Roberto Cetera
24 settembre 2023
«Una parte del mio cuore è rimasta in Iraq»: con queste parole, il cardinale Fernando Filoni, attuale Gran Maestro dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, sintetizza la sua esperienza di nunzio apostolico in Iraq, vissuta dal 2001 al 2006. Anni complessi che videro esplodere, nel 2003, la seconda guerra del Golfo, con tutte le sue drammatiche conseguenze. In quel tragico contesto, la Chiesa in Iraq divenne un punto di riferimento per la popolazione cristiana e non solo, come lo stesso cardinale Filoni spiega nel volume “La Chiesa in Iraq. Storia, sviluppo e missione, dagli inizi ai nostri giorni” (Lev, 2015, 256 pagine).
A un colloquio con «L’Osservatore Romano», il porporato ripercorre le principali tappe che vent’anni fa portarono al conflitto in Iraq.
Eminenza, quando Lei è arrivato in Iraq nel 2001, quale Paese ha trovato?
All’epoca, l’Iraq viveva le conseguenze sia del conflitto con l’Iran, perdurato dal 1980 al 1988, sia della prima guerra del Golfo, esplosa nel 1991. Gli Stati Uniti avevano imposto la no-fly zone e le sanzioni, la popolazione non aveva granché, il governo doveva sostenere l’economia, la moneta locale era letteralmente crollata. La gente viveva una situazione di controllo da parte delle Nazioni Unite e di scontro con Saddam Hussein, accusato di possedere armi micidiali. Accuse sempre respinte dallo stesso Saddam Hussein e in effetti a posteriori mai confermate.
Nel Kurdistan iracheno, invece, qual era la situazione?
Nella parte nord dell’Iraq, l’instabilità era provocata dai curdi che volevano essere autonomi e indipendenti da Saddam Hussein. Di conseguenza, continuamente si verificano guerriglie e devastazioni tra l’esercito di Saddam Hussein e i Peshmerga. Questo fu uno dei motivi che portò alla grande migrazione, sia interna che esterna, dei cristiani.
Qual era l’atteggiamento delle autorità irachene nei confronti della Chiesa?
Quando io sono arrivato in Iraq, la Chiesa era tenuta in considerazione perché durante la prima guerra del Golfo l’allora nunzio apostolico, monsignor Marian Oleś, non aveva abbandonato Baghdad. E questo fu apprezzato da Saddam Hussein, quindi non c’era un’attitudine negativa nei confronti delle autorità ecclesiali. La Chiesa godeva di una certa stima, anche perché era un punto di riferimento super partes, molto equilibrato. Non c’era libertà religiosa, ma i cristiani potevano vivere in modo abbastanza tranquillo. C’era la libertà di culto, anche se le scuole cattoliche erano state tutte requisite, eccetto una, lasciata alle suore caldee e presso la quale studiavano le figlie di Saddam Hussein. C’era inoltre un piccolo ospedale cattolico, tenuto dalle suore domenicane francesi, che furono le prime religiose arrivate in Iraq. Durante la guerra del 2003, questo nosocomio non poteva accettare feriti, però curava le malattie comuni e soprattutto le donne, sia cristiane che musulmane. In quel periodo, in sostanza, la Chiesa aveva una sua sicurezza, seppur minima: non c’erano atti diretti contro i cristiani. Tanto che l’uccisione di una suora di oltre 70 anni, avvenuta nel 2002 e commessa da parte di tre ragazzi, incontrò l’ira di Saddam Hussein che, nel giro di poche settimane, catturò i responsabili.
Lei ha mai incontrato Saddam Hussein?
Non l’ho mai incontrato, perché dopo la prima guerra del Golfo Hussein non incontrava mai alcun diplomatico per ragioni di sicurezza. Le credenziali si presentavano al vicepresidente.
Essere nunzio a Baghdad quali differenze comportava rispetto alle Sue precedenti esperienze?
Essendo i cristiani una minoranza, si sentivano protetti dalla presenza del nunzio e quindi anche del Papa. E il governo stesso rispettava questo ruolo anche per dimostrare che le minoranze in Iraq venivano rispettate. Il nunzio era quindi una garanzia e si poteva, in alcuni casi limitati, aprire delle trattative attraverso il Patriarcato. E dovunque io sono andato, ho trovato sempre molta deferenza da parte delle autorità.
Tra l’altro, Saddam Hussein fece arrivare in Iraq alcune suore di Madre Teresa alle quali affidò un piccolo orfanotrofio per bambini gravemente disabili. Nella residenza di Saddam Hussein, inoltre, c’erano molti lavoratori cristiani, dei quali lui si fidava, perché diceva che rispettavano la parola data.
Qual era la posizione della Santa Sede in quegli anni?
Non si può guardare alla Chiesa come a una potenza che deve intervenire in favore dell’una o dell’altra parte. C’è sempre un principio di giustizia ed esso può essere difeso attraverso un atteggiamento equanime.
Giovanni Paolo II aveva il polso della situazione e aveva una posizione corretta ed onesta: non difendeva Saddam Hussein in quanto era un dittatore ed anche violento, ma il Papa era contro la guerra in Iraq e sapeva che la guerra preventiva che gli Stati Uniti avevano ipotizzato, con il sostegno della Gran Bretagna, era inaccettabile. Perché con questo concetto si può fare la guerra ovunque. E invece nel caso dell’Iraq non c’erano motivi reali per scatenare un conflitto.
Quali conseguenze ha provocato la seconda guerra del Golfo?
Basti dire che il sedicente stato islamico (Is) è “l’ultimo figlio” di quel conflitto. L’Is non è nato casualmente: gli americani erano visti come forza di occupazione, non di liberazione. E l’attuale situazione nasce dal fatto che quella guerra ha lasciato dietro di sé il caos.
Che impressione Le ha fatto tornare in Iraq a marzo 2021 insieme Papa Francesco?
Racconto un aneddoto: dopo vent’anni, ho rivisto una persona che nel 2001 era assistita nell’orfanotrofio delle suore di Madre Teresa. All’epoca, era una bimba di pochi mesi ed aveva una grave disabilità. I genitori l’avevano abbandonata alla nascita, ma era una bambina molto intelligente. A marzo 2021 l’ho ritrovata: oggi ha vent’anni, si muove in sedia a rotelle e ha imparato l’inglese. L’ho salutata e lei mi ha risposto con un sorriso.