By Baghdadhope*
In occasione della visita ad limina compiuta il 5 febbraio dai vescovi della chiesa caldea Baghdadhope ha parlato con il Patriarca Mar Louis Raphael I Sako della situazione della comunità cristiana in Iraq.
Di seguito un estratto della lunga intervista concessa da Mar Sako.
Visita ad Limina. Roma 5 febbraio 2018. Foto Mons. Basel Yaldo |
Sua Beatitudine, dopo l’ufficiale liberazione
dall’ISIS l’Iraq sta gradualmente sparendo dai media che se ne occupano ormai
solo quando un grande attentato miete molte vittime e comunque solo per il tempo
di darne notizia. Anche alla sua comunità cristiana non si presta più molta
attenzione. Vuol dire che le cose vanno meglio?
Si e no allo stesso tempo. Se da una parte ci sono segnali incoraggianti per tutto l’Iraq, compresa la sua comunità cristiana, d’altra parte un certo tipo di ideologia legata al fondamentalismo islamico non è sparita con la cacciata dell’ISIS. E’ più difficile, certo, sentire ora dalle moschee incitazioni all’odio verso gli infedeli ma questo ai cristiani non basta e non può bastare.
Si riferisce al problema della sicurezza?
Certo. Prendiamo la Piana di Ninive. Nei villaggi della piana delle 20.000 famiglie cristiane che li abitavano circa 7000 sono tornate ma è indubbio che le tensioni tra il governo centrale e quello curdo spaventano coloro che pensano di potersi trovare tra due fuochi ed essere costretti ad una nuova fuga. L’ostinazione delle parti, la mancanza del dialogo e della volontà di instaurarlo rappresentano un ostacolo enorme. Ci sono villaggi cristiani, penso a Batnaya o a Telkeif, in cui nessuna famiglia ha ancora deciso di tornare.
Cosa servirebbe oltre alla sicurezza che l’accordo tra i due governi dovrebbe garantire?
Si e no allo stesso tempo. Se da una parte ci sono segnali incoraggianti per tutto l’Iraq, compresa la sua comunità cristiana, d’altra parte un certo tipo di ideologia legata al fondamentalismo islamico non è sparita con la cacciata dell’ISIS. E’ più difficile, certo, sentire ora dalle moschee incitazioni all’odio verso gli infedeli ma questo ai cristiani non basta e non può bastare.
Si riferisce al problema della sicurezza?
Certo. Prendiamo la Piana di Ninive. Nei villaggi della piana delle 20.000 famiglie cristiane che li abitavano circa 7000 sono tornate ma è indubbio che le tensioni tra il governo centrale e quello curdo spaventano coloro che pensano di potersi trovare tra due fuochi ed essere costretti ad una nuova fuga. L’ostinazione delle parti, la mancanza del dialogo e della volontà di instaurarlo rappresentano un ostacolo enorme. Ci sono villaggi cristiani, penso a Batnaya o a Telkeif, in cui nessuna famiglia ha ancora deciso di tornare.
Cosa servirebbe oltre alla sicurezza che l’accordo tra i due governi dovrebbe garantire?
Il sostegno economico e morale. I cristiani in Iraq hanno ricevuto e
ricevono fondi dalle chiese sorelle ma anche dai privati. A livello
governativo, invece, gli Stati Uniti hanno promesso aiuti che devono ancora
arrivare mentre solo l’Ungheria ha attivato degli aiuti concreti.
L’Ungheria però in Europa è stata stigmatizzata proprio per aver teso una mano alla sola comunità cristiana sposando la tesi dell’aiuto ai correligionari ed aprendo di fatto una frattura tra religioni.
L’Ungheria non è un paese ricco in grado di aiutare tutti e la scelta è ricaduta sulla comunità cristiana in quanto più bisognosa delle altre che, seppure in misura insufficiente, godono dell’appoggio di altri governi.
In tutto il governo ungherese ha donato 2 milioni di dollari alla comunità caldea e 2 milioni a quella sira mentre la Conferenza Episcopale magiara ha donato 500.000 dollari che, su mia specifica richiesta, saranno impiegati per il villaggio di Batnaya che è stato completamente distrutto dall’ISIS e che, se la questione della sicurezza legata ai rapporti tra Baghdad ed Erbil sarà risolta, potrà riaccogliere i suoi abitanti. Altri governi potrebbero seguire questo esempio. Se ogni governo occidentale in grado di farlo donasse uno o due milioni di dollari molte cose potrebbero cambiare, e non solo per i cristiani. Affrontando la ricostruzione dei villaggi noi non ci occupiamo solo delle case dei cristiani, a Karamles per esempio ci occupiamo anche di quelle degli Shabak, e le infrastrutture vanno a beneficio di tutti. Noi non vogliamo investire le donazioni in cattedrali o i palazzi arcivescovili lussuosi. Non abbiamo progetti faraonici ma abbiamo case da costruire, assistenza da prestare, lavori da dare e creare. Persone da far vivere e persone da far ritornare.
