By Corriere della Sera
Lorenzo Cremonesi e Annachiara Sacchi
La Chiesa cattolica attraversa in Vaticano una stagione di tensioni. La Chiesa cattolica vive in periferia una stagione di rinnovata militanza.
Ne sono protagonisti il cardinale di Bagdad, Louis Raphaël I Sako, schierato con i «ribelli» di piazza Tahrir, e Leonardo Boff, padre della teologia della Liberazione e, ora, di una nuova teologia dell’ambiente
Lorenzo Cremonesi e Annachiara Sacchi
La Chiesa cattolica attraversa in Vaticano una stagione di tensioni. La Chiesa cattolica vive in periferia una stagione di rinnovata militanza.
Ne sono protagonisti il cardinale di Bagdad, Louis Raphaël I Sako, schierato con i «ribelli» di piazza Tahrir, e Leonardo Boff, padre della teologia della Liberazione e, ora, di una nuova teologia dell’ambiente
«No,
non ho paura di dirlo ad alta voce. Sostengo apertamente , pubblicamente i giovani di piazza Tahrir, come del resto quelli che
scendono a manifestare nelle piazze del sud dell’Iraq: a Bassora, a
Nassiriya, a Najaf, a Qarbala, ad Al Kut. Sono la speranza per un Iraq
diverso, più umano, più giusto. Tollerante». Occorre sentirlo di persona
per capire che al patriarcato caldeo di Bagdad si respira un’aria
diversa, aperta, coraggiosa, decisa a cambiare le cose. Non una Chiesa
timorosa, piegata su sé stessa, preoccupata soprattutto di non esporsi.
Bensì pronta a rischiare, a combattere, a fare sentire la propria voce.
La incarna un settantenne dal volto mite, sorridente, piccolo di
statura, apparentemente fragile. Apparentemente. Perché appena gli parli
le sue parole sono chiare, nette, quasi militanti. «Io credo che qui in
Iraq si debbano applicare i parametri della Teologia della Liberazione,
della Chiesa che sta con i poveri contro i potenti, contro le
ingiustizie, contro i settarismi, che si schiera con coloro che lottano
per i diritti contro la corruzione, contro le divisioni, contro i
partiti confessionali», dice Louis Raphaël Sako.
Nulla
a che vedere con i lunghi silenzi e le reticenze degli anni scorsi. Ai
tempi di Saddam Hussein, oltre a lamentarsi della fuga dei cristiani dell e Chiese orientali e del fatto che erano stati abbandonati dal
mondo occidentale, gli alti prelati iracheni in genere preferivano
restare nell’ombra. Non il cardinale Sako.
Si
vede che non è ancora abituato al titolo. «Lo ha voluto Papa Francesco
nel maggio 2018. Spero di essere all’altezza. Ma per me qui non cambia
niente. Sto con la mia gente», dice mostrando un suo scritto — dopo la
visita ai giovani manifestanti di piazza Tahrir ai primi di novembre —
in cui traccia «un parallelo diretto tra la Teologia della Liberazione,
nata e cresciuta tra le Chiese in America Latina negli anni Sessanta e
Settanta del secolo scorso, e la situazione irachena».
La
sua immagine di fronte al «Ristorante Turco», il grande palazzo in
costruzione che è diventato il quartier generale delle rivolte, ha fatto
capolino anche sui social media. Lui è stato applaudito , ma ha anche subito pesanti minacce. Ora la sua abitazione è
presidiata dalla polizia notte e giorno. Non è strano che tra i circoli
diplomatici occidentali a Bagdad non siano pochi a temere per la sua
sorte. «Il cardinale Sako rischia grosso. Sta sfidando apertamente
l’Iran e le milizie sciite che lo sostengono. Questo resta un Paese
violento, gli omicidi politici sono all’ordine del giorno. Teheran
controlla i gangli vitali dello Stato iracheno», ha detto una fonte
diplomatica anonima a «la Lettura».
Sako
tira dritto. «Io seguo il Vangelo. Qui ci sono ragazzi che vengono
rapiti e uccisi ogni giorno. Ma rappresentano anche la prima vera
possibilità di rinascita del Paese dopo la catastrofe in cui è piombato
dal tempo funesto dell’invasione americana del 2003», spiega.
Cardinale,
la stampa locale e internazionale l’ha ripresa mentre andava a piazza
Tahrir su un modesto tuktuk, una motoretta. Pare che lei sia stato
l’unico esponente religioso a farlo. Quale è stato il suo messaggio?
«Molto
semplice: per la prima volta dopo oltre quarant’anni ho compreso
chiaramente che quei giovani manifestanti rappresentano un Iraq
assolutamente nuovo, un Iraq inedito, mai visto. Anche in Libano accade
con le manifestazioni di piazza a Beirut, ma la polizia là non spara.
Qui invece sfidano i cecchini e le provocazioni violente dei loro
nemici. Noi abbiamo il dovere di ascoltarli. Hanno già perso centinaia
dei loro, forse più di 600 uccisi dall’inizio di ottobre; oltre a 22.500
feriti. Sono cifre spaventose. Ma loro continuano. Sono coraggiosi,
generosi».
