by Gianni Valente
Il futuro dei cristiani in Medio Oriente non è insidiato solo dalle guerre, dalle infezioni integraliste e dalle tattiche di dominio delle potenze globali e regionali. Anche le sorgenti apostoliche di antiche Chiese che hanno attraversato secoli di civilizzazione islamica oggi sembrano avvizzirsi più per le secche del carrierismo e dell'auto-referenzialità che a causa dei travagli indotti dall’esterno. Una situazione paradossale, che il Patriarca di Babilonia del caldei Louis Raphaël I Sako sta affrontando con parole, accenti e provvedimenti in singolare assonanza con quelli messi in campo da Papa Francesco nel suo magistero day by day.
Louis Raphaël I si è insediato come Patriarca lo scorso 6 marzo, e dal 5 al 10 giugno ha convocato a Baghdad il primo Sinodo della Chiesa caldea dopo la sua elezione.
Prima del Sinodo caldeo, esponenti in vista della diaspora caldea in Usa hanno riaffermato che «l’identità nazionale caldea» è un patrimonio irrinunciabile sulla quale «non è possibile trattare». Lei come la vede?
“C’è chi sostiene che i caldei sono diversi dai fedeli di altre Chiese radicate nell'area non solo dal punto di vista confessionale-religioso, ma anche da quello etnico. Io ci vedo anche un retaggio del colonialismo che voleva dividere una comunità con origini condivise, come quando si contrappone “caldeo” a “assiro”. Per il nostro popolo anche il richiamo alla “caldeità” può diventare una trappola, una riduzione del cristianesimo a ideologia etnico-nazionalista”.
Come spiega l’emergere di queste tendenze?
“C’è un vuoto spirituale, e si cerca riempirlo con queste suggestioni nazionaliste. Tra quelli che devono integrarsi nelle società plurali dell’Occidente c’è chi magari ha perso ogni percezione della ricchezza propria dell'essere Chiesa, eppure si aggrappa all'identità caldea per trovare un elemento di identificazione sociale. Hanno la sensazione psicologica che se perdono la loro identità caldea perdono tutto. Credono di salvaguardare così la propria storia, ma finiscono per crearsi un ghetto. Come vescovi dobbiamo essere avveduti davanti a queste dinamiche, invece di incoraggiarle”.
Nel suo primo provvedimento da Patriarca, Lei ha congelato i fondi e i conti correnti della Chiesa. E poi ha creato una commissione di laici per la loro gestione. Perché è partito da lì?
“Da quei fondi era sparito molto denaro. Ammanchi grossi. Sono state vendute anche case e proprietà della Chiesa, non si sa dove sono spariti i soldi, e la gente crede che siano finiti nelle tasche di chi gestiva quei beni. Vescovi e preti devono controllare, ma è meglio che l'economo non sia un sacerdote. Con quei soldi avremmo potuto comprare case per le famiglie che hanno più bisogno”.
Anche su questo terreno avete operato scelte eloquenti…
Louis Raphaël I si è insediato come Patriarca lo scorso 6 marzo, e dal 5 al 10 giugno ha convocato a Baghdad il primo Sinodo della Chiesa caldea dopo la sua elezione.
Prima del Sinodo caldeo, esponenti in vista della diaspora caldea in Usa hanno riaffermato che «l’identità nazionale caldea» è un patrimonio irrinunciabile sulla quale «non è possibile trattare». Lei come la vede?
“C’è chi sostiene che i caldei sono diversi dai fedeli di altre Chiese radicate nell'area non solo dal punto di vista confessionale-religioso, ma anche da quello etnico. Io ci vedo anche un retaggio del colonialismo che voleva dividere una comunità con origini condivise, come quando si contrappone “caldeo” a “assiro”. Per il nostro popolo anche il richiamo alla “caldeità” può diventare una trappola, una riduzione del cristianesimo a ideologia etnico-nazionalista”.
