By AgenSIR
Daniele Rocchi
22 aprile 2023
“Essere ascoltati e rispettati”: non ha dubbi il patriarca caldeo di Baghdad, il card. Louis Raphael Sako. Dieci anni dopo la promulgazione dell’Esortazione postsinodale Ecclesia in Medio Oriente (Emo), “i cristiani del Medio Oriente non possono essere considerati ‘cittadini di serie B’. Vanno aiutati a restare nei loro Paesi e non ad emigrare”.
A Nicosia (Cipro) dove si trova per partecipare al simposio sul decennale della Esortazione – firmata da Benedetto XVI ad Harissa (Libano) il 14 settembre del 2012 – il patriarca caldeo parla al Sir delle sfide, minacce e prospettive dei cristiani della regione.
Di cosa hanno bisogno oggi i cristiani del Medio Oriente, 10 anni dopo l’Esortazione?
Di essere ascoltati e rispettati. Siamo di fronte ad una realtà che ci pone davanti nuovi problemi e sfide. Bisogna pensare, di concerto con il Dicastero delle Chiese Orientali, a come aiutare i cristiani della regione a restare nelle loro terre, a sperare e testimoniare la fede cristiana. Questa è la nostra vocazione ma abbiamo bisogno di essere sempre più aiutati, ascoltati e accompagnati dalla Chiesa madre. Se i cristiani andranno via dal Medio Oriente le radici del Cristianesimo scompariranno. E questo è grave. Al Simposio ho proposto un incontro dei patriarchi dei Paesi dove i cristiani non vedono futuro. In Siria, in Iraq, in Palestina, in Libano ci sono sfide politiche, economiche, culturali e sociali che minano la presenza delle nostre comunità. La secolarizzazione sta svuotando l’Occidente di tutto ciò che è sacro. Qui in Oriente abbiamo il fondamentalismo che si trasforma in terrore e terrorismo. Siamo minacciati, marginalizzati, le nostre case, le nostre terre vengono occupate, così i nostri villaggi. E poi c’è la questione demografica.
Di essere ascoltati e rispettati. Siamo di fronte ad una realtà che ci pone davanti nuovi problemi e sfide. Bisogna pensare, di concerto con il Dicastero delle Chiese Orientali, a come aiutare i cristiani della regione a restare nelle loro terre, a sperare e testimoniare la fede cristiana. Questa è la nostra vocazione ma abbiamo bisogno di essere sempre più aiutati, ascoltati e accompagnati dalla Chiesa madre. Se i cristiani andranno via dal Medio Oriente le radici del Cristianesimo scompariranno. E questo è grave. Al Simposio ho proposto un incontro dei patriarchi dei Paesi dove i cristiani non vedono futuro. In Siria, in Iraq, in Palestina, in Libano ci sono sfide politiche, economiche, culturali e sociali che minano la presenza delle nostre comunità. La secolarizzazione sta svuotando l’Occidente di tutto ciò che è sacro. Qui in Oriente abbiamo il fondamentalismo che si trasforma in terrore e terrorismo. Siamo minacciati, marginalizzati, le nostre case, le nostre terre vengono occupate, così i nostri villaggi. E poi c’è la questione demografica.
Cristiani sempre più dentro un recinto?
I cristiani vanno via. Forse rimarrà la memoria, ma questa deve essere viva. Nel 2009 andai da Papa Benedetto XVI a chiedere che si facesse un Sinodo per il Medio Oriente. Siamo chiese piccole, non vediamo futuro. Un Sinodo per radunare tutte queste Chiese e prestare loro ascolto, dare speranza. L’Esortazione è molto bella ma oggi, dopo 10 anni viviamo in un altro mondo. La visita del Papa in Iraq, la sua presenza, la sua vicinanza, la sua amicizia con i musulmani, hanno prodotto molto di più che non l’Esortazione.
