebrei» giunti in Israele dall'Europa dell'Est e dalle Filippine negli ultimi anni. Nei Territori palestinesi sono circa l'1 per cento della popolazione, alcune decine di migliaia su 3 milioni e 800mila palestinesi circa. In Giordania sono il 4 per cento, circa 250mila su 5 milioni e 600mila abitanti. In Libano, un tempo a maggioranza cattolica, i cristiani sono scesi al 30 per cento: sono oggi 1 milione e 170mila su 3 milioni e 900mila abitanti. In Siria ed in Egitto sono circa il 10 per cento della popolazione: rispettivamente 1 milione e 850mila su quasi 19 milioni di siriani, e circa 9 milioni su 81 milioni di egiziani. In Iraq, per quanto se ne sappia, erano circa il 3 per cento della popolazione prima della guerra: oggi molti meno. Se guardiamo indietro nella storia, erano il 100 per cento! Ma, secondo le ultime proiezioni, i cristiani potrebbero ridursi a 6 milioni in tutta la regione nei prossimi 15-20 anni.
A parte l'instabilità cronica, quali sono le cause principali?
I cristiani del Medio Oriente sono stranieri in una terra inospitale, anche se sono nati lì. In Israele vivono in uno Stato e in un società ebraici, nei Paesi musulmani vivono immersi in una società islamica. Per quanto siano discendenti degli abitanti originari di quelle terre, viene fatto in modo che essi sentano di non essere più «adatti» a quelle terre, di non appartenervi più. E questo perché spesso i cristiani vengono identificati con l'Occidente, cosa che talvolta essi stessi incoraggiano con le loro parole e azioni. La loro stessa condizione di minoranza li espone alle discriminazioni: sono cittadini di serie B non solo nei Paesi musulmani, ma anche in un Paese democratico come Israele.
La Chiesa universale cerca da sempre di favorirne la presenza, eppure l'esodo continua. Che fare?
Io credo che, anziché contrastare questo movimento, dovremmo favorirlo. È giusto creare le condizioni di sicurezza, pacificazione e benessere affinché i cristiani che vogliono restare in Medio Oriente possano vivere e prosperare. Ma, date le circostanze, non possiamo impedire che cerchino un avvenire migliore per se stessi e per i loro figli e dovremmo piuttosto aiutarli, chiedendo ai nostri governanti di elaborare politiche che ne aiutino l'inserimento. Ci preoccupiamo che i grandi stormi di uccelli migratori possano viaggiare ogni anno dal Canada al Messico, che i salmoni possano risalire le correnti dei fiumi e andare al nord... perché dunque facciamo di tutto per impedire le migrazioni umane? Io penso che una delle grandi sfide del nostro tempo sia quella di facilitare le migrazioni, essere più generosi nell'accoglienza, favorire in particolare il processo di integrazione dei cristiani del Medio Oriente nei Paesi occidentali: questo è un tema politico di grande rilevanza.
Non c'è il rischio che i Luoghi santi diventino dei monumenti archeologici, svuotati delle loro comunità?
Non sto dicendo che sia uno scenario auspicabile: ovviamente vogliamo fare di tutto perché i cristiani restino ed è estremamente importante che nelle loro difficoltà avvertano il sostegno della Chiesa universale. Quel che intendo dire, però, è che la nostra fede non dipende da alcuni luoghi, come avviene nelle altre religioni abramitriche: pensiamo all'enorme importanza di Eretz Israel (la terra di Israele) nell'ebraismo, o ai santuari della Mecca, Medina o Gerusalemme per l'Islam... Invece il messaggio di Cristo è per ogni uomo, la natura intrinseca del cristianesimo non è vincolata a un luogo o ad un'etnia. Perciò la Terra Santa conserverà sempre un luogo speciale nei nostri cuori, nella nostra memoria, nelle nostre menti e nelle nostre vite ma, se anche non restasse un solo cristiano in Terra Santa, il cristianesimo resterebbe vivo e diffuso.
Che cosa si aspetta dalla presidenza di Barack Obama?
Gli Stati Uniti hanno storicamente un ruolo di primo piano in Medio Oriente e la mia speranza, specialmente come cittadino americano, è che il nuovo presidente apra nuove prospettive. Il fatto che sia figlio di una madre americana cristiana e di un padre africano musulmano, che sia nato alle Hawaii e abbia passato diversi anni in Indonesia, gli dà maggiori chances di capire le differenze. Almeno questo è quanto ci ha detto durante la campagna elettorale, quindi mi aspetto che porti una ventata di freschezza nella politica Usa verso il Medio Oriente. E che porti una forte leadership! Perché quello di cui si sente la mancanza in Israele e in Palestina è proprio la presenza di un leader, qualcuno che abbia la forza e la capacità di mettere insieme le persone ed imporre una soluzione al conflitto arabo-israeliano.
Che impatto potrà avere il viaggio del Papa di cui ormai si parla?
Penso che per i cristiani, e non solo per loro, sarà una grande iniezione di energia. Ero lì quando venne Giovanni Paolo II e tutti, ebrei cristiani e musulmani, passarono quelle giornate incollati alla tivù guardando quel piccolo uomo vestito di bianco che pregava, parlava, offriva Messe, visitava le persone... È stato un momento di pace, di calma in mezzo alla tempesta. Spero che per Papa Benedetto XVI possa essere lo stesso. Lui è Pontifex, «costruttore di ponti»... Io spero che quando sarà lì la sua presenza, le sue parole e la sua preghiera possano contribuire a sanare le terribili divisioni fra i popoli, fra le religioni e la politica.

6 dicembre 2008

Babilonia, mito e realtà




13 novembre 2008 - 15 marzo 2009


Per duemila anni il mito di Babilonia ha ossessionato l’immaginazione europea.

La Torre di Babele ed i giardini pensili, il banchetto alla corte di Baldassarre e la caduta di Babilonia hanno ispirato artisti, scrittori, poeti, filosofi e registi. Nel corso degli ultimi duecento anni gli archeologi hanno lentamente rimesso insieme la 'vera' Babilonia - una capitale imperiale, un grande centro scientifico, artistico e commerciale. Dal 2003, la nostra attenzione è stato attirata da nuove minacce all’archeologia della Mesopotamia, il moderno Iraq. Attingendo al patrimonio del British Museum di Londra, del Musée du Louvre e della Réunion des musées nationaux di Parigi, e del Vorderasiatisches Museum di Berlino, la mostra esplora il dialogo continuo tra la Babilonia della nostra immaginazione e le testimonianze storiche di una delle grande città dell’antichità al momento del suo culmine e della sua eclissi.

Esplora online:


Babylon, myth and reality

The British Museum, London

November 13, 2008 – March 15, 2009

For two thousand years the myth of Babylon has haunted the European imagination. The Tower of Babel and the Hanging Gardens, Belshazzar’s Feast and the Fall of Babylon have inspired artists, writers, poets, philosophers and film makers.
Over the past two hundred years, archaeologists have slowly pieced together the ‘real’ Babylon – an imperial capital, a great centre of science, art and commerce. Since 2003, our attention has been drawn to new threats to the archaeology of Mesopotamia, modern day Iraq.
Drawing on the combined holdings of the British Museum London, the musée du Louvre and the Réunion des musées nationaux, Paris, and the Vorderasiatisches Museum Berlin, the exhibition explores the continuing dialogue between the Babylon of our imagination and the historic evidence for one of the great cities of antiquity at the moment of its climax and eclipse.