Come spiega l’emergere di queste tendenze?
“C’è un vuoto spirituale, e si cerca riempirlo con queste suggestioni nazionaliste. Tra quelli che devono integrarsi nelle società plurali dell’Occidente c’è chi magari ha perso ogni percezione della ricchezza propria dell'essere Chiesa, eppure si aggrappa all'identità caldea per trovare un elemento di identificazione sociale. Hanno la sensazione psicologica che se perdono la loro identità caldea perdono tutto. Credono di salvaguardare così la propria storia, ma finiscono per crearsi un ghetto. Come vescovi dobbiamo essere avveduti davanti a queste dinamiche, invece di incoraggiarle”.
Nel suo primo provvedimento da Patriarca, Lei ha congelato i fondi e i conti correnti della Chiesa. E poi ha creato una commissione di laici per la loro gestione. Perché è partito da lì?
“Da quei fondi era sparito molto denaro. Ammanchi grossi. Sono state vendute anche case e proprietà della Chiesa, non si sa dove sono spariti i soldi, e la gente crede che siano finiti nelle tasche di chi gestiva quei beni. Vescovi e preti devono controllare, ma è meglio che l'economo non sia un sacerdote. Con quei soldi avremmo potuto comprare case per le famiglie che hanno più bisogno”.
Anche su questo terreno avete operato scelte eloquenti…
“Il vecchio edificio del seminario a Baghdad viene trasformato in un complesso di appartamenti per nuclei familiari in difficoltà economica. Avranno la casa gratuitamente per un anno, e poi dovranno pagare solo una piccola quota per la manutenzione. Noi dobbiamo annunciare il Vangelo, il nostro compito non è fare affari. Le cose economiche lasciamole a laici onesti, che possono fare meglio di noi”.
Per quale motivo al Sinodo avete dovuto ribadire che i sacerdoti non possono lasciare la propria diocesi senza il consenso del vescovo?
“Molti preti hanno abbandonato l'Iraq di propria iniziativa, senza chiedere niente a nessuno. La famiglia si trasferiva all'estero, e loro andavano con la famiglia. Altri magari avevano problemi col vescovo o col Patriarca, o dicevano di avere paura per la situazione del Paese, e andavano via. Un'anarchia che è segno di decadenza e di disordine spirituale. Abbiamo perso quasi la metà di preti. Diversi di loro sono passati alla Chiesa assira d'Oriente. Anche tra noi cresce un certo clericalismo, tanti preti si sentono come dei piccoli boss, si sottraggono all'autorità del vescovo e pretendono di farsi servire dai fedeli. Ho incontrato già quattro volte i preti di Baghdad e ogni volta ho ripetuto che noi dobbiamo essere al servizio del popolo di Dio e del Vangelo, sacrificarci, e non accampare pretese come piccoli sceicchi”.
Sul terreno ecumenico, crede davvero che si possa arrivare all’unità sacramentale con la Chiesa Assira d’Oriente?
“Ci vuol tempo per vedere come vanno le cose. Ma io credo di sì. Da Patriarca, a Baghdad, mi coordino sempre con l’arcivescovo assiro e i capi delle altre Chiese per testimoniare che parliamo con una sola voce, avendo a cuore il bene del Paese e la difesa delle nostre comunità. Dopo la mia elezione, il Patriarca assiro mi ha scritto una lettera. Temevano l’arrivo di un Patriarca caldeo nazionalista. Nel viaggio che ho compiuto di recente in Australia, dagli assiri ho avuto un’accoglienza festosa, nelle loro chiese piene di gente”.
Al Sinodo avete anche ribadito che l’impegno in politica è una prerogativa dei laici.
“Alla recente riunione della Roaco (l’incontro in Vaticano delle istituzioni cattoliche che sostengono le Chiese d’Oriente, ndr) ho chiesto di raccogliere una equipe per aiutare la formazione dei politici cristiani. Molti di loro, compresi i parlamentari, non sono ben preparati. Non hanno una fisionomia propria, in grado di ispirare iniziative e proposte per il bene comune della nazione. Un contributo di cui ora il nostro Paese ha davvero bisogno”.