L’Ungheria però in Europa è stata stigmatizzata proprio per aver teso una mano alla sola comunità cristiana sposando la tesi dell’aiuto ai correligionari ed aprendo di fatto una frattura tra religioni.
L’Ungheria non è un paese ricco in grado di aiutare tutti e la scelta è ricaduta sulla comunità cristiana in quanto più bisognosa delle altre che, seppure in misura insufficiente, godono dell’appoggio di altri governi.
In tutto il governo ungherese ha donato 2 milioni di dollari alla comunità caldea e 2 milioni a quella sira mentre la Conferenza Episcopale magiara ha donato 500.000 dollari che, su mia specifica richiesta, saranno impiegati per il villaggio di Batnaya che è stato completamente distrutto dall’ISIS e che, se la questione della sicurezza legata ai rapporti tra Baghdad ed Erbil sarà risolta, potrà riaccogliere i suoi abitanti. Altri governi potrebbero seguire questo esempio. Se ogni governo occidentale in grado di farlo donasse uno o due milioni di dollari molte cose potrebbero cambiare, e non solo per i cristiani. Affrontando la ricostruzione dei villaggi noi non ci occupiamo solo delle case dei cristiani, a Karamles per esempio ci occupiamo anche di quelle degli Shabak, e le infrastrutture vanno a beneficio di tutti. Noi non vogliamo investire le donazioni in cattedrali o i palazzi arcivescovili lussuosi. Non abbiamo progetti faraonici ma abbiamo case da costruire, assistenza da prestare, lavori da dare e creare. Persone da far vivere e persone da far ritornare.
La preghiera dei presuli caldei nella basilica di San Paolo fuori le mura. Foto Baghdadhope |
Le prossime elezioni in Iraq potranno
rappresentare una svolta nella politica del paese?
Difficile dirlo. Certo ci saranno dei cambiamenti, almeno nei rappresentanti. 72 di loro, ad esempio, perché non in possesso del titolo di istruzione richiesto (laurea) dovranno lasciare il posto ad altri, ma l’ostacolo più grosso è la divisione, il non accettare compromessi. Prenda i cristiani. Alle elezioni, almeno per quanto si sa ora, saranno divisi in ben 5 liste – 1 caldea, 1 sira, 2 assire ed 1 pro-curda. Un'enormità visto il numero dei cristiani che invece dovrebbero lottare più unitamente per i propri diritti.
La Chiesa fa quello che può ma certo un maggiore interesse nei suoi confronti – in quanto chiesa orientale – ci sarebbe di conforto.
A cosa si riferisce?
Nel corso della visita ad Limina di lunedì il Santo Padre ci ha chiesto, incoraggiato anzi, ad esporre le nostre problematiche in quanto pastori di una chiesa in sofferenza cui si sente umanamente e pastoralmente vicino. Forse una presenza degli Orientali nella Curia romana potrebbe essere per noi un aiuto ed uno stimolo a far sentire ed a far conoscere ciò che ci affligge. Ciò che abbiamo chiesto è una maggiore sensibilità verso le nostre realtà lontane ma sorelle. Il tiepido appoggio al Patriarcato da parte del Vaticano nella questione dei sacerdoti e monaci che in passato hanno abbandonato le loro diocesi ed i loro monasteri senza permesso ha lasciato, ad esempio, uno spiraglio attraverso il quale altri sacerdoti e monaci hanno abbandonato la chiesa. Io rispetto chi sente vacillare la propria vocazione o non si ritrova più in essa, è umano, ma non chi abbandona la strada scelta per motivi futili dimenticando che il nostro primo dovere è il servizio alla Chiesa. Per quanto il numero dei cristiani in Iraq sia complessivamente diminuito noi abbiamo bisogno di pastori. A Baghdad non ci sono sacerdoti a sufficienza ad esempio. La crisi vocazionale è legata all’instabilità del paese, all’emigrazione che ha privato molti giovani delle famiglie che vivono all’estero e di cui sentono la mancanza, alla instabilità psicologica di una popolazione che soffre da decenni per le guerre ed alla mancanza di formazione del clero. Da quando sono diventato Patriarca ho ordinato dei sacerdoti sposati, come è nel diritto delle chiese orientali, ma ho anche chiesto recentemente l’aiuto della chiesa siro-malabarese indiana che invece è ricca di vocazioni e condivide con quella caldea il rito e le comuni origini risalenti a San Tommaso. I religiosi che arriveranno dall’India ci aiuteranno ad esempio nella formazione e nella catechesi lascando la gestione delle parrocchie ai religiosi del luogo che meglio ne conoscono le singole realtà.