5 dicembre 2008

I cristiani iracheni e quell'esperienza di libertà negata


di Roberto Fontolan

Un trafiletto nei giorni scorsi riportava una frase tratta da un’intervista di fine mandato rilasciata da George Bush alla televisione ABC. Qual era il suo più grande rimpianto? Aver scoperto che le notizie sulle armi di distruzione di massa che Saddam stava accumulando in Iraq erano false.
Non una cosa da poco, dal momento che quelle armi furono la motivazione ufficiale della guerra. Si ricorderà l’audizione di Colin Powell che esibiva davanti alle televisioni di tutto il mondo le foto e i filmati di mezzi e impianti piazzati nel deserto, le “prove schiaccianti” della minaccia irachena.
Qualche tempo dopo Colin Powell si dimise e chiunque al mondo lesse in quelle dimissioni l’esito della frattura con il presidente: il generale aveva “dovuto” obbedire, ma non lo avrebbe più fatto. La guerra ci fu e sappiamo come è andata e come sta andando (per avere qualche idea di come sia vissuta in questa fase dall’immaginario americano è utile vedere i film “The Hurtlocker” e “Nessuna verità”).
Recentemente il parlamento iracheno ha approvato il piano di ritiro americano, che fissa al 2011 la fine dell’operazione in corso da cinque anni. Ma dire che l’Iraq resta e resterà in una situazione drammatica è un eufemismo.
Dell’intero Paese soltanto il Kurdistan, a nord, vive in pace e (quasi) prosperità: uno stato di semi-indipendenza, alimentato dal locale esercito e dagli accordi petroliferi realizzati autonomamente, che infatti fanno arrabbiare il governo centrale di Baghdad. Nel resto dell’Iraq, gli accordi tra sunniti e sciiti si fanno e si disfano velocemente mentre continuano a imperversare milizie e terroristi di ogni possibile sfumatura.
È vero però che la strategia essenzialmente militare messa in atto dal generale Petreus ha dato frutti e per questo non può essere abbandonata, pur restando la domanda sulla sua tenuta nel tempo. Cosa succederà, come si evolverà la situazione irachena è un enigma. L’influenza, se non di più, dell’Iran; la forza di Al Qaeda (oggettivamente rilanciata dalla strage di Mumbai, anche se i suoi legami con la squadra di mujahiddin potrebbero risultare molto esili); il conflitto intramusulmano e arabo-curdo; il rapporto con gli Usa… al momento sono tutte incognite che sicuramente riempiono il dossier Iraq sul tavolo del nuovo segretario di Stato designato, Hillary Rodham Clinton, che per ottenere la conferma dovrà superare le forche caudine delle audizioni del Congresso (e soprattutto dovrà farlo il marito Bill la cui Fondazione ha raccolto 500 milioni di dollari, anche da donatori arabi).
In quel dossier non è certo che ci sia un rapporto sul miserevole stato dei cristiani iracheni. Non passa giorno senza che dalle loro comunità si levino grida di morte e di aiuto. Davanti alle persecuzioni, agli esodi, alle devastazioni, agli omicidi mirati, occorre riconoscere che la sopravvivenza dei cristiani in Iraq è un tema largamente sottovalutato.
Prima di tutto dalla comunità musulmana mondiale, se mai ne esista una. Settimane fa, nel corso del Forum islamo-cristiano di Roma, un illuminato e moderatissimo studioso sciita iraniano, profugo dal suo Paese e stimato docente in una università (cattolica) di Washington, a una domanda sul tema ha saputo rispondere: «Sono stati molti di più i morti musulmani in Bosnia a opera dei serbi». Diciamo che fino a che i “leader” islamici risponderanno così, resteranno sempre poco credibili.
I cristiani iracheni sono martirizzati dai musulmani, spesso per ragioni unicamente religiose: questa è la verità nuda e cruda e le grandi moschee d’occidente così come i capi islamici, a cominciare dal re dell’Arabia, dovrebbero prendere atto, condannare, agire di conseguenza. Ma poi il tema è bellamente ignorato dalle diplomazie occidentali, eccetto il nostro ministro Frattini che la settimana scorsa ha parlato chiaro ai governanti iracheni, e clamorosamente dai media e dunque dall’opinione pubblica.
Non è una faccenda risolvibile con la pur doverosa accoglienza (l’Unione europea lo farà con diecimila profughi), ma solo con il riconoscimento concreto del diritto alla libertà religiosa in un Paese verso il quale erano state assunte parecchie responsabilità tra cui quella di “esportare la democrazia”.
Un diritto che va difeso, persino con le armi, e che dovrebbe dare il titolo centrale alle celebrazioni per i 60 anni della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, in programma la settimana prossima.
Dedichiamola ai cristiani iracheni, facciamo pensare il mondo al valore della libertà religiosa. Se si riuscirà a fare un passo avanti in questo cammino anche quelle vecchie false notizie potranno essere servite a qualcosa.

IRAQ - Il fuoco acceso

Fonte: SIR

a cura di Daniele Rocchi

Nonostante la violenza non mancano esempi di convivenza “A Natale siamo soliti accendere un fuoco in chiesa, e tenerlo acceso per tutto il tempo della veglia. In questo modo vogliamo simbolicamente tenere caldo a Gesù appena nato. Ma anche questo anno, come accaduto per i precedenti, sarà un Natale diverso. La grotta di Gesù saranno le case abbandonate dai cristiani perseguitati a Mosul e in altre città, le famiglie fuggite o colpite dall’odio integralista”. Mons. Shlemon Warduni, vicario episcopale di Baghdad, spera che il prossimo 25 dicembre sia una festa diversa ma resta con i piedi per terra.
“Manca la sicurezza, la stabilità, certamente ci sono stati progressi in questi settori, ma molto resta ancora da fare e la gente ha paura. Così a Baghdad, la tradizionale messa di mezzanotte e le principali liturgie natalizie si celebreranno tutte di giorno, mentre nel chiuso delle case le famiglie si riuniranno per la festa, per scambiarsi dolci di datteri e di cocco, e dare qualche piccolo regalo ai bambini”. “In queste ore – dice – il pensiero e le preghiere vanno a quei cristiani perseguitati, ai nostri martiri uccisi per la fede, all’Iraq che possa rinascere come luogo di convivenza e di rispetto dei diritti di tutti”.
Eccellenza, lei ha parlato di “odio integralista”. Significa forse, che, fuori da questo, i rapporti quotidiani con la maggioranza musulmana è ancora buona?
La convivenza quotidiana con i musulmani è buona. Ci siamo sempre rispettati. Nella vita di tutti i giorni non abbiamo molti problemi. Quando sono in macchina per Baghdad e indosso la mia tonaca ai check point le guardie irachene mi salutano, mi rispettano, mi lasciano passare, cosa che non fanno i militari inglesi o americani. C’è amicizia ma, purtroppo, ci sono anche i fanatici. È una convivenza che passa attraverso tante situazioni non sempre favorevoli per la minoranza cristiana”.
A Mosul, però, le cose sembrano andare diversamente, o no?
“La solidarietà mostrata dai musulmani di Mosul verso i loro concittadini cristiani costretti alla fuga è stata grande. Non me l’aspettavo. Hanno pregato i cristiani di non lasciare le loro case e molti sono andati a fare loro visita quando hanno saputo dove si erano rifugiati. Hanno portato loro dei viveri e addirittura sono andati con dei furgoni a cercare di riportarli a Mosul rassicurandoli che gli avrebbero fatto da scudo contro gli attacchi degli estremisti. Molti musulmani di Mosul hanno difeso le case dei cristiani fuggiti, impedendo che venissero saccheggiate. Le famiglie cristiane una volta rientrate hanno ricevuto una grande accoglienza, i bambini, i giovani sono stati festeggiati appena tornati a scuola. C’è da sperare che questo spirito di coesistenza rimanga”.
Quanto pesa il proliferare di sette cristiane nel rapporto con la maggioranza musulmana?
“Il proliferare delle sette religiose mette ulteriormente a rischio la minoranza cristiana esponendola all’ingiusta accusa di proselitismo. Con le altre confessioni cristiane in Iraq siamo impegnati nel dialogo. Dalla caduta di Saddam, invece, assistiamo ad un proliferare di questi gruppi e movimenti religiosi cristiani. Hanno a disposizione soldi e mezzi di trasporto con i quali raccolgono bambini e giovani, offrono loro cibo e denaro. Sono in gran parte di origine inglese e americana. Tra queste c’è addirittura chi battezza, per la seconda volta, i cristiani. Questo ci espone alle accuse di proselitismo da parte dell’Islam anche se i musulmani sanno bene che non siamo noi. È un fenomeno, comunque, diffuso più nel nord Iraq, in Kurdistan, dove c’è più libertà”.
Se sul piano sociale il rispetto e la convivenza sembrano possibili, su quello politico pare non ci sia spazio per i cristiani. L’art. 50 della legge elettorale lo prova...
“In occasione della questione legata all’art. 50 della legge elettorale dei Consigli provinciali, abbiamo protestato per la drastica diminuzione dei seggi riservati a tutte le minoranze, non solo cristiana, ma anche mandea, shabak, yezida, ricevendo solo promesse non mantenute. Politicamente in Iraq siamo visti come stranieri, l’Europa e l’Onu restano a guardare. Ma sui diritti umani non si può transigere, il loro rispetto è fondamentale in uno Stato democratico. In Parlamento è stato detto che se si davano più seggi ai cristiani questi avrebbero stretto alleanze con i curdi, rafforzandoli. Un ragionamento politico che non ha niente a che vedere con il rispetto dei diritti. I cristiani rischiano di essere strumentalizzati politicamente e questo ci fa soffrire”.
Quale contributo può dare alla rinascita irachena una minoranza così indebolita?
Essere minoranza non significa non contribuire alla costruzione di un Iraq nuovo e prospero. Tutt’altro. I cristiani hanno alti livelli di istruzione. Tra loro ci sono medici, ingegneri, docenti, questa è la ricchezza, la vera forza che costruisce un Paese. Tanto più che le condizioni economiche sono ancora piuttosto critiche. Non vediamo infrastrutture, strade, scuole, ospedali, servizi, ci chiediamo dove vanno a finire i proventi del petrolio”.

3 dicembre 2008

La fuga dei cristiani dall'Iraq aumenta

Fonte: Ekklesia

Tradotto da Baghdadhope

Le parole di incoraggiamento dei leaders della chiesa locali, regionali ed internazionali che vogliono che le istituzioni cristiane rimangano in Iraq non sono state in grado di arrestare l'ondata di rifugiati iracheni in fuga dalla violenza nel paese, scrive Chris Herlinger.

