Luca Geronico
«L’incendio del 27 settembre qui a Qaraqosh è stato peggio del Daesh. Almeno quella era una minaccia visibile: invece, adesso, la minaccia potrebbe nascondersi ovunque», constata amaramente padre Giorges Jahola, parroco della chiesa di San Giuseppe nella città cristiana nel cuore della Piana di Ninive. Una strage dal bilancio pesantissimo, avvenuta in circostanze a dir poco sospette, che ha risvegliato antichi timori nella comunità siro-cattolica che, dopo la fuga forzata dalla Piana di Ninive nel 2014 per l’invasione del Daesh, era tornata a vivere e lavorare nella città simbolo della presenza cristiana in Iraq.
«Un durissimo colpo quelle 133 persone morte nel rogo divampato all’improvviso nella sala per banchetti nuziali, come anche gli ustionati gravi che difficilmente si riprenderanno. Quasi metà della città, dati i legami di parentela qui molto stretti, ha avuto un morto o un ferito in quell’incidente», conferma padre Jahola.
Un lutto che ha attraversato tutto il periodo di Natale - celebrato a Qaraqosh senza luminarie e decorazioni per le strade - in un silenzio carico di dubbi e rabbia per un episodio che nessuno riesce a dimenticare. Le manifestazioni di solidarietà da tutto il Paese, la visita delle autorità e l’annuncio di una apertura di una inchiesta non hanno cambiato l’ormai abituale percezione della minoranza di vivere come in ostaggio, in una sorta di esilio procurato, pur abitando nella terra in cui risiedono da secoli come testimoniano gli antichi monasteri della “Piana dei cristiani”.
Un lutto che ha attraversato tutto il periodo di Natale - celebrato a Qaraqosh senza luminarie e decorazioni per le strade - in un silenzio carico di dubbi e rabbia per un episodio che nessuno riesce a dimenticare. Le manifestazioni di solidarietà da tutto il Paese, la visita delle autorità e l’annuncio di una apertura di una inchiesta non hanno cambiato l’ormai abituale percezione della minoranza di vivere come in ostaggio, in una sorta di esilio procurato, pur abitando nella terra in cui risiedono da secoli come testimoniano gli antichi monasteri della “Piana dei cristiani”.
Disagio, insicurezza e rabbia. Addirittura, a fine autunno, è dovuto intervenire l’esercito per sedare le proteste della folla dei parenti delle vittime che avevano tentato di assaltare la casa di Samir Nappu, il proprietario del salone per banchetti andato a fuoco in un battibaleno: la velocità del propagarsi delle fiamme diffusesi subito in quasi tutta la sala, assieme alle testimonianze dei sopravvissuti che raccontavano come le luci fossero state spente all’improvviso e un misterioso furto delle memorie delle telecamere di sorveglianza hanno alimentato un vortice di sospetti su Nappu, arrestato subito dopo la tragedia. L’uomo, proprietario della struttura costruita abusivamente nel 2018, godeva da tempo di pessima reputazione: molto ricco e di famiglia cristiana, è ritenuto vicino alla Brigate Babylon, la milizia sciita riconosciuta dal governo e guidata da Rayan al-Caldani. Dopo la soppressione delle “Ninive protection unity” - le forze di polizia gestite dai cristiani – la milizia sta prendendo il controllo della regione a pochi chilometri dal Kurdistan iracheno, ma formalmente sotto il controllo del governo federale di Baghdad.
«A Qaraqosh è in atto una lotta strisciante per il comando: il governatore di Mosul ha chiesto che le milizie abbandonino la provincia, ma altre autorità si oppongono. La città ormai è spaccata in due: non sono pochi, anche fra i cristiani, quelli che si arruolano nelle Brigate Babylon pur di avere uno stipendio, mentre si vive in un crescente clima di intimidazione e nella paura di delazioni alle brigate», spiega il padre rogazionista Jalal Yako, ora in Italia ma originario di Qaraqosh. L’entusiasmo straripante della folla e le speranze di una riconciliazione sociale del 7 marzo 2021 quando Qaraqosh - in una città che aveva cominciato a rivivere e sembrava avviata alla completa ricostruzione - accolse nella cattedrale dell’Immacolata Concezione appena restaurata papa Francesco per la recita dell’Angelus, sono davvero lontani.
«Ora è tornata l’incertezza sul futuro dei cristiani” prosegue padre Jalal Yako che dal 2014 al 2017 visse nei campi profughi di Erbil assieme alla sua gente, tutti con la sola speranza di poter tornare un giorno nella loro terra riconquistata al Daesh. Un ritorno alla “terra promessa” che molti adesso vivono come una promessa tradita.
A maggior ragione dopo il viaggio di papa Francesco in Iraq tre anni fa, la “Preghiera dei Figli di Abramo” pronunciata davanti alla ziggurat di Ur e lo storico incontro a Najaf - un paio d’ore prima di quel 6 marzo 2021 - tra il Pontefice e il grande ayatollah Ali al-Sistani, leader degli sciiti iracheni.
