By Oasis
Angela Boskovitch
27 ottobre 2022
Tra il 2014 e il 2017, con lo pseudonimo Mosul Eye, lo storico iracheno Omar Mohammed ha documentato le atrocità commesse dall’ISIS. Nel 2021, ha accolto la visita del Papa come un segno di rinascita. Ora coordina un gruppo di giovani attivisti che per scacciare i fantasmi della guerra lavorano alla ricostruzione urbana, civile e culturale della città irachena.
«Non riesco a ricordare un solo giorno della mia vita in cui sia stato davvero felice, in cui non ci siano stati problemi urgenti, emergenze o conflitti. Non un solo giorno in cui io abbia potuto pensare soltanto a respirare e riposare»: queste parole, riferitemi una volta da un iracheno, riflettono lo stato d’animo di gran parte dei suoi concittadini, che da decenni sono sottoposti a una serie ininterrotta di traumi.
Purtroppo, le conseguenze di questa condizione esistenziale sono spesso trascurate dalle organizzazioni umanitarie internazionali che operano in Iraq. È raro infatti che questo aspetto venga considerato negli interventi umanitari e, quando ciò accade, è trattato il più delle volte come un’appendice dei programmi per la salute mentale e il supporto psicosociale, senza rientrare in un progetto a sé incentrato sui problemi che affliggono i diversi gruppi della società irachena.
Lo shock è particolarmente evidente a Mosul e nelle città circostanti della provincia di Ninive che, dopo l’invasione statunitense nel 2003, sono state travolte nel 2014 da una nuova ondata di violenza con l’arrivo dell’ISIS. La guerra per liberare queste aree dallo Stato Islamico è stata particolarmente brutale e ha causato, secondo alcune fonti giornalistiche, almeno 10.000 vittime tra i civili, anche se il numero effettivo dei morti non lo conosceremo mai. A essere certo è invece che praticamente nessuna famiglia è riuscita a scampare alla tragedia.
Purtroppo, le conseguenze di questa condizione esistenziale sono spesso trascurate dalle organizzazioni umanitarie internazionali che operano in Iraq. È raro infatti che questo aspetto venga considerato negli interventi umanitari e, quando ciò accade, è trattato il più delle volte come un’appendice dei programmi per la salute mentale e il supporto psicosociale, senza rientrare in un progetto a sé incentrato sui problemi che affliggono i diversi gruppi della società irachena.
Lo shock è particolarmente evidente a Mosul e nelle città circostanti della provincia di Ninive che, dopo l’invasione statunitense nel 2003, sono state travolte nel 2014 da una nuova ondata di violenza con l’arrivo dell’ISIS. La guerra per liberare queste aree dallo Stato Islamico è stata particolarmente brutale e ha causato, secondo alcune fonti giornalistiche, almeno 10.000 vittime tra i civili, anche se il numero effettivo dei morti non lo conosceremo mai. A essere certo è invece che praticamente nessuna famiglia è riuscita a scampare alla tragedia.
Gli esempi delle violenze commesse a Mosul sono innumerevoli. Uno tra i tanti è l’attacco avvenuto il 21 dicembre 2004 contro la grande base operativa americana Marez, nella parte meridionale di Mosul, che è stato definito «l’attentato più sanguinoso messo a segno contro una base militare statunitense durante la guerra in Iraq». Vi persero la vita 22 persone tra cittadini statunitensi e iracheni. In precedenza, la base era appartenuta alla Guardia repubblicana irachena. Al suo interno si trovavano le rovine del monastero cristiano più antico dell’Iraq, Deir Mar Elia (Il monastero di Sant’Elia), risalente al VI secolo, un tempo importante centro di pellegrinaggio per la comunità cristiana della zona. Nel 1743, durante l’invasione delle forze persiane di Nader Shah, i 150 monaci che vivevano nel monastero furono uccisi perché si rifiutarono di convertirsi all’Islam e gran parte della struttura fu distrutta. Ciò che ne rimaneva fu ulteriormente danneggiato dai combattimenti durante l’invasione americana nel 2003 e poi completamente distrutto dall’ISIS nel 2014.
Una goccia nel mare
Yousif Toma è un frate domenicano, oggi vescovo di Kirkuk. Nel 2012, durante un’intervista rilasciata all’interno dell’Accademia delle scienze umane di Bagdad, dove insegnava a studenti di diversa origine religiosa ed etnica, molti dei quali vittime di terribili violenze, ebbe a dire: «Qui cerchiamo di spiegare le cose alle persone, ma siamo soltanto una goccia in un vasto mare».
Le sue parole ricordano la famosa espressione di Madre Teresa di Calcutta, la quale, rispondendo a un giornalista, aveva descritto la sua opera come il tentativo di essere una goccia d’acqua pulita in cui si riflette l’amore di Dio.
Anche l’associazione Mosul Eye è un fragile tentativo di moltiplicare questi sforzi di sostegno umano. È stata fondata nel 2019 in Francia dallo storico iracheno Omar Mohammed che, tra il 2014 e il 2017, aveva documentato le atrocità commesse nella sua città dall’ISIS usando appunto lo pseudonimo “Mosul Eye”, quando nessuna fonte d’informazione indipendente poteva entrare o uscire dalla regione controllata dai terroristi. L’associazione è composta da una decina di attivisti della società civile di Mosul e delle città circostanti: studenti, neolaureati e giovani professionisti che da anni lavorano per sostenere concretamente la ricostruzione della loro città devastata dalla guerra, per sanare le ferite delle sue comunità e far rivivere lo spirito di queste antiche terre.