La famiglia del sessantenne Basil Mati Koriya Kaktoma e di sua moglie Ekram Ishak Buni Safar, 55 anni, vive in Siria dal luglio del 2006. I rifugiati come loro sono fermamente decisi a non fare ritorno in patria considerando le esperienze di minacce, abusi e, come nel caso di Kaktoma, di un sequestro di una settimana da parte di musulmani armati che Kaktoma pensa l'abbiano preso di mira perchè cristiano.
"Preferirei andare all'inferno ma non tornare in Iraq" Kaktoma ha recentemente dichiarato nel corso di un'intervista nel minuscolo appartamento a Damasco. "Ciò che ho visto è così orribile che non riesco neanche a guardare una mappa del mio paese". I leaders in Siria della chiesa cattolica caldea cui Kaktoma appartiene riconoscono la dolorosa e paradossale situazione che le istituzioni cristiane affrontano a causa della natura settaria della violenza in Iraq.
Sebbene vogliano che la loro chiesa rimanga in Iraq, un paese con una delle più antiche comunità cristiane del mondo, essi ritengono che la prospettiva a lungo termine di una sua presenza nel paese sia incerta. In una tale situazione la chiesa deve anche dare aiuto alle migliaia di sfollati cristiani che ora vivono in Siria e Libano, ma che sperano di raggiungere gli altri membri delle famiglie in paesi come Stati Uniti, Canada o Australia.
"I cristiani hanno perso molto in una tale situazione" ha dichiarato Antoine Audo, vescovo cattolico caldeo di Aleppo in Siria riferendosi all'invasione americana del 2003 ed al caos politico e sociale che l'ha seguita. "La continuità della storia cristiana nella regione è molto importante. La nostra presenza è importante. Abbiamo un'esperienza unica di convivenza con l'Islam."
Questa natura unica della presenza cristiana in Iraq è stata una delle ragioni per le quali il segretario generale del World Council of Churches, Samuel Kobia, ha affermato ad ottobre che sperava che i cristiani in Iraq potessero, e volessero, rimanere nel paese. In una lettera ad essi indirizzata del 14 ottobre Kobia ha scritto: "La vostra presenza è l'assicurazione che il cristianesimo resiste, voi siete un segno di speranza per la gente di fede in ogni parte del mondo."
Nonostante ciò, però, i leaders cristiani riconoscono che la situazione per i cristiani in Iraq è dura e scoraggiante. Più di 200 cristiani sono stati uccisi dal 2003 e dozzine di chiese, compresa quella che Kaktoma, Safar ed i loro 4 figli frequentavano, sono state attaccate.
Oltre a ciò da un terzo alla metà degli 800.000 cristiani che vivevano in Iraq all'inizio dell'invasione americana si stima abbiano lasciato il paese.
I leaders della chiesa spesso esprimono la speranza che i cristiani iracheni rimangano almeno in Medio Oriente così che la vita cristiana irachena possa continuare nella regione che diede origine alla tradizione cristiana.
Eppure essi riconoscono anche il bisogno di rispettare la decisione delle famiglie irachene che desiderano riunirsi ai parenti altrove nel mondo.
"Vanno dove possono" ha detto Monsignor Audo, "io faccio di tutto per dare un futuro alla nostra chiesa. Non so cosa succederà."
Per Kaktoma, impiegato di una compagnia petrolifera in pensione, ogni futuro dovrà essere più lontano possibile dal luogo del suo rapimento avvenuto a maggio del 2006 e durato 8 giorni e risoltosi con la frattura e la permanente pigmentazione della gamba destra. Il rilascio di Kaktoma fu reso possibile perchè alcuni parenti negli Stati Uniti ed in Canada hanno pagato il riscatto.
Parlando a nome di tutta la sua famiglia del passato e del futuro Safar ha detto: "L'Iraq è finito."

Indigenous Christian exit from Iraq continues to grow

Source: Ekklesia

Words of encouragement from local, regional and international church leaders, who want Christian institutions to remain in Iraq, have not been able to stem a tide of Iraqi refugees from leaving their country in the face of violence - writes Chris Herlinger.

The family of 60-year-old Basil Mati Koriya Kaktoma and his wife, Ekram Ishak Buni Safar, aged 55, have lived in Syria since July 2006. Refugees such as these are adamant they will never return to their homeland given their experience of threats, physical abuse and, in the case of Kaktoma, a week-long abduction by Muslim gunmen Kaktoma believes targeted him because he is Christian.
"I'd rather go to hell than go back to Iraq," Kaktoma said in a recent interview in the family's cramped apartment in Damascus. "What I saw was so horrible that I can't even look at a map of my own country."
Syrian-based leaders of the Chaldean Catholic Church, to which Kaktoma belongs, acknowledge the painful and paradoxical situation Christian institutions face because of the sectarian nature of violence in Iraq.
While they want the Church to remain in Iraq, which is a country with one of the oldest Christian communities in the world, the leaders believe the long-term outlook for a church presence in Iraq is precarious.
In this situation, the Church must also offer succour to the thousands of displaced Christians who now reside in Syria and Lebanon but hope to join family members in countries such as the United States, Canada and Australia.
"The Christians lost a lot in this situation," Antoine Audo, the Chaldean Catholic bishop of Aleppo, Syria, said about the 2003 U.S. invasion of Iraq, and the political and social chaos that followed. "It's very important to have the continuity of [Christian] history in the region. Our presence is important. We have a unique experience of living with Islam."
That unique nature of a Christian presence in Iraq was one reason World Council of Churches General Secretary Samuel Kobia said in October that he hoped Christians in Iraq could, and would, remain in their country. Kobia wrote to them in a 14 October letter, "Your presence in the land is an assurance that Christianity continues to endure; you are a sign of hope to people of faith everywhere."
Yet, Christian leaders acknowledge the situation for Christians in Iraq is hard and dispiriting. More than 200 Iraqi Christians have been killed since 2003, and dozens of churches, including the Baghdad church Kaktoma, Safar and their four children once attended, have been bombed. Moreover, anywhere from one-third to a half of the 800 000 Christians who lived in Iraq at the beginning of the U.S. invasion are believed to have fled the country.
Church leaders often express hope that displaced Christian Iraqis can at least remain in the Middle East so that Iraqi Christian life can continue in the region that gave birth to Christian tradition.
Still, they also acknowledge the need to respect the decision of Iraqi families who wish to join relatives elsewhere in the world. "They go where they can go," Bishop Audo said. "I am doing everything to give a future for our church," he said. "What will happen, I don't know."
For Kaktoma, a retired oil company employee, any future must be as far away as possible from the site of his eight-day May 2006 abduction. The trauma included an assault, which broke his right leg and permanently discoloured it. Kaktoma's release was made possible, when relatives in the United States and Canada paid a ransom.
Speaking for her entire family about their past and future, Safar said: "Iraq is finished."

Iraq: proposta UE rifugiati, Mons. Sleiman (Baghdad) "E' un invito a lasciare il paese"

Fonte: SIR

L’annuncio dell’Ue, lo scorso 27 novembre, di voler accogliere fino a 10mila rifugiati iracheni, specie quelli più vulnerabili come i membri delle minoranze religiose, lascia “perplesso” mons. Jean B. Sleiman, arcivescovo di Baghdad dei Latini. “L’Ue vuole aiutare i cristiani o incoraggiare l’emigrazione delle minoranze e svuotarne l’Iraq? In una proposta di questo genere la gente esausta dell’Iraq vede un invito a lasciare il Paese” dichiara al Sir. D’altra parte, aggiunge, “i non cristiani, che soffrono anche dei tempi bui del loro Paese, vedranno facilmente in questa misura un favoreggiamento dei cristiani che sono già ingiustamente sospettati di fare il gioco dell’Occidente”. “Certo, bisogna aiutare i bisognosi – ribadisce mons. Sleiman - ma la soluzione non è semplicemente l’emigrazione. Dopo tutto, l’Iraq è il loro paese e ha bisogno della loro presenza. Non tutti, poi, sono nelle stesse situazioni. Dare l’asilo politico a chi è minacciato di morte è un atto di solidarietà meritevole. Darlo indistintamente a tutti quelli che hanno lasciato il paese è un incoraggiamento perché tutti facciano la stessa cosa”. “Non sarebbe meglio – conclude - spingere il governo a ridare allo Stato tutta l’autorità e tutti i mezzi necessari perché ridiventi l’arbitro e il protettore della società? I cristiani come gli altri cittadini iracheni hanno bisogno di uno Stato di diritto”.

Iraq: EU proposal on refugees, Mgr. Sleiman (Baghdad) "An encouragement to leave the country"

Source: SIR

Mgr Jean b. Sleiman, Latin Archbishop of Baghdad, said he is sceptical about the EU announcement, made last 27 November, the EU will try to accept up to 10,000 Iraqi refugees, especially the most vulnerable ones such as the members of religious minorities.
“Does the EU want to help Christians or to encourage the emigration of minorities from Iraq? Such a proposition is seen by exhausted people in Iraq as an invitation to leave the country,” he declared to the SIR. On the other hand, “Non-Christians who are also suffering bad times in their country, will see that Christians, who are already unjustly accused of collaborating with the Occident, will be favoured by this measure,” he added. “Certainly, people in need must be helped, but the solution is not a mere emigration. Iraq is their country and needs their presence. Not everyone is in the same situation. Giving political asylum to those who are menaced with death is a remarkable act of solidarity. But giving it indistinctly to all those who had fled the country is like encouraging everyone to do the same thing.”
“Wouldn't it be better to put the government in the position of giving back to the state the authority and the means it requires to be restored as judge and protector of society? Christians and all other Iraqi citizens need a state of law.”

Conclusioni del Consiglio Europeo sull'accoglienza dei profughi iracheni


Tradotto da Baghdadhope

2987a riunione del Consiglio di Giustizia e Affari interni Bruxelles,
27-28 Novembre 2008
Il Consiglio è giunto alle seguenti conclusioni:

"1. Ricordando le conclusioni cui si giunse il 24 luglio ed il 25 settembre 2008 in cui:
- si è ritenuto necessario proseguire i contatti per accordarsi sulla forma di solidarietà più appropriata per tutti gli iracheni, e riesaminare la questione;
-si è evidenziata, in quel contesto, l'intenzione della Commissione di svolgere una missione in Siria e Giordania accompagnato dagli Stati membri interessati al fine di valutare, insieme con l'Ufficio dell’ Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) la situazione dei profughi iracheni più vulnerabili in quei paesi, ed esaminare la possibilità di reinsediamento negli Stati membri disposti a riceverli;
- si è osservato anche che l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati aveva espresso la speranza che alla fine la maggior parte dei profughi iracheni possa tornare nel proprio paese di origine in condizioni di sicurezza, anche se, per alcuni, una nuova sistemazione continuerà ad essere necessaria.