In che senso il loro messaggio è nuovo?
«Questo
è un Paese arretrato, spesso primitivo, violento. Trionfano le identità
tribali, settarie, beduine. L’idea di nazione e di cittadinanza non
esiste; è sconosciuta. Nelle scuole i programmi di studio sono
arretrati, premoderni. I giovani manifestanti esaltano prima di tutto
l’identità nazionale irachena. Non fanno differenze tra sciiti, sunniti,
curdi o altro ancora. Dicono che prima di tutto siamo iracheni, eguali
di fronte alla legge e allo Stato, tutti con gli stessi diritti. So che
per voi in Europa sono principi scontati. Non qui».
Anche Saddam Hussein, ucciso il 30 dicembre 2006, esaltava il nazionalismo iracheno. Vuole tornare indietro a quegli anni?
«Assolutamente
no. Saddam esaltava unicamente il culto della sua personalità. Il suo
era uno Stato totalitario, dove gli individui non contavano nulla».
Lei è stato l’unico leader religioso a portare la sua solidarietà in piazza Tahrir...
«È
vero. Ho portato con me cibo e medicinali e donazioni in denaro, oltre
cinquemila dollari per le loro cliniche che curano i feriti in piazza.
Sono stato accolto come un amico, come un fratello. Perché hanno capito
che li legittimavo, ascoltavo le loro sofferenze, le loro solitudini. E
ho aggiunto che tra i loro slogan uno dei più belli era quello
dell’esaltazione della cittadinanza irachena, che significa eguaglianza,
libertà, giustizia. Sventolano la nostra bandiera nazionale, non
vessilli religiosi».
Però i cristiani continuano a lasciare l’Iraq e l’intero Medio Oriente...
«Vero.
Ma il rischio riguarda tutti, non solo i cristiani. Ho notato che in
piazza Tahrir ci sono anche tantissimi cristiani. Non temono di piantare
le tende sovrastate dalle croci, sfilano assieme e nessuno li tocca».
A che punto siamo con questo esodo?
«Male.
Molto male. Ai tempi di Saddam Hussein eravamo 1,8 milioni. Di questi
almeno il 75 per cento erano caldei cattolici. Ora siamo scesi a circa
400 mila, di cui metà a Bagdad. Le chiese sono vuote. È evidente che
qualcosa non ha funzionato dopo l’invasione americana del 2003».
Dopo
il blitz ordinato da Donald Trump per uccidere Qassem Soleimani e i
massimi leader delle milizie sciite il 3 gennaio, crede che gli
americani debbano andarsene e con loro l’intero contingente
internazionale?
«No, non lo credo. Il
contingente internazionale, che conta anche un folto numero di soldati
italiani, contribuisce a mantenere la stabilità del Paese intero. I
deputati curdi e sunniti hanno fatto bene ad astenersi durante il voto
parlamentare per l’espulsione».
Ma se gli americani dovessero partire dall’Iraq sarebbe il caos?
«Ovvio.
L’Iraq ha bisogno dei soldati del contingente a comando Usa per stare
in piedi. E il nostro governo ne è ben consapevole».
Vuole
dire che il premier sciita Adel Abdul Mahdi ha solo fatto una
sceneggiata di facciata per soddisfare il risentimento dell’Iran, ma in
realtà opera per conservare lo status quo?
«Sì,
è stato un voto di facciata. Tutto cambi affinché nulla cambi. Gran
parte del Paese teme le milizie sciite. Anche tanti cittadini sciiti
sono ben contenti che ci siano gli americani. Qui sta prevalendo un
grave vuoto di potere e la presenza internazionale ci aiuta. Oltretutto
resta vivo il pericolo dell’Isis, che si deve continuare a sorvegliare».
Come
mai non ha portato la sua solidarietà all’ambasciata iraniana per
l’assassinio di Soleimani? Tanti capi religiosi lo hanno fatto...
«No.
Ho fatto appello al dialogo. Ho ripetuto che le grida di vendetta non
servono a nulla, se non a riaccendere tensioni. Ho aggiunto che adesso
tocca all’Onu tentare di riaprire il dialogo ed evitare il nuovo
avvitarsi violento tra botte e risposte».
Perché l’Iraq dopo tutti questi anni non è ancora capace di camminare con le proprie gambe?
«Dopo
la guerra del 2003 non si è mai davvero lavorato per la riconciliazione
nazionale. Caduto Saddam Hussein, le comunità hanno subito cominciato
la competizione violenta per prevalere le une sulle altre. È mancato il
dialogo, il confronto. Siamo diventati un puzzle caotico di comunità
nemiche in lotta. Capisce ora le mie simpatie per i giovani di piazza
Tahrir? Rappresentano un raggio di luce per uscire da questo caos. Vanno
aiutati, non osteggiati. Vanno ascoltati e capiti. Per la prima volta
dalla fine della dittatura di Saddam abbiamo forze in campo che possono
far sperare in un futuro migliore».