È nunzio apostolico in Iraq e Giordania dal 10 novembre 2010, mons.  Giorgio Lingua, originario di Fossano in provincia di Cuneo. In Iraq  per ogni suo spostamento dalla nunziatura deve avvertire le autorità di  Bagdad 24 ore prima, per una visita fuori città, 72 ore prima. In questi  giorni afosi di luglio, dove il traffico di Roma ha solo in parte  allentato la sua morsa, mons. Lingua si sposta in scooter per poter  essere presente a tutti gli appuntamenti fissati. Deve provare un senso  di libertà prima di ricominciare a muoversi, in Iraq, con le scorte  armate.
  
In una visita ad una parrocchia ha contato, cecchini compresi, fino  a 100 uomini armati per proteggerlo. Mons. Lingua si apprezza, non solo  per la sua spiritualità, ma per la cordialità, gentilezza, semplicità e  spontaneità. Le stesse doti che anche la gente d’Iraq gli riconosce. La  sua vita blindata si divide tra Bagdad, circa 4 settimane, e Amman, in  Giordania, 1 settimana. Lo abbiamo incontrato in Vaticano in una serata  molto calda per noi, 35 gradi, fresca per lui, abituato anche a  temperature che possono superare i 50 gradi.
  
Un primo bilancio di questi primi otto mesi in Iraq?
 
«A vedere Bagdad ti si stringe il cuore perché è una città  sofferente, piena di cemento e di filo spinato. Il cuore soffre e  sperimenti un senso di impotenza. Tante volte mi sono tornate in mente  le parole di Chiara Lubich nello scritto Risurrezione di Roma, perché  non sai da dove cominciare.
 
L’unica risposta è trovare un’unione con Dio, compiere bene ogni  attimo la Sua volontà, senza pensare di poter risolvere nulla. Quando  incontro le persone, posso ascoltarli, condividere e stare con loro.  Tanti sacerdoti e vescovi sanno che possono fare poco, ma sanno che  possono stare con la gente. Questa è la nostra testimonianza: rapporti  personali, piccoli incontri, piccole cose. La spontaneità e la  semplicità sono molto apprezzate».
  
 Quali sono le difficoltà quotidiane nella vita di Bagdad?
 
«Mentre in Giordania l’acqua è razionata ed arriva due volte a  settimana, a Bagdad c’è una buona fornitura costante anche se per bere  si usa quella in bottiglia. La corrente elettrica, invece, arriva due  ore al giorno, senza sapere quando, e si interrompe continuamente. Ci  sono i generatori, ma non tutti possono permetterseli per il costo e  perché consumano moltissimo gasolio.
 
I check point in città creano confusione, code, ingorghi  continui nel traffico. Vedi pulmini pieni di gente, coi finestrini  aperti e temperature percepite fino a 55 gradi. È una vita dura. C’è  rassegnazione. Un giorno sono andato a portare le condoglianze alle  guardie che si occupano della nostra sicurezza per la morte, in un  attentato, di alcuni loro colleghi e mi ha sorpreso la naturalezza con  cui hanno reagito, sono coscienti che ogni giorno sono di fronte alla  possibile morte».
  
 Il governo mantiene le promesse?
 
«Mi sembra che ci sia la volontà, ma non sempre la possibilità  perché i problemi sono grandi. Dopo otto anni, solo per fare un esempio,  dopo che sono stati investiti milioni di euro per fornire di energia  elettrica una città come Bagdad che conta sei milioni di abitanti, siamo  ancora in condizioni di estrema precarietà. La gente sa che sono stati  investiti tanti soldi, ma non si sa dove sono andati a finire. Si aprono  indagini, ma senza risultati, allora la gente comincia a scendere nelle  strade a protestare, come in molte altre parti del mondo arabo».
  
 Nelle ultime cinque settimane sono ripresi gli attentati  contro i soldati americani: 17 i morti. Leon Panetta, il nuovo ministro  Usa della Difesa, ha accusato l’ Iran di armare i terroristi…
 
«Secondo gli accordi i soldati americani dovrebbero ritirarsi  completamente dall’Iraq entro il 31 dicembre di quest’anno. Già ora si  limitano ad offrire protezione ai confini e ai pozzi di petrolio, non  più sul territorio. La notizia dell’intenzione degli americani di  rimanere più a lungo ha suscitato le proteste di molti, in particolare  del movimento sadrista che ha organizzato una grande manifestazione non  violenta, ma minacciosa nel centro di Bagdad. Può darsi che i recenti  attentati abbiamo avuto questo scopo, ma è sempre difficile dire da chi  siano stati organizzati e commessi. I maggiori attentati con numerosi  morti, però, sono attualmente concentrati sulle forze dell’ordine  irachene. Pare ci sia chi ha interesse a volere un Iraq debole, ma è  difficile dire con precisione chi voglia destabilizzare il Paese. Al  Qaeda non basta a giustificare tutti gli attentanti».
  