2. La missione si è svolta dall'1 al 6 novembre in Siria ed in Giordania e il Consiglio ha recepito la relazione presentata dalla Commissione.
Il Consiglio prende atto in particolare:
- dell'analisi della difficile situazione affrontata da molti rifugiati provenienti dall'Iraq e del loro crescente bisogno di assistenza;
- del fatto che tornare in Iraq si pensa sia l'unica soluzione per la grande maggioranza dei profughi iracheni;
- che il loro ritorno in patria dalla Siria e la Giordania, tuttavia, non è ad oggi significativo;
- che l'integrazione in Siria e la Giordania può essere una soluzione riguardante solo un numero molto ristretto di rifugiati;
- della necessità di reinsediamento di un certo numero di rifugiati che non hanno alcuna prospettiva di soluzione duratura alternativa, neanche a lungo termine; persone che sono in una situazione di vulnerabilità e che sono facilmente identificabili, in particolare quelli con esigenze mediche, vittime di traumi o torture, membri delle minoranze religiose, o le donne sole con responsabilità familiari;
- del fatto che un maggiore sforzo nei confronti del reinsediamento nei paesi dell'Unione europea sarà un segnale positivo di solidarietà per tutti gli iracheni e di cooperazione per la Siria e la Giordania per il mantenimento della loro area di protezione.

Il Consiglio prende altresì atto della particolare situazione dei palestinesi che hanno lasciato l'Iraq per la Siria per i quali nessun altra soluzione se non il reinsediamento appare possibile.

3. Il Consiglio sottolinea, come già fece nelle conclusioni del 25 luglio 2008, che l'obiettivo principale è quello di creare le condizioni per le quali gli sfollati all'interno dell'Iraq ed i rifugiati nei paesi vicini possano tranquillamente tornare alle loro case, assicurandosi nel contempo che i diritti umani di tutti gli iracheni siano protetti e difesi.
Il Consiglio ribadisce inoltre le conclusioni raggiunte il 23 aprile 2007 sulla situazione in Iraq che prevedevano un approccio globale alla questione.
In questo contesto la Commissione osserva che i Paesi Bassi hanno indetto una riunione ad alto livello a le Hague il 1 ° e 2 dicembre 2008 volta a contribuire ad una coordinata risposta da parte dell’Unione Europea nei confronti dei flussi migratori da o verso l'Iraq.

4. Il Consiglio ricorda gli aiuti umanitari e finanziari dell'Unione europea e degli Stati membri ai rifugiati iracheni, così come il contributo degli Stati membri che accolgono sul proprio territorio gli iracheni che presentano una domanda d'asilo.
Tuttavia, considerando l'attuale situazione in Iraq e nei paesi vicini, nonché i risultati della missione effettuata dalla Commissione, il Consiglio ritiene necessario un maggiore impegno.
A questo proposito esso si compiace del fatto che alcuni Stati membri stiano già accogliendo dei rifugiati iracheni, in particolare nell'ambito dei loro programmi nazionali di reinsediamento.

5. In questo contesto, come segnale di solidarietà, il Consiglio invita gli Stati membri ad accogliere dei rifugiati iracheni che si trovano in una situazione particolarmente vulnerabile, come quelli con particolari esigenze mediche, le vittime di traumi o di torture, i membri delle minoranze religiose e le donne sole con responsabilità familiari.
Questo deve essere fatto su base volontaria, in funzione delle capacità ricettive degli Stati membri e dell’impegno da essi già attuato in termini di accoglimento dei rifugiati.
In considerazione degli obiettivi di reinsediamento fissati dall’UNHCR, e tenendo conto delle numero di persone già accolte o che già è previsto verranno accolte dagli Stati membri, in particolare secondo i diversi programmi nazionali di reinsediamento, l'obiettivo potrebbe essere quello di accogliere, su base volontaria, un massimo di circa 10.000 profughi
Nell’accettare la proposta gli Stati membri dovrebbero cooperare strettamente con l'UNHCR e con le altre organizzazioni competenti presenti nella regione, non dimenticando l'importanza di promuovere la riconciliazione tra le comunità irachene in Iraq.

6. Si sottolinea che il Fondo europeo per i rifugiati fornisce un sostegno finanziario per i progetti di reinsediamento e che gli Stati membri hanno tempo fino al 19 dicembre 2008 per indicare le loro intenzioni al fine di calcolare la ripartizione dei finanziamenti per il 2009.
La Commissione è invitata a riferire al Consiglio all'inizio del 2009 sulle informazioni raccolte dagli Stati membri sulla base di queste conclusioni.

European Council Conclusions on the reception of Iraqi refugees


2987th JUSTICE and HOME AFFAIRS Council meeting
Brussels, 27-28 November 2008

The Council adopted the following conclusions:
"1. The Council recalls its conclusions of 24 July and 25 September 2008, in which:
– it considered it necessary to continue contacts in order to agree on the most appropriate forms of solidarity with all Iraqis, and agreed to return to the question;
– it noted, in this context, the Commission's intention to conduct a mission to Syria and Jordan, accompanied by the Member States concerned, in order to assess, together with the Office of the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), the situation of the most vulnerable Iraqi refugees in those countries, and to examine the possibilities for resettlement in Member States willing to receive them;
– it noted also that the United Nations High Commissioner for Refugees had expressed the hope that eventually most Iraqi refugees would be able to return to their country of origin in conditions of security, although, for some, resettlement would continue to be necessary.

2. That mission took place from 1 to 6 November in Syria and Jordan and the Council welcomes
the report submitted by the Commission as a follow-up to it.
The Council notes in particular:
– the analysis of the difficult situation faced by many refugees from Iraq and their increasing need for assistance;
– the fact that return to Iraq is thought to be the only eventual solution for the great majority of Iraqi refugees;
– that return from Syria and Jordan is not, however, significant today;
– that local integration in Syria and Jordan can be a solution only for a very small number of refugees;
the need for resettlement of a certain number of refugees who have no prospect of any other lasting solution, even in the long term; these are people in a vulnerable situation who are easily identifiable, especially those with medical needs, trauma or torture victims, members of religious minorities, or women on their own with family responsibilities;
– the fact that a greater effort towards resettlement in the countries of the European Union would send a positive signal of solidarity to all Iraqis and of cooperation with Syria and Jordan for the maintenance of their area of protection.

The Council also notes the particular situation of the Palestinians who have left Iraq for Syria, for whom no solution other than resettlement appears to be feasible.

3. The Council emphasises, as it did in its conclusions of 25 July 2008, that the main objective is to create the conditions in which displaced persons inside Iraq and refugees in neighbouring countries can return safely to their homes, while ensuring that the human rights of all Iraqis are protected and defended.
The Council also reaffirms its conclusions of 23 April 2007 on Iraq, which called for a comprehensive approach on Iraq.
In this context, it notes that the Netherlands has convened a high-level meeting in The Hague on 1 and 2 December 2008 aimed at contributing to a coordinated response by the European Union to migratory flows from or to Iraq.


4. The Council recalls the humanitarian and financial aid provided by the European Union and Member States to Iraqi refugees, as well as the contribution of Member States which receive Iraqis who have submitted an asylum application on their territory.
However, given the current situation in Iraq and in neighbouring countries as well as the results of the mission conducted by the Commission, the Council considers it necessary to go further.
In this respect, it welcomes the fact that some Member States are already taking in Iraqi refugees, particularly under their national resettlement programmes.

5. In this context, as a signal of solidarity, the Council invites Member States to take in Iraqi refugees in a particularly vulnerable situation such as those with particular medical needs, trauma or torture victims, members of religious minorities or women on their own with family responsibilities.
This has to be done on a voluntary basis and in the light of the reception capacities of Member States and the overall effort already made in terms of taking in of refugees.
In consideration of the resettlement target set out by UNHCR, and taking into account the number of persons already taken in or planned to be taken in by Member States, in particular under their national resettlement programmes, the objective could be to take in up to around
10 000 refugees, on a voluntary basis.
In taking this approach, Member States should cooperate closely with UNHCR and the other competent organisations present in the region. They should bear in mind the importance of promoting reconciliation between Iraqi communities in Iraq.
6. It may be noted that the European Refugee Fund provides financial support for resettlement projects and that Member States have until 19 December 2008 to indicate on their intentions with a view to calculating the allocation of the funding for 2009.
The Commission is invited to report to the Council at the beginning of 2009 on the information gathered from Member States on the basis of these conclusions."

Nel “nuovo” Iraq c’è una strategia che mira ad eliminare i cristiani

Fonte: Asianews

di Dario Salvi

Joseph Yacoub, esperto di cristianesimo in Medio Oriente, denuncia “politiche discriminatorie” del governo di Baghdad, incapace di garantire “unità e sicurezza “ ad un Paese diviso ed egoista. Il ritiro delle truppe americane è un cambiamento “di facciata”, mentre i cristiani continuano a essere perseguitati.
Non nasconde la propria inquietudine per l’Iraq e il futuro della comunità cristiana Joseph Yacoub, caldeo iracheno, professore di scienze politiche all’Università cattolica di Lione ed esperto di cristianesimo mediorientale. Da profondo conoscitore della realtà irachena, egli boccia l’idea di una enclave cristiana a Ninive e denuncia “una strategia politica volta a eliminare i cristiani” che va contrastata superando “la logica delle divisioni e degli egoismi personali”.
Egli, poi, è critico nei confronti dell’accordo sul ritiro delle truppe americane, giudicato solo “un cambiamento di facciata” che non restituisce piena “sovranità nazionale” all’Iraq, contrario alla legge elettorale che definisce “una misura discriminatoria” nei confronti dei cristiani, la cui responsabilità è da imputare al “governo di Baghdad” che non è stato capace di garantire “l’unità e la sicurezza nel Paese”. Ed è preoccupato, infine, per il clima di “sfiducia e paura” che si respira all’interno della comunità cristiana, garante nella storia irachena di “pluralismo, ricchezza e multi-culturalità”, mentre oggi è abbandonata al proprio destino.