«Ora è tornata l’incertezza sul futuro dei cristiani” prosegue padre Jalal Yako che dal 2014 al 2017 visse nei campi profughi di Erbil assieme alla sua gente, tutti con la sola speranza di poter tornare un giorno nella loro terra riconquistata al Daesh. Un ritorno alla “terra promessa” che molti adesso vivono come una promessa tradita.
A maggior ragione dopo il viaggio di papa Francesco in Iraq tre anni fa, la “Preghiera dei Figli di Abramo” pronunciata davanti alla ziggurat di Ur e lo storico incontro a Najaf - un paio d’ore prima di quel 6 marzo 2021 - tra il Pontefice e il grande ayatollah Ali al-Sistani, leader degli sciiti iracheni.
Un sentimento di insicurezza e sfiducia nelle autorità civili che ha portato lo scorso luglio il cardinale Louis Sako, patriarca caldeo di Baghdad, a un gesto clamoroso. Dopo aver denunciato una «campagna deliberatamente umiliante» contro di lui, il cardinale iracheno ha abbandonato Baghdad per protesta contro la decisione del presidente della Repubblica Abdul Latif Rashid di annullare il decreto del 2013 dell’allora presidente Jalal Talabani che riconosceva Louis Sako come patriarca e guida della Chiesa caldea. Una rottura istituzionale che ha suscitato più di una perplessità fra i vescovi iracheni, ma che pare dettata più che da un contenzioso giuridico, dalla volontà di denunciare il sempre più ingombrante ruolo politico assunto da Rayan al-Kaldani che si è arrogato strumentalmente la rappresentanza politica dei cristiani. Uno scontro frontale tra il patriarca e il governo che non si è certo attenuato all’inizio di quest’anno.
«In Iraq non c’è strategia, sicurezza o stabilità economica, né sovranità ma piuttosto l’adozione di un duplice concetto di democrazia, costituzione, diritto e cittadinanza», spiega il cardinale Sako in un editoriale pubblicato sul sito del patriarcato. In una situazione di «totale o parziale marginalizzazione », afferma il patriarca ripercorrendo gli ultimi due decenni in Iraq, la «fragile componente cristiana» è stata bersaglio fin dal 2003 – anno della caduta del regime di Saddam Hussein – di rapimenti e assassini a scopo di estorsione e poi dello spostamento forzato da Mosul e dalla Piana di Ninive ad opera del Daesh: «Se non fosse stato per la generosa accoglienza del governo regionale del Kurdistan e per gli aiuti della Chiesa per la ricostruzione delle loro case dopo la liberazione, i cristiani sarebbero stati come la popolazione di Gaza, dato che il governo centrale non ha fatto nulla per loro».
Attacchi contro i cristiani che continuano tuttora prendendo di mira il loro lavoro, con la «confisca dello loro proprietà», oltre a casi di «conversioni forzate» o l’«islamizzazione dei minori». In questa situazione, il governo «non è serio nel fare giustizia per i cristiani». «Quali sono i risultati dell’inchiesta della tragedia al matrimonio di Qaraqosh che nessuno crede sia stato un incidente? Più di un milione di cristiani sono immigrati, molti di loro erano con un qualificati retroterra scientifici ed economici, ma a chi importa?», si chiede Sako. Il risultato è che nei mesi scorsi 100 famiglie cristiane sono emigrate da Qaraqosh, a cui si devono aggiungere in questo nuovo flusso migratorio dozzine di famiglie fuggite da altre città. Una crisi politica ma anche ecclesiale: dopo aver lavorato per stabilire «buone relazioni con gli sciiti e i sunniti», il leader della Chiesa caldea rivendica di aver «lavorato duramente per unificare» le diverse Chiese in Iraq e di aver preparato «iniziative e appelli per un amalgama», ma senza successo a causa della «inabilità di parte del clero di prendere tale decisione».
Inoltre, «la strumentalizzazione del movimento Babylon ha giocato un ruolo nell’intrappolare alcuni vescovi con il denaro, il potere, e la tentazione di leadership», afferma il patriarca. Le Brigate Babylon non sono riuscite a controllare la Chiesa caldea, assicura il cardinale Sako, ma hanno giocato un ruolo fondamentale nello spingere il presidente della Repubblica a ritirare il decreto che riconosceva i ruolo della Chiesa caldea: decisione definita un «assassinio morale». Sako, in questa Chiesa sotto scacco, indica tre gruppi di vescovi: gli indifferenti, i sottomessi alla Brigate Babylon – a cui la folla ha gridato: «traditore, traditore» – e, infine, i «pastori coraggiosi» che «non accettano ingiustizie e compromessi con la verità».
Una crisi che ha colpito anche la gente comune, poco addentro alle questioni politiche: «Come dice la Bibbia: percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Hanno colpito la spina dorsale di Qaraqosh», afferma padre Giorgio Jahola commentando la “cattività avignonese” ad Erbil del patriarca. «Quello che è in atto è un progetto di cambiamento demografico, come già avvenuto nella vicina Bartella dove adesso il 60% degli abitanti sono musulmani. Ma io me ne andrò da qui solo dopo che l’ultimo cristiano avrà abbandonato Qaraqosh».