C’è poi il bisogno di “sentire” vicine le chiese occidentali che con poche eccezioni (Francia e Stati Uniti) stentano ad inviare delegazioni di alto livello a visitarci ed a constatare di persona le nostre difficoltà, ed un maggior sostegno per ciò che noi percepiamo come una violazione dei diritti umani ma che a quanto pare l’Occidente stenta a vedere come tale. In Iraq ad esempio un minore un cui genitore si converta all’Islam è automaticamente considerato musulmano. Non è forse calpestato il diritto umano a vivere nella religione in cui si è nati? Non si tratta di scelta me di costrizione che in più riguarda i bambini ed i ragazzi. Ecco, in casi come questi una maggiore solidarietà ci sarebbe di conforto morale e magari di aiuto pratico.
La completa sparizione della comunità di Mosul è ciò che più ha colpito tra tutte le prove che i cristiani iracheni hanno dovuto superare. Qual è la situazione in quella città oggi?
Difficile dirlo. Certo ci saranno dei cambiamenti, almeno nei rappresentanti. 72 di loro, ad esempio, perché non in possesso del titolo di istruzione richiesto (laurea) dovranno lasciare il posto ad altri, ma l’ostacolo più grosso è la divisione, il non accettare compromessi. Prenda i cristiani. Alle elezioni, almeno per quanto si sa ora, saranno divisi in ben 5 liste – 1 caldea, 1 sira, 2 assire ed 1 pro-curda. Un'enormità visto il numero dei cristiani che invece dovrebbero lottare più unitamente per i propri diritti.
La Chiesa fa quello che può ma certo un maggiore interesse nei suoi confronti – in quanto chiesa orientale – ci sarebbe di conforto.
A cosa si riferisce?
Nel corso della visita ad Limina di lunedì il Santo Padre ci ha chiesto, incoraggiato anzi, ad esporre le nostre problematiche in quanto pastori di una chiesa in sofferenza cui si sente umanamente e pastoralmente vicino. Forse una presenza degli Orientali nella Curia romana potrebbe essere per noi un aiuto ed uno stimolo a far sentire ed a far conoscere ciò che ci affligge. Ciò che abbiamo chiesto è una maggiore sensibilità verso le nostre realtà lontane ma sorelle. Il tiepido appoggio al Patriarcato da parte del Vaticano nella questione dei sacerdoti e monaci che in passato hanno abbandonato le loro diocesi ed i loro monasteri senza permesso ha lasciato, ad esempio, uno spiraglio attraverso il quale altri sacerdoti e monaci hanno abbandonato la chiesa. Io rispetto chi sente vacillare la propria vocazione o non si ritrova più in essa, è umano, ma non chi abbandona la strada scelta per motivi futili dimenticando che il nostro primo dovere è il servizio alla Chiesa. Per quanto il numero dei cristiani in Iraq sia complessivamente diminuito noi abbiamo bisogno di pastori. A Baghdad non ci sono sacerdoti a sufficienza ad esempio. La crisi vocazionale è legata all’instabilità del paese, all’emigrazione che ha privato molti giovani delle famiglie che vivono all’estero e di cui sentono la mancanza, alla instabilità psicologica di una popolazione che soffre da decenni per le guerre ed alla mancanza di formazione del clero. Da quando sono diventato Patriarca ho ordinato dei sacerdoti sposati, come è nel diritto delle chiese orientali, ma ho anche chiesto recentemente l’aiuto della chiesa siro-malabarese indiana che invece è ricca di vocazioni e condivide con quella caldea il rito e le comuni origini risalenti a San Tommaso. I religiosi che arriveranno dall’India ci aiuteranno ad esempio nella formazione e nella catechesi lascando la gestione delle parrocchie ai religiosi del luogo che meglio ne conoscono le singole realtà.