Clicca su "leggi tutto" per l’intervista rilasciata da Joseph Yacoub ad AsiaNews:
Professor Yacoub, come giudica l’accordo sul ritiro delle truppe americane entro il 2011 sottoscritto dal governo e approvato dal parlamento iracheno?
La mia è una posizione critica, perché si tratta solo di un cambiamento di facciata. Nei prossimi tre anni l’esercito Usa rimarrà in territorio iracheno, quindi il Paese sarà a tutti gli effetti sotto occupazione. Una situazione che dura ormai da cinque anni e che non ha portato cambiamenti sostanziali in termini di sicurezza. Ora bisogna vedere come si muoverà l’amministrazione di Barack Obama dopo l’insediamento. Del resto vi è una clausola specifica nell’accordo, che prevede l’ipotesi di un ritiro anticipato o posticipato.

Nei giorni scorsi il governo aveva sbandierato una ritrovata sovranità nazionale.
A mio avviso si tratta di una legittimazione a livello formale, ma nel concreto cambia poco. Il governo, ad esempio, ha inserito la possibilità di un intervento in caso di minaccia alle istituzioni democratiche del Paese. Ma si può affermare, oggi, che il Paese sia davvero democratico? La presenza e il ruolo dell’America non cambiano nella sostanza.

Eppure si è parlato di ampio consenso al momento del voto parlamentare.
Il parlamento ha subito pressioni per votare a favore del piano di ritiro e lo scrutinio finale lo testimonia. Si è cercata una larga maggioranza per dare legittimità al testo, ma l’assenza di 86 deputati su 275 e i 35 voti contrari fanno emergere, in realtà, una maggioranza semplice.

Cosa pensa della legge elettorale che assegna solo sei seggi alle minoranze?
Quello che è stato fatto nei confronti delle minoranze è disdicevole e discriminatorio. Vi sono state manifestazioni di protesta, ma il provvedimento è stato approvato. Appare evidente una politica di emarginazione verso la comunità cristiana, che nel caso di Mosul si è trasformata in persecuzione. Sembra che ci sia una strategia deliberata che mira a eliminare politicamente i cristiani dal Paese.

Chi ha interesse a farlo?
La colpa è di chi governa l’Iraq. In teoria le minoranze sono riconosciute e tutelate dalla Costituzione, ma si tratta anche qui di una dichiarazione di facciata, perché la realtà è drammaticamente diversa.

I cristiani rimasti in Iraq sembrano spinti verso un bivio: o l’esodo o il rifugio nella piana di Ninive. Non c’è una terza via?
Qui sta il punto. Bisogna ragionare in termini complessivi e guardare al Paese nella sua totalità, mentre è evidente una profonda spaccatura al suo interno. Prima si deve elaborare una visione globale, solo in seguito si potrà considerare anche lo statuto e la rappresentatività dei cristiani. L’Iraq deve rimanere unito, e basare le proprie fondamenta non su criteri confessionali, religiosi, etnici, che portano solo a divisioni. Bisogna uscire da questa logica, perché condurrà solo alla spaccatura del Paese.

Si è fatta l’ipotesi di una nazione federale
Parlare di Stato federale può essere anche valido, ma solo se si parte dal riconoscimento del principio di unità pur all’interno delle differenze. La Costituzione, per come è stata elaborata, è foriera di separatismo; bisogna anzitutto sancire un accordo morale fra le varie fazioni, perché se manca l’unità il Paese crolla.

Ma c’è la volontà di restare uniti?
Questo è il punto. Torniamo ai cristiani: il fatto di creare una enclave nella piana di Ninive porterà solo delle complicazioni, dei cambiamenti in negativo all’interno della comunità e nel Paese. Nel migliore dei casi essa diventerà una zona tampone fra gli arabi e i curdi, e potrà essere strumentalizzata. Non può essere la soluzione per una comunità che vive nel Paese da millenni e che è una testimonianza concreta di pluralismo, di multi-culturalismo, di ricchezza per l’Iraq. I cristiani sono cittadini iracheni a tutti gli effetti, la missione della Chiesa è quella di essere un ponte fra le diverse culture e la condizione è quella di avere un Iraq fondato su criteri civici. Non un Paese diviso, che corre il rischio di ripiegarsi su se stesso e isolarsi. E garante di tutto ciò deve essere il governo, sostenuto dalla comunità internazionale.

Cosa ne pensa della decisione dell’Unione europea di accogliere 10mila rifugiati?
Anche qui, il punto è garantire sicurezza e permettere un ritorno nella terra natale. Per i cristiani, in particolare, conta moltissimo l’elemento psicologico: devono sapere che non sono soli e isolati. Se sanno di essere protetti, non perdono la fiducia e non si sentono orfani. Mi ricordo quanto diceva mia madre quando eravamo piccoli, 50 anni fa: c’è qualcuno che pensa a noi, e si riferiva al papa. Non siamo orfani. I cristiani hanno bisogno di questo aiuto psicologico e di questa solidarietà. L’ideale è aiutarli a rimanere nella loro terra.

Professor Yacoub, quale futuro vede per l’Iraq?
Il punto è che l’Iraq ritrovi la via dell’unità, della stabilità e della pace. Siamo tutti iracheni, apparteniamo tutti a questo Paese, a prescindere dall’etnia e dal credo religioso.

In the “new” Iraq, a strategy to eliminate Christians

Source: Asianews

by Dario Salvi

Joseph Yacoub, an export on Christianity in the Middle East, denounces “discriminatory policies” of the Baghdad government, incapable of guaranteeing “unity and security” in a land that is “divided and selfish”. The withdrawal of the American troops is a “superficial” change, while Christians continue to suffer persecution.
He does not hide his deep concern for Iraq and the future of the Christian community there, Joseph Yacoub, an Iraqi Chaldean and professor of political science at the Catholic University of Lyon. An expert in Christianity in the Middle East with a profound knowledge of the Iraqi reality, he criticises the idea of a Christian enclave on the Nineveh plain and warns of a “political strategy that aims to eliminate Christians” which can only be halted if “the logic of divisions and self-interest is overcome”.
He is also critical of the American troop withdrawal pact, judging it a “superficial change” which will not restore full “national sovereignty” to Iraq. He is also against the electoral law, describing it as a “discriminatory measure” against Christians, who must impute the “government of Baghdad” that has failed to guarantee “unity and security in the country”. Finally, he is worried by the climate of “distrust and fear” within the Christian community, since time immemorial the guarantor of “pluralistic and rich multi-culture” in Iraq, today abandoned to its own destiny.
Click on "leggi tutto" for the interview given by Joseph Yacoub to AsiaNews:
Professor Yacoub, what is your opinion of the accord on American troop withdrawal by 2011, signed by the government and approved by the Iraqi parliament?
I would criticise the move, because its is merely a superficial change. For the next three years US troops will remain on Iraqi soil, and so the country will in all effects, be occupied. This situation has been ongoing for over five years now and failed to bring about substantial change in terms of security. Now we still have to see how the Barak Obama administration will move following his investiture. There is after all, a clause within the accord that provides for the possibility of to anticipate or even postpone the withdrawal.
In recent days the government has boasted of a regained sense of national sovereignty.
In my opinion it is merely an attempt to achieve formal legitimacy, but in concrete terms it changes little. The government, for example, has inserted a clause that foresees the possibility of military intervention should the country’s democratic institutions be threatened. But can we, in all seriousness, claim that the country is democratic? The presence and role of America has not substantially changed.

And yet the parliamentary vote was described as a moment of wide consensus.
Parliament was pressure into voting in favour of the withdrawal plan and the ballot is proof of this. A wide majority was actively sought to give legitimacy to the text, but the absence of 86 deputies out of 275 and 35 against, shows that in reality the majority was small.

What do you think of the electoral law that gives only six seats to minorities?
What has been done to minorities is dishonourable and discriminatory. There were a series of protests but the bill was approved. It is evident that there is a policy of marginalisation of Christians, a policy that in the case of Mosul has become persecution. It seems that there is a deliberate strategy that aims to politically eliminate the country’s Christians.

Whose best interests would this serve?
It is the fault of those who govern Iraq. In theory minorities are recognised and safeguarded by the Constitution, but here too it is a superficial declaration, because the reality is dramatically different.

The Christians who have remained in Iraq seem have been forced to a crossroads: leave or become refugees on the Nineveh Plain. Is there no third choice?
That is the point. We need to think in collective terms and look at the country in its totality, even with its obvious internal divisions. First a global vision must be elaborated, on then will we be able to consider the statute and the representation for Christians. Iraq must remain united, based on its own foundations and not on confessional, religious, ethnic criteria which only increase division. We must leave this logic behind, because it ruptures the nation.

The hypothesis of a federal nation has been mentioned
The theory of a federal state may be a valid one, but only if it is built upon a principal of unity, even with internal differences. The Constitution, because of how it was drawn up, encourages separatism; we need first and foremost to draw up a moral accord between the various factions, because without unity the nation will collapse.

But is there the will be stay united?
This is the point. Let’s go back to the Christians: creating an enclave on the Nineveh Plain will only complicate matters by negatively changing the community within the country. In the best case scenario it will become a buffer zone between the Arabs and the Kurds and could end up being exploited. It cannot be the best solution for a community that has lived in the country for centuries and that has been a concrete witness of Iraq’s pluralistic and multi-cultural society that is one of the nation’s greatest resources. Christians are Iraqi citizens in all effects; the Churches mission is to be a bridge between different culture and the conditions for this means having an Iraq that is founded on civic criteria. Not a divided country that runs the risk of folding in on itself and isolating itself. The government has to guarantee this, sustained by the international community.

What do you think of the European Union’s decision to accept 10 thousand Iraqi refugees?
Here too, the real issue is to guarantee security so they can return to their homeland. For Christians in particular, the psychological aspect is extremely important: they need to know they are not alone and isolated. I remember what my mother would say to us when we were small, almost 50 years ago: there is someone who is thinking of us and she was speaking of the Pope. We are not orphans. Christians need this psychological help and solidarity. The ideal is to help them stay in their land.

Professor Yacoub, what future do you see for Iraq?
Iraq must find the road to renewed unity, stability and peace. We are all Iraqis; we all belong to this country, regardless of our ethnic background or religious beliefs.