Basti pensare al documento di Abu Dhabi, o all’incontro, il 6 marzo 2021, a Najaf con il Grande Ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni Al-Sistani, leader della comunità sciita nel Paese che pronunciò parole di amicizia e di fratellanza verso i cristiani. Ecco, bisogna sfruttare tutte queste cose per vivere da fratelli e da cittadini, per cambiare la mentalità della società che considera i musulmani superiori mentre gli altri sono trattati come cittadini di Serie B. I cristiani sono in Iraq secoli prima dei musulmani ma siamo una minoranza e abbiamo bisogno degli altri. Pensiamo anche al Libano dove i cristiani erano la maggioranza. Oggi tutti pensano a emigrare, quando invece i cristiani hanno tanto da dare ai loro Paesi.
La dichiarazione di Abu Dhabi, l’enciclica Fratelli tutti, forse non stanno producendo i frutti sperati?
Il dialogo con le autorità musulmane esiste ma bisogna implementarlo. La visita di delegazioni di vescovi, cardinali o di Paesi occidentali infonde tanta speranza ai cristiani locali. La mentalità orientale è tribale ma le comunità cristiane non la vivono. Siamo una Chiesa e abbiamo bisogno di vicinanza e di amicizia non solo a parole ma anche con i fatti. Ci sentiamo persi, smarriti, delusi. In Iraq eravamo un milione e mezzo, oggi siamo meno di un terzo, e domani saremo anche meno. Le nostre famiglie sono divise tra l’Iraq e l’Occidente.
Quali sono queste azioni, questi fatti che lei invoca necessari a invogliare i cristiani a restare e magari ad essere più partecipi della vita dei loro Paesi?
Come ho detto, innanzitutto, essere ascoltati e rispettati anche nella Chiesa. Noi viviamo questa realtà e ci fa male. I problemi si affrontano andando a vedere, a conoscere da vicino la nostra realtà, i giovani, le famiglie, i preti, i religiosi e religiose, e anche i Governi. Noi da soli non ce la facciamo. Si parla tanto di diritti umani e poi ci si dimentica che siamo esseri umani. Siamo cittadini che hanno stessi diritti e doveri dei musulmani. Ma questo oggi non esiste. Invece di formare Paesi democratici e civili hanno alzato le barriere. Serve separare la religione dallo Stato.
Crede che la ripresa di relazioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran potrà mutare lo scenario geopolitico dell’area e anche della presenza cristiana?
Non credo molto, è una questione di interessi e di giochi politici che vede coinvolti gli Usa e tutto l’Occidente. La politica cambia e il Medio Oriente non nutre fiducia nella politica, soprattutto americana. Pensiamo a cosa è accaduto in Iraq o in Afghanistan, in Libano. Aggiungiamo anche che la guerra assurda tra Russia e Ucraina ha cambiato il mondo. Paghiamo una politica occidentale sbagliata.
“Da soli non ce la facciamo”, ha detto poco fa. Chi potrebbe aiutarvi in questo cammino di riconoscimento, la Chiesa ma anche la comunità internazionale, la diplomazia?
Un grosso aiuto deve arrivare dai nunzi apostolici che devono rappresentare presso i Governi le istanze della Chiesa e delle comunità cristiane perseguitate e maltrattate. Si tratta di una persecuzione discreta, non pubblica: per esempio un cristiano non può essere ministro, o ricoprire cariche apicali. Per non parlare di quando milizie penetrano nella tua casa e la occupano, minacciano di rapirti. Come definire tutto questo se non persecuzione? È importante allora che i nunzi conoscano la realtà, la cultura e perché no, anche la lingua, dei nostri Paesi. Si tratta di un punto di vista condiviso anche con gli altri patriarchi. Bisogna parlare se vogliamo cambiare le cose. Non ho paura a dialogare e a criticare con forza il Governo del mio Paese. La Chiesa deve avere una voce profetica come quella di Gesù e degli apostoli che hanno cambiato il mondo. Contiamo molto sulla Chiesa e sulla vicinanza che non può essere solo economica.