 I cristiani sono ancora oggetto di attentati?
 
«A Bagdad, l’ultima serie di attentati contro cristiani ha avuto  luogo il 31 dicembre scorso, quando una decina di bombe sono state  scagliate contro case private di cristiani. Altri attentati sono  avvenuti, invece, a Mossul, dove un medico cristiano è stato colpito da  cinque colpi alla testa, e a Kirkuk, dove un giovane è stato decapitato  perché non è riuscito a pagare il riscatto. Per i cristiani è molto  forte la tentazione di lasciare l’Iraq e quando lo fanno spesso è in  maniera definitiva perché vendono tutte le loro proprietà. Anche i  cristiani che sono andati recentemente in Siria lo hanno fatto e  pertanto, ora che vorrebbero rientrare, diventa tutto più difficile. I  cristiani emigrano in Giordania, Siria e Turchia in attesa di avere lo  status di rifugiati dalle nazioni Unite».
  
 Si può parlare di persecuzione contro i cristiani?
 
«La persecuzione c’è stata, soprattutto tra il 2005 e il 2007. Un  quartiere di Bagdad che contava circa 100 mila cristiani, oggi ne conta  soltanto due o tre mila. Il tragico attentato del 31 ottobre 2010 contro  la cattedrale siro-cattolica Nostra Signora del perpetuo soccorso ha  tutti gli elementi di una persecuzione vera e propria. I terroristi,  infatti, durante l’irruzione in chiesa hanno invitato i cristiani a  convertirsi ed hanno recitato preghiere musulmane. Tuttavia, mi sembra  sinceramente eccessivo parlare di persecuzione sistematica. A volte  possono esserci motivazioni economiche, di stampo mafioso, più che  religiose: costringere un cristiano ad andar via per poter comprare la  sua casa ad un prezzo inferiore o a chiudere un’attività commerciale  perché fa troppa concorrenza. Con quello che hanno vissuto, però, i  cristiani sono molto sensibili e basta poco per incuter loro paura. Con  la guerra civile scoppiata alla caduta del regime di Saddam Hussein, c’è  stata una maggiore chiusura all’interno di ogni gruppo religioso,  prima, almeno nelle grandi città, si viveva più amalgamati, ora sono  cresciuti i sospetti e non ci si fida più dei vicini».
  
Come sostenere i cristiani?
 
«Alcuni cristiani, per esempio, hanno lasciato Bagdad per villaggi  più sicuri e tranquilli nel Nord del Paese, ma si trovano senza lavoro e  pertanto non riescono a mantenere la famiglia. Il governo italiano si è  detto disponibile ad aiutare alcuni progetti di sviluppo: la  costruzione di un’università, di un ospedale, di appartamenti e alcuni  fondi sono già stati stanziati, altri sono stati promessi. Questa è una  cosa concreta per far rimanere i cristiani in Iraq perché se non c’è  lavoro sono costretti a partire. Ho riscontrato tanta sensibilità e  desiderio di aiutare i cristiani iracheni nella comunità internazionale  ed europea, nelle Chiese, ma senza sapere concretamente come fare, dal  momento che investire in Iraq è molto rischioso perché non c’è  sicurezza. E se non c’è il controllo del territorio nessuno azzarda  investimenti. Garantendo una maggiore sicurezza l’Iraq può ripartire  perché è un Paese ricco, c’è molto petrolio e si sta estraendo molto  greggio».
  
 È diversa la situazione in Giordania?
 
«Quando vado ad Amman mi rilasso perché è un bella città, ed è  molto sicura. È un Paese sostanzialmente povero che però ha accolto  circa 500 mila rifugiati iracheni. Li accoglie come ospiti e quindi  offre loro molti servizi perché l’ospite è sacro nel Medio Oriente, ma  non fornisce loro uno statuto giuridico, per cui i giovani, terminati  gli studi, non possono vedere riconosciuti i loro titoli e gli adulti  non possono trovare un lavoro stabile. La Giordania è un Paese che può  avere un grande sviluppo, soprattutto turistico. È ricca di siti  archeologici ed è Terra Santa perché sede del luogo del battesimo di  Gesù, della tomba di Mosè, culla del profeta Elia.»
  
 La Casa Reale sostiene la minoranza cristiana?
 
«La Casa reale è ben disposta verso i cristiani, nonostante anche  in Giordania si percepisca un crescente fondamentalismo musulmano.  Promuove il dialogo interreligioso e potrei dire che tra il re Abdullah  II ed il santo Padre si è stabilito un rapporto di amicizia, al punto  che prima di partire per la Giordania, nell’incontro avuto con Benedetto  XVI, il Papa mi ha detto: «Mi saluti il re, che è mio amico».