C’è poi il bisogno di “sentire” vicine le chiese occidentali che con poche eccezioni (Francia e Stati Uniti) stentano ad inviare delegazioni di alto livello a visitarci ed a constatare di persona le nostre difficoltà, ed un maggior sostegno per ciò che noi percepiamo come una violazione dei diritti umani ma che a quanto pare l’Occidente stenta a vedere come tale. In Iraq ad esempio un minore un cui genitore si converta all’Islam è automaticamente considerato musulmano. Non è forse calpestato il diritto umano a vivere nella religione in cui si è nati? Non si tratta di scelta me di costrizione che in più riguarda i bambini ed i ragazzi. Ecco, in casi come questi una maggiore solidarietà ci sarebbe di conforto morale e magari di aiuto pratico.
La completa sparizione della comunità di Mosul è ciò che più ha colpito tra tutte le prove che i cristiani iracheni hanno dovuto superare. Qual è la situazione in quella città oggi?
Malgrado ciò che è successo a Mosul direi che si assiste oggi ad una
reazione musulmana nei confronti dell’ideologia fondamentalista. Parlerei di
una “vibrazione positiva” che si percepisce nella popolazione musulmana. Quando
alla vigilia di Natale ho visitato Mosul alla celebrazione da me officiata
hanno partecipato molti, moltissimi, musulmani: esponenti religiosi, politici
ma anche della cultura come i presidenti di due università. Ecco, lì ho
percepito questa forte vibrazione. A
pulire ed a preparare la chiesa di San Paolo sono stati ad esempio dei giovani
volontari musulmani. Certo c’è molto da fare, specialmente in una città in cui
25 chiese, in maggioranza caldee, sono state più o meno gravemente danneggiate
dall’ISIS ma 90 famiglie cristiane vi sono tornate e speriamo siano solo le
prime.
Ci sarà di nuovo una diocesi caldea di
Mosul?
Certo. Per prima cosa sarà restaurata proprio la chiesa dedicata a San
Paolo, a breve nominerò un sacerdote, e nel corso del prossimo sinodo, che
dovrebbe tenersi a giugno, proporremo alla Santa Sede l’ordinazione di un nuovo
vescovo che sia idoneo e che conosca la realtà e le problematiche di un
territorio che da una parte vive in una normalità stupefacente se pensiamo a
come era Mosul solo poco tempo fa, ma che dall’altra conserva alcune “sacche”
di pensiero legate ad un’interpretazione del Corano ostile a tutto ciò che non
è islamico.
Nel corso del prossimo sinodo poi verrà proposta anche la nomina di un vescovo
per la Turchia dove l’ottimo lavoro svolto dal nostro vicario patriarcale, Mons.
François Yakan, ha fatto sì che i rapporti tra la chiesa caldea ed il governo siano
buoni, una realtà testimoniata dalle varie visite fatte al Patriarcato a
Baghdad dagli ambasciatori
turchi di Iraq e di Turchia. Attualmente in Turchia vivono circa 1000
caldei autoctoni e circa 20.000 che negli anni vi si sono rifugiati. E’
necessario che abbiano un vescovo a rappresentarli ai massimi livelli.
In passato la comunità irachena cristiana ha sempre rappresentato un punto di
riferimento nel campo dell’insegnamento impartito ai membri di tutte le
comunità del paese. Ha ancora questo ruolo?
Certo. A Baghdad, ad esempio, il Patriarcato gestisce tre scuole, anche le
suore hanno delle scuole e sono molti gli asili.
Sono tutte scuole private in cui, devo dire come sempre, la maggioranza degli
studenti è di fede musulmana proprio per l’alta considerazione in cui è tenuto
l’insegnamento impartito dai cristiani. In esse entrambe le religioni vengono
insegnate e spiegate. Una cosa che, ad onor del vero, capita anche nelle scuole
pubbliche in cui un determinato numero di studenti (variabile da scuola e zona) è cristiano e per le quali il governo ci chiede di suggerire i nomi degli
insegnanti laici che hanno frequentato i nostri centri di catechesi.
Sono piccoli passi e piccoli segni ma sono importanti a far comprendere quanto
e come i cristiani possano contribuire alla crescita di tutta la società
irachena.
Leggi anche:
8 febbraio 2018
Asia News
Patriarca caldeo: Senza casa e lavoro, il pericolo di un nuovo ISIS in Iraq
Leggi anche:
8 febbraio 2018
Asia News
Patriarca caldeo: Senza casa e lavoro, il pericolo di un nuovo ISIS in Iraq