La guerra civile in Siria quali conseguenze avrà per i cristiani di quel Paese?
“Io ho visto quello che è successo in Iraq. Quando vado nelle parrocchie mi accorgo che sono rimasti quelli più poveri. Chi aveva la possibilità è fuggito all’estero. Anche per questo, una visita del Papa sarebbe importante. I governi occidentali cercano solo di promuovere i loro interessi nell’area. La Santa Sede non ha questo tipo di interessi. Solo dalla Santa Sede e dal Papa può venire un sostegno efficace e sincero. E per una visita del Papa in Iraq basterebbero due o tre giorni… Ce lo chiedono anche i nostri fratelli musulmani”.
Per quale motivo al Sinodo avete dovuto ribadire che i sacerdoti non possono lasciare la propria diocesi senza il consenso del vescovo?
“Molti preti hanno abbandonato l'Iraq di propria iniziativa, senza chiedere niente a nessuno. La famiglia si trasferiva all'estero, e loro andavano con la famiglia. Altri magari avevano problemi col vescovo o col Patriarca, o dicevano di avere paura per la situazione del Paese, e andavano via. Un'anarchia che è segno di decadenza e di disordine spirituale. Abbiamo perso quasi la metà di preti. Diversi di loro sono passati alla Chiesa assira d'Oriente. Anche tra noi cresce un certo clericalismo, tanti preti si sentono come dei piccoli boss, si sottraggono all'autorità del vescovo e pretendono di farsi servire dai fedeli. Ho incontrato già quattro volte i preti di Baghdad e ogni volta ho ripetuto che noi dobbiamo essere al servizio del popolo di Dio e del Vangelo, sacrificarci, e non accampare pretese come piccoli sceicchi”.
Sul terreno ecumenico, crede davvero che si possa arrivare all’unità sacramentale con la Chiesa Assira d’Oriente?
“Ci vuol tempo per vedere come vanno le cose. Ma io credo di sì. Da Patriarca, a Baghdad, mi coordino sempre con l’arcivescovo assiro e i capi delle altre Chiese per testimoniare che parliamo con una sola voce, avendo a cuore il bene del Paese e la difesa delle nostre comunità. Dopo la mia elezione, il Patriarca assiro mi ha scritto una lettera. Temevano l’arrivo di un Patriarca caldeo nazionalista. Nel viaggio che ho compiuto di recente in Australia, dagli assiri ho avuto un’accoglienza festosa, nelle loro chiese piene di gente”.
Al Sinodo avete anche ribadito che l’impegno in politica è una prerogativa dei laici.
“Alla recente riunione della Roaco (l’incontro in Vaticano delle istituzioni cattoliche che sostengono le Chiese d’Oriente, ndr) ho chiesto di raccogliere una equipe per aiutare la formazione dei politici cristiani. Molti di loro, compresi i parlamentari, non sono ben preparati. Non hanno una fisionomia propria, in grado di ispirare iniziative e proposte per il bene comune della nazione. Un contributo di cui ora il nostro Paese ha davvero bisogno”.
La guerra civile in Siria quali conseguenze avrà per i cristiani di quel Paese?
“Io ho visto quello che è successo in Iraq. Quando vado nelle parrocchie mi accorgo che sono rimasti quelli più poveri. Chi aveva la possibilità è fuggito all’estero. Anche per questo, una visita del Papa sarebbe importante. I governi occidentali cercano solo di promuovere i loro interessi nell’area. La Santa Sede non ha questo tipo di interessi. Solo dalla Santa Sede e dal Papa può venire un sostegno efficace e sincero. E per una visita del Papa in Iraq basterebbero due o tre giorni… Ce lo chiedono anche i nostri fratelli musulmani”.