Mons. Sako: incentivare l’esodo dei cristiani è un danno per tutto l’Iraq

Fonte: Asianews

1 dicembre 2008

Accogliere i rifugiati è doveroso, ma ancora più importante è “eliminare le cause alla base della fuga” e permettere alle persone di “vivere in pace e armonia nella loro terra”. È il senso del messaggio che mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, lancia attraverso AsiaNews sulla questione dei profughi iracheni.
Il 27 novembre l’Unione Europea ha annunciato di essere pronta ad accogliere fino a 10mila rifugiati iracheni, la maggior parte dei quali vive in esilio in Siria e Giordania, in mezzo a stenti e sofferenze. “Fare una sanatoria di questo genere – continua mons. Sako – è come dire ai cristiani di fuggire, di andarsene via dall’Iraq. Oggi 10mila, domani altri 10mila fino al giorno in cui il Paese non si svuoterà della presenza cristiana”. Il prelato ribadisce che non ci si può limitare “ad accogliere i rifugiati”, ma bisogna predisporre “tutte le iniziative necessarie per favorirne la permanenza”.
La Germania ha affermato di essere pronta ad accoglier almeno 2500 profughi e la priorità verrà concessa a quanti necessitano di cure mediche, alle vittime di torture e abusi, alle ragazze madri e alle minoranze religiose. Un plauso arriva dall’Alto commissario Onu per i rifugiati che parla di un “passo positivo”, dopo 18 mesi di pressioni esercitate nei confronti di Bruxelles. L’arcivescovo di Kirkuk non giudica negativa “in toto” la decisione, ma tiene a precisare che “vi sono casi estremi di persone che non possono rientrare, come i membri del vecchio regime di Saddam”, ma non per questo va favorito un esodo di massa che finirebbe per peggiorare la situazione. “È giusto accogliere le persone in difficoltà – continua – ma è altrettanto giusto affrontare casi specifici e soprattutto lavorare per la ricostruzione di una convivenza civile nel Paese”.
Mons. Sako denuncia la mancanza di una linea comune all’interno della comunità cristiana e l’assenza di una leadership politica forte: “I cristiani sono divisi al loro interno – commenta – alcuni voglio restare, altri preferiscono andare via. La voglia di fuga è senza dubbio acuita dalla mancanza di un leader politico che orienti le persone verso un progetto concreto, solido, che le convinca a restare, pur fra sofferenze e difficoltà”. Contraria all’esodo è anche una larga fetta della comunità musulmana, che si aspetta dai fratelli cristiani “fedeltà, apertura e moralità”, ma soprattutto una collaborazione concreta “per la costruzione di un futuro assieme” perché considerano “i cristiani una parte integrante del Paese”.
L’arcivescovo di Kirkuk conclude lanciando un monito alla comunità cristiana: “Fuggire di fronte alle difficoltà – dice – significa perdere la sostanza del messaggio cristiano che ci invita alla missione, non alla ritirata. Persino nel caso di persecuzioni bisogna mostrare il senso più profondo del Vangelo, che ci chiede di essere testimoni del sacrificio di Cristo. Andare via equivale a tradire tanto il compito dell’annuncio cristiano, quanto le attese e le speranze di molti musulmani . In tutto questo è racchiuso il senso dell’espressione ‘Quo vadis?’ pronunciata secondo la tradizione da Pietro a Gesù. Questi, rispondendogli, lo invitava a tornare a Roma per affrontare il martirio."

Msgr. Sako: encouraging the exodus of Christians damages Iraq

Source: Asianews

December 1, 2008

While it is our duty to welcome refugees it is far more important to “eliminate the root cause of their forced exile” and to make it possible for them to “live in peace and harmony in the land of their birth”. That is the message at the heart of a statement released to AsiaNews by Louis Sako, Archbishop of Kirkuk, regarding the issue of Iraqi refugees.
On November 27th the European Union announced that it will welcome up to 10 thousand Iraqi refugees, most of who live in exile in Syria and Jordan, in conditions of misery and suffering. “Passing an indemnity of this nature – continues Msgr. Sako – is like telling Christians to flee, to leave Iraq. Today 10 thousand, tomorrow another 10 thousand until the day arrives when the nation will be emptied of its Christian presence”. The prelate reiterates that aid cannot be limited to “welcoming refugees”, rather “every step must be taken to favour their permanence”.
Germany says it is ready to take at least 2500 refugees and that priority will be given to those who need medical care, victims of torture and abuse, single mothers and religious minorities. The United Nations High Commissionaire for Refugees has applauded the move as “a positive step”, after 18 months of pressure on Brussels. The Archbishop of Kirkuk does not “entirely” rule out the positive aspects of the decision, he clarifies that “there are extreme cases of people who cannot return to Iraq, such as former members of Saddam’s regime, however not for this reason should a mass exodus be encouraged, this would only serve to worsen the situation”. “It is right to come to the aid of those in difficulty – he continues – but it is necessary to deal with specific cases and above all to work to rebuild civil coexistence in the country”.
Msgr. Sako denounces the lack of a common vision within the Christian community and the absence of a strong political leadership: “Christians are divided among themselves – he comments – some want to stay, others prefer to leave. The desire to flee is spurred on by the lack of a political leader capable of guiding people towards a concrete project that would convince them to stay, even in the midst of suffering and difficulties”. A large part of the Muslim community is also against the exodus, who seek “faithfulness, openness and morality” from their Christian brothers and sisters, but also cooperation in “rebuilding the future together” because they consider Christians “an integral part of our nation”.
The Archbishop of Kirkuk concludes with an appeal for the Christian community: “To flee before difficulties – he says – means loosing the true meaning of the Christian message which invites us to mission, not to retreat. Even in the face of persecution, we must be an example of the deepest sense of the Gospel, which asks us to be witnesses to Christ’s sacrifice. Leaving means betraying our duty to announce Christ, as many Muslims hope and expect us to do. All of this is held within the meaning of one expression, which according to tradition Peter asked of Christ; ‘Quo vadis?’. In his answer he invited Peter to return to Rome to face martyrdom”.

1 dicembre 2008

Istanbul. Istiklal Caddesi 325. Capolinea degli iracheni cristiani in Turchia.


By Baghdadhope

Se foste ad Istanbul e vi trovaste a passare alla domenica mattina presto per Istiklal Caddesi, la trafficata ed animata arteria pedonale che da piazza Taksim fino allo slargo di piazza Tünel attraversa l’ottocentesco quartiere di Beyoglu, vedreste probabilmente tra le rare persone che la percorrono a quell’ora dei passanti che camminano frettolosi, lo sguardo a terra, gli abiti dignitosi ma a ben guardare dimessi.
Se seguiste il loro andare vedreste che non si fermano per il primo caffè della giornata, né indugiano a guardare le vetrine dei negozi ancora chiusi, ma proseguono fino a scomparire sotto degli archi ed attraversare il cortile della chiesa di Sant’Antonio da Padova, in Istiklal Caddesi al 325.
Se poi aveste la pazienza e la curiosità di seguire quei passanti frettolosi li vedreste attraversare il cortile e sparire giù per una scala a sinistra della chiesa fino a raggiungere la cripta al di sotto di essa, magari dopo un breve sguardo alla statua bronzea che ricorda la visita che Benedetto XVI fece in Turchia nel 2006, e dopo essersi segnati con la croce in segno di deferenza.
E se anche voi scendeste quelle scale vi stupireste di essere accolti da una litania in una lingua sconosciuta che però non “suona” turco e non è certamente né l’inglese né l’italiano usato nelle celebrazioni al piano di sopra, e magari vi stupireste se qualcuno vi dicesse che state ascoltando la musicalità della lingua aramaica o quella araba.
E se fosse estate sareste colpiti dal calore e dall’umidità che le pareti della cripta trasudano e che è moltiplicato per le decine o centinaia di persone che la affollano. E guardando quelle persone capireste dalle loro espressioni che hanno molto sofferto nella vita, e che le loro storie potrebbero riempire pagine e pagine di un libro ancora non scritto: la fuga degli iracheni cristiani.
“Una volta, celebrando la Santa Messa, una fedele, una giovane ragazza, è svenuta proprio davanti ai miei occhi” mi ha raccontato Padre Amer Youkhanna, sacerdote caldeo che studia a Roma ed è ormai prossimo alla licenza in Teologia Morale, e che a settembre ha prestato il proprio servizio per la comunità di Istanbul.
Quello a cui Padre Amer si riferiva è uno dei tanti problemi che la comunità irachena caldea che ha trovato rifugio in Turchia fuggendo da guerra e violenza deve affrontare. Ad Istanbul sono due le chiese che li accolgono per le funzioni, come ha spiegato nel 2006 il Vicario Patriarcale di Diarbekird ed Amida dei Caldei, Padre François Yakan, in un bel reportage per l’Osservatore Romano: la cappella dell’Arcivescovado e la cripta della chiesa di Sant’Antonio da Padova che è affidata all’Ordine dei Frati Minori Francescani.
Se nella cappella dell’Arcivescovado si riunisce prevalentemente la comunità caldea turca tanto che le lingue liturgiche usate sono, appunto, l’aramaico ed il turco, è nella cripta di Sant’Antonio che invece si ritrovano, si contano e si raccontano i caldei che in Turchia ci sono arrivati per disperazione.

Clicca su "leggi tutto" per l'intera intervista a Padre Amer Youkhanna di Baghdadhope
Non c’è aria in quella cripta” ha ricordato Padre Amer, “il contratto di locazione sottoscritto con i frati francescani non prevede modifiche al locale e quindi non si possono fare installare né condizionatori né apparecchiature per il semplice ricambio dell’aria. Neanche nella chiesa ci sono, ma almeno lì le aperture verso l’esterno permettono il ricambio, giù è un inferno e se usassimo dei ventilatori da pavimento i consumi elettrici schizzerebbero alla stelle. D’altra parte la curia arcivescovile non potrebbe affrontare le spese per uno spazio proprio. Il numero dei fedeli non è costante, varia a secondo la concessione dei visti per i paese terzi. Bisognerebbe però tenere in maggiore considerazione le condizioni di quei fedeli, così già duramente provati, e cercare di alleviarle. Ritrovarsi per la Santa Messa per loro non è solo una questione di fede, ma anche un momento di aggregazione importante.”
Era amareggiato Padre Amer mentre mi raccontava la sua esperienza in Turchia. Non che lui non sapesse cosa volesse dire soffrire, basti dire che viene da Mosul, dove è nato 27 anni fa, e dove ha vissuto fino al settembre 2003 quando è arrivato a Roma per studiare prima presso Propaganda Fide Teologia, e poi presso l’Accademia Alfonsiana per specializzarsi in Teologia Morale grazie ad una borsa di studio concessagli dal Pontificio Collegio Irlandese.
“Forse non è giusto dirlo” ha continuato, “ma fa davvero impressione scoprire che molte di quelle persone senza speranza che la guerra ha portato in Turchia dove ora vivono di carità o di piccoli lavori, a casa in Iraq, erano benestanti. Gente che aveva studiato, che aveva delle proprietà, che voleva rimanere in patria e che ora non ha più nulla.”
Già. Perché se il problema dell’umidità nella cripta di Sant’Antonio affligge la comunità durante la Messa, quelli legati alla situazione che essa vive in Turchia sono giornalieri.
E’ stato sempre Padre Amer a spiegarmi cosa succede ad un profugo iracheno – nel nostro caso cristiano – che arriva in Turchia.
Prima cosa di tutto bisogna ricordare che la Turchia non concede visti agli iracheni in fuga, e quindi accade che nella maggior parte dei casi essi arrivino con un visto turistico della durata di un mese. Con i soldi che sono riusciti a racimolare vendendo – o meglio sarebbe dire, svendendo – le loro proprietà in Iraq, queste persone si affidano alla “rete” di profughi che già vivono in Turchia. Parenti ed amici sono i primi referenti. C’è da trovare una sistemazione ed ecco che gli appartamenti si affollano di vecchi e nuovi arrivati. Alcuni, i più fortunati, a volte “ereditano” una casa, nel senso che una famiglia cui finalmente è stato concesso il visto di emigrazione, fa sì che un’altra le subentri nell’affitto dell’appartamento, magari lasciando ai nuovi inquilini i mobili e le suppellettili di casa. Un segno benaugurante per chi parte per cercare fortuna altrove ed un sollievo per chi può finalmente può contare su un letto ed un armadio.
Il mese concesso dal visto turistico passa in un baleno. Tutto è nuovo. La città, le leggi, la gente, la lingua, ed infatti Padre Amer mi ha fatto notare come, a suo parere, la situazione dei profughi iracheni in Turchia sia peggiore di quelli in Siria e Giordania, dove “per lo meno si parla arabo.”
A quel punto gli iracheni cristiani non hanno scelta. Sebbene il governo turco non applichi la regola per il rimpatrio per chi è sprovvisto di documenti, rimanere in una condizione di illegalità non è prudente. Ed allora interviene la chiesa che dirige un ufficio apposito dove i profughi vengono aiutati a compilare i moduli che serviranno loro a registrarsi come rifugiati. Tutto ciò che la chiesa chiede a queste persone è il certificato di battesimo comprovante che esso sia stato impartito in Iraq, e non importa in quale chiesa, se cattolica o ortodossa, non è certo il caso di fare differenze. Con i moduli compilati il profugo si reca per prima cosa presso il Ministero dell’Interno per registrarsi come rifugiato, e poi presso gli uffici dell’UNHCR, l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite che cercherà, compatibilmente con la disponibilità di posti all’interno delle quote di rifugiati iracheni che ogni paese stabilisce di accogliere, di ricollocare queste persone in un paese terzo.
In quel preciso momento inizia per il neo rifugiato il periodo più lungo: l’attesa del visto che, comunque, non è detto che arrivi. “C’è un giovane che ha 24, no, forse 25 anni” ha raccontato Padre Amer, “e che a Mosul era una delle guardie dell’Arcidiocesi. Lo conosco personalmente e so che era stato picchiato e minacciato molte volte. Arrivato in Turchia si era appellato a varie ambasciate, americana, australiana, canadese, ma non c’è stato niente da fare, nessuno gli ha creduto e non ha avuto il visto. A volte non lo danno neanche a chi può dimostrare di essere stato rapito, a volte perché se il certificato di battesimo è stato redatto, ad esempio, a Zakho, una città al confine nord tra Iraq e Turchia, si considera quella zona come tranquilla. A volte basta essersi contraddetti nel rispondere anche da una sola domanda nei diversi colloqui per vedere svanire la speranza di una nuova vita.”
L’attesa dei rifugiati in Turchia è penosa. Il governo turco non concede loro praticamente nulla ed a volte, in accordo con l’UNHCR, sposta alcune famiglie anche in piccoli centri lontani da Istanbul dove le loro condizioni sono stabilite dai regolamenti cittadini, magari anche a loro favore come nei casi – pochi comunque – in cui viene pagato per loro la metà dell’affitto della casa. Un vantaggio che però non compensa l’isolamento di quelle famiglie che non possono più neanche contare sulla rete di rifugiati connazionali e correligionari. E che non possono ottenere, ma questo riguarda anche e soprattutto quelli che vivono ad Istanbul, un permesso di lavoro e di conseguenza sono costretti a rivolgersi al lavoro nero, fatto di sfruttamento e paghe che, se e quando vengono riconosciute, sono misere. Non c’è assistenza sanitaria per i rifugiati che sono costretti a pagare tutto, anche gli eventuali ricoveri di urgenza e solo le vaccinazioni per i bambini sono gratuite. E’ sempre Padre Amer che racconta: “Una donna è stata male, molto male, ed il marito è stato costretto a portarla in ospedale dove però qualche giorno dopo la moglie è morta. Per restituire la salma l’ospedale ha chiesto il pagamento dei giorni di ricovero: 20.000 $. Una cifra impossibile che dopo varie pressioni è stata ridotta a 15.000 $ che sono stati pagati con una colletta tra la comunità in Turchia ed all’estero. Solo allora la salma è stata restituita per il funerale e la tumulazione in terra turca. I rifugiati non hanno i soldi per vivere, figuriamoci per poter fare rimpatriare un defunto. E’ così triste.”
I soldi. Ecco il problema di queste persone. Quelli, pochi o tanti, portati da casa, si esauriscono in fretta ed ecco che i soli aiuti vengono dalle ONG che operano nel paese e la cui coperta è, come sempre, troppo corta da coprire tutti, e, per chi li ha, dai parenti già emigrati in altri paesi che fanno quello che possono, quando possono: “Una famiglia riceveva ogni mese 200$ dalla sorella della moglie che aveva sposato un cittadino americano e viveva negli Stati Uniti. Con quei soldi non poteva fare molto ma certo era meglio di niente. Poi però la donna in America ha divorziato ed anche a lei è stato revocato il permesso di soggiorno con l’accusa di aver contratto un matrimonio fasullo per avere la cittadinanza. E così quei 200 $ non sono più arrivati.”
Soldi per mangiare, per vestirsi, per pagarsi le medicine, per la scuola. Già, la scuola. Non c’è neanche diritto alla scuola in Turchia per i piccoli iracheni rifugiati. Un diritto mancato che fa soffrire i genitori che sanno che il futuro dei loro figli, lì o altrove, è legato agli studi, e che temono che le lunghe ore che i bambini passano in strada a giocare possano trasformarsi in potenziali pericoli.
“L’unica possibilità di studiare” spiega Padre Amer, “è una piccola scuola della Caritas nel quartiere di Kurtuluş dove vive la maggior parte degli iracheni e che è affidata a Padre Rodolfo Antoniazzi, un salesiano. Lì ai bambini viene impartito un insegnamento elementare, ma non delle materie scientifiche, ed un’infarinatura di inglese visto che quella sarà la lingua che potranno usare in qualsiasi parte del mondo. Inglese che viene insegnato anche agli adulti per la stessa ragione. I problemi però non mancano ed oltre a quello del personale poco qualificato all’insegnamento primario sono legati soprattutto all’igiene delle classi e dei bagni ed all’acqua che bevono. La scuola infatti non fornisce acqua in bottiglia anche se quella dei rubinetti è stata ufficialmente dichiarata non potabile dal governo e così molti bambini si ammalano.”

Se solo chi legge avesse potuto ascoltare le parole ed incrociare lo sguardo di Padre Amer mentre mi raccontava ciò che aveva visto ad Istanbul avrebbe capito che la condizione di quei rifugiati è penosa più di quanto qualsiasi descrizione possa rendere percepibile.
Padre Amer, ho chiesto, che speranze hanno queste persone? Cosa sognano?
Con nessuna esitazione la risposta è stata: “L’estero. Sognano di emigrare, di lasciare la Turchia, di ricominciare dal nulla in un paese, in un qualsiasi paese, che voglia dare loro una possibilità. Sono brave persone che non meritano ciò che sta succedendo loro. E’ ovvio che nessuno di loro ha dimenticato la patria, che in un piccolo angolo del loro cuore la vera speranza è quella di tornare a vivere da iracheni in Iraq, ma per ora quelli che tornano lo fanno solo perché non hanno più soldi per vivere in Turchia, specialmente se non sono stati inseriti nelle liste dell’UNHCR.”
E Lei, Padre Amer, cosa spera per loro?
“Che l’Europa apra loro le porte e li accolga perché lo meritano.”

Istanbul. 325 Istiklal Caddesi. Terminus of the Iraqi Christians in Turkey

By Baghdadhope

If you were in Istanbul, and if in an early Sunday morning you passed along Istiklal Caddesi, the busy and lively pedestrian arterial street that from Taksim Sq. to the wide strecht of Tünel Sq. goes through the nineteenth century district of Beyoglu, you probably could see among the few people walking it by that hour some hasty passers-by, their stare down, their clothes decent but poor to a closer look.
If you followed their going you could notice that they do not stop for the first coffee of the day, nor linger to watch the windows of the still closed shops, but go on to disappear beneath some arches and cross the courtyard of the church of St. Anthony of Padua, at 325 of Istiklal Caddesi.
If you, then, had the patience and the curiosity to follow those hasty passers-by you could see them crossing the courtyard and disappear down a staircase on the left side of the church to reach the crypt under it, maybe after a glance to the bronze statue in memory of the visit Benedict XVI made in Turkey in 2006, and after crossing themselves as a sign of deference.
And if you too went down that staircase you would be surprised to be greeted by a litany in a unknown language that does not "sound" as Turkish, and certainly is neither the English nor the Italian used for the celebrations upstairs, and maybe you would be surprised to be told that you are listening to the musicality of the Aramaic or Arabic language.
And if it were summer you would be affected by the heat and humidity that the walls of the crypt ooze, and that is multiplied by the tens or hundreds of people crowding it. And looking at these people you would understand by their expressions how much suffering was their life, and that their stories could fill pages and pages of a not yet written book, the flight of Iraqi Christians.
"One day, celebrating the Mass, a faithful, a young girl, fainted right before my eyes" told me Father Amer Youkhanna, a Chaldean priest studying in Rome and who is now near to the license in moral theology, and who in September worked for the community of Istanbul.
What Father Amer was referring to is one of the many problems the Iraqi Chaldean community that found refuge in Turkey fleeing war and violence must address. In Istanbul there are two churches that receive them for the functions, as explained in 2006 the Patriarchal Vicar of Diarbekird and Amida of the Chaldeans, Father François Yakan, in a interesting report for the Osservatore Romano: the chapel of the Archbishopric and the crypt of the church of St. Anthony of Padua, run by the Order of Franciscan Friars Minor.
If in the chapel of the Archbishopric gathers the predominantly Turkish Chaldean community so that the liturgical languages used there are, precisely, Aramaic and Turkish, it's in the crypt of St. Anthony who meet, count themselves and tell each other their stories the Chaldeans who arrived in Turkey out of desperation.
Click on "leggi tutto" for the whole interview to Fr. Amer Youkhanna by Baghdadhope
"There is no air in that crypt" said Father Amer, "the lease contract signed with the Franciscan friars does not include modifications to the crypt and so neither air conditioners nor equipment for the simple exchange of the air can be installed. Also in the church there are not suck kind of equipementes but at least there the openings to the outside allow the air exchange. Down in the crypt is a hell, and the use of floor fans would skyrocket the electrical consumption. On the other hand, the Archbishopric Curia could not face the expenses for a space of its own.
The number of faithful is not constant, it changes according to the granting of visas to third countries. But the conditions of those faithful, already sorely tried, shoul be considered more and should be alleviated. To meet each other for the Mass for them is not just a matter of faith, but also a moment of important gathering."
Father Amer was saddened while telling me his experience in Turkey.
Not that he did not know what does it mean to suffer, suffice it to say that he comes from Mosul, where he was born 27 years ago, and where he lived until September 2003 when he came to Rome to study Theology at Propaganda Fide, and then at the Alphonsian Academy to specialize in Moral Theology thanks to a scholarship granted to him by the Pontifical Irish College.
"Maybe it is not right to say" he continued, "but it is really shocking to discover that many of those people without hope that the war brought to Turkey where they live on charity or menial jobs at home, in Iraq, were well-to-do persons who had studied, who had properties, who wanted to stay in Iraq, and who now has nothing more."
Yes. If the problem of dampness in the crypt of St.Antony afflicts the community during the Mass, the problems related to the situation it is living in Turkey must be faced daily.
It was Father Amer who explained me what happens to an Iraqi refugee - in our case a Christian one - who arrives in Turkey. First of all it must be said that Turkey does not grant visas to Iraqis fleeing their country, and then in most cases they come with a one month long touristic visa. With the money they managed to scrape by selling – better to say selling off - their properties in Iraq, these people rely on the "network" of refugees already living in Turkey.
Relatives and friends are their first contact. An accommodation must be found and the flats get crowded with old and new tenants. The luckiest ones sometimes "inherit" a house, meaning that a family finally granted a visa to emigrate arranges that another one takes its place in the renting of the flat and maybe leaves to the new tenants the furniture and the household furnishings. A sign of good luck for those leaving, and a relief for those who can finally have a bed and a wardrobe of their own.
The month granted by the touristic visa elapses in a flash. Everything is new. The city, the laws, the people, the language, and indeed Father Amer made me notice that according to him the situation of Iraqi refugees in Turkey is worse than those in Syria and Jordan, where "at least people speak Arabic."
At that point Iraqi Christians have no choice. Although the Turkish government doesn’t apply the rule for the repatriation of illegal immigrants, to stay in a state of lawlessness is not wise.
And then the church that runs a special office where this people are helped to fill in the forms to register as refugees intervenes. What the Church asks to them is only the baptism certificate proving that it has been given in Iraq, and no matter by which church, whether Catholic or Orthodox, it is not the case to make differences.
Once the forms are filled in the person goes first to the Ministry of Interior to register as a refugee, and then to the offices of UNHCR, the High Commissioner for Refugees of the United Nations that will seek, consistent with the availability of seats within the Iraqi refugees quota that any country accepts, to resettle this people in a third country.
At that precise moment the longer period for the new refugee begins: waiting for a visa that, however, it is not said it will be granted. "There is a young boy, he is 24 no, maybe 25 years old" Father Amer said, "this young man in Mosul was one of the guards of the Archdiocese, I know him personally, and I know that he had been beaten and threatened many times. Once arrived in Turkey he appealed to several embassies, American, Australian, Canadian, but there was nothing to do, no one believed him and he did not have the visa.
Sometimes the visa is not given even to those who can prove to have been abducted, sometimes because if, for example, the certificate of baptism was drafted in Zakho, a town on the border between northern Iraq and Turkey, the area is considered as a safe one. Sometimes it is sufficient that a person contradicted himself answering even to a single question in the talks to see the hope of a new life vanish."

The waiting of the refugees in Turkey is painful. The Turkish government grants them nothing in practice and sometimes, in concert with UNHCR, some families are also moved in small towns far from Istanbul where their conditions depend on city regulations, maybe even in their favor as in the cases - a few anyway – in which half of the lease contract is paid for them. One advantage that in any case doesn’t make up for the isolation of those families who can no longer count on the network of fellow refugees and coreligionists.
Those families can’t obtain, but this case concerns also and especially those living in Istanbul, a work permit and therefore are forced to find a work off the books, made up of exploitation and wages that, if and when paid, are poor. There is no health assistance for refugees who are forced to pay for everything, including any emergency hospitalization. Only vaccinations for children are free. It is Father Amer who tells:
"A woman was ill, badly ill, and her husband was forced to bring her to hospital where, however, a few days after his wife died. To return the body the hospital requested the payment of the days of hospitalization: 20,000$. An impossible figure that after several pressure was reduced to 15,000$ paid thanks to a collection among the communities in Turkey and abroad. Only then the remains of the woman were returned for the funeral and the burial in Turkish ground. The refugees have no money to live, let alone to repatriate a deceased. It's so sad.”
Money. Here's the problem with these people. The money they brought from home, little or a lot, runs out quickly, and so the only aids come from the NGOs operating in the country whose blanket is, as always, too short to cover everyone, and, for those who have, from relatives emigrated to other countries who do their best when they can: "A family used to receive 200$ each month from the sister of the wife who had married an American citizen and lived in the United States. That money didn’t make the family rich but it certainly was better than nothing. One day the woman in America divorced and her residence permit was withdrawn under the charge that she had contracted a bogus marriage to get citizenship and so the family in Turkey did not get the 200$ anymore. "
Money for food, for clothing, for medicines, for the school. Yes, the school. There is no right to education in Turkey for small Iraqi refugees. A lacking right that makes the parents suffer because they know that the future of their children, there or elsewhere, is related to their education, and who fear that the long hours that children spend playing in the streets can turn into potential dangers.
"The only chance they have to study" says Father Amer, "is a small school run by Caritas in the Kurtulus district where most of Iraqis live, and that is entrusted to Father Rodolfo Antoniazzi, a Salesian. In that school children can have a primary education (but they are not taught scientific subjects) and a basic understanding of English because that is the language they can use anywhere in the world. English that is also taught to adults for the same reason. The problems however do not lack and beside that of a low-skilled staff in teaching the children they are mainly associated to the cleanliness of the classes and the bathrooms and to the water the children drink. The school does not provide bottled water even if the tap one has been officially declared as undrinkable by the government and so many children fall ill."

If only the reader could have listened to the words and cross the eyes of Father Amer while he was telling me what he had seen in Istanbul he would have understood that the condition of those refugees is more painful than any description can make perceptible.
Father Amer, I asked, what these people hope? What do they dream of?
With no hesitation his answer was: "Going abroad. They dream of emigrating, of leaving Turkey, of starting again from scratch in a country - any country - that wants to give them a chance. They are good people who do not deserve what is happening to them. It is obvious that none of them has forgotten their homeland, that in a small corner of their heart their ultimate hope is to return to live in Iraq as Iraqis, but by now those who go back do it only because they have no more money to live in Turkey, especially if they have not been included in the lists of UNHCR."
And you, Father Amer, what do you hope for them?
"That Europe open its doors and welcome them because they deserve it."