In Iraq, infatti, mancano moderne istituzioni della società civile capaci di far uscire il Paese dall’inarrestabile ciclo di guerre e conflitti intestini. Molte realtà formali del Paese, tra cui i sindacati, gli enti educativi e le associazioni pubbliche nel campo della cultura, continuano a operare con una mentalità autoritaria tipica del regime precedente, mancano di trasparenza e di meccanismi di supervisione, e non sono capaci di coinvolgere i giovani o integrare le iniziative che nascono creativamente dal basso. In molti casi, esse intervengono addirittura per soffocare l’innovazione e le idee che contrastano con le interpretazioni fondamentaliste dell’Islam, specialmente nel campo della cultura.
L’associazione Mosul Eye lavora quindi per aprire nuovi canali d’azione al di là di queste strutture, puntando in particolare a coinvolgere giovani professionisti provenienti da ambiti diversi, fondamentali per ridare vita al Paese. Da decenni nessun istituto culturale o accademico europeo opera in maniera continuativa a Mosul, anche se questo stato di cose potrebbe lentamente iniziare a cambiare. Ciò ha fatto sì che la città rimanesse per molti versi isolata. Soprattutto chi si affacciava all’età adulta è stato privato della possibilità di instaurare rapporti e collaborazioni in un mondo complesso che solo in apparenza è connesso, perché in realtà presenta profonde divisioni, spesso sottovalutate dalle ONG e dalle agenzie delle Nazioni Unite che operano in Iraq.
Per sviluppare la società civile di Mosul, in particolare nei settori della cultura, dei media, della costruzione della pace e dell’istruzione – tutti ambiti fondamentali se l’Iraq diventerà mai una società democratica – è necessario coinvolgere cittadini credibili che abbiano anche avuto l’opportunità di fare esperienze internazionali. Costruire una società completamente nuova per una nuova generazione significa lavorare sull’educazione e sulla cultura dei giovani di oggi, adottando i migliori strumenti disponibili nel mondo. È tempo che le scuole irachene adottino metodi di insegnamento e di apprendimento adatti a formare una nuova generazione di pensatori e innovatori. I programmi di studio devono essere cambiati, gli insegnanti formati per stimolare la creatività, le aule devono essere rese accessibili alle persone con disabilità e l’istruzione deve fornire ai cittadini le competenze necessarie per dialogare e costruire la società civile. Perché Mosul e l’Iraq possano lasciarsi alle spalle le loro ricorrenti tragedie sarà fondamentale il sostegno di chi ha esperienza in questi ambiti. Si potrebbero anche valutare nuove forme di collaborazione, per esempio ricorrendo ai metodi educativi utilizzati nei Paesi che hanno storie recenti di conflitti civili, come l’Argentina, per affrontare il trauma delle loro società. Il teatro, in particolare il cosiddetto “Teatro degli oppressi”, è stato uno strumento particolarmente importante negli ultimi anni in Iraq per dar voce alle emozioni che sono difficili da esprimere nella società.
La visita di un «Uomo di Dio»
Nel terzo e ultimo giorno del suo storico pellegrinaggio in Iraq, il 7 marzo 2021, Papa Francesco ha presieduto una preghiera di suffragio per le vittime della guerra nel quartiere di Hosh al-Bay‘a, nella Città Vecchia di Mosul, dove si trovano diverse chiese storiche distrutte in parte dall’ISIS e in parte durante la battaglia per la riconquista della città nel 2016-2017. La Città Vecchia, nota come Mosul Ovest e che il fiume Tigri divide dalla parte orientale della città, è stata la zona più colpita da questa ennesima tragedia che si è abbattuta su un Paese già molto tormentato. La presenza fisica di Papa Francesco tra le macerie delle costruzioni annientate dalla guerra non potrà mai essere sottolineata abbastanza. È stato infatti il primo leader occidentale, politico o religioso, a visitare questa terra insanguinata, dove i civili hanno pagano un prezzo molto alto. La maggior parte di coloro che oggi vivono nella Città Vecchia non sono i cittadini cosmopoliti di un tempo, fuggiti nella parte orientale della città o in altri centri iracheni, ma persone arrivate dalle zone periferiche che tirano a campare col poco sostegno che ricevono.
Prima di lasciare la città, lontano dall’occhio delle telecamere, Papa Francesco ha incontrato e benedetto un gruppetto di bambini. Questi non sapevano esattamente chi fosse «il Papa del Vaticano», sapevano soltanto che quell’uomo vestito di bianco era un «Uomo di Dio» – ha raccontato padre Olivier Poquillon, frate domenicano che dal 2019 vive a Mosul, dov’è coinvolto nel progetto dell’UNESCO “Revive the Spirit of Mosul”. Questo progetto prevede la ricostruzione della chiesa di Nostra Signora dell’Ora, distrutta durante l’offensiva per liberare la città dall’ISIS, oltre al restauro di un’altra chiesa della città e della moschea di al-Nuri che, con il suo minareto pendente, è uno dei monumenti storici della città.
Verde speranza
«La visita di Papa Francesco ci ha dato la speranza di riuscire a sanare le profonde ferite della guerra e del terrorismo che ci portiamo dentro», ha commentato il fondatore di Mosul Eye. Oggi Omar è diventato l’inaspettato animatore di una squadra di giovani attivisti impegnati in un grande progetto, sostenuto dal governo francese: “rinverdire” Mosul piantando quasi 5.000 alberi in una decina di giardini della città e nei suoi dintorni. «Noi oggi piantiamo alberi per il presente e per l’avvenire. Lavoriamo per costruire un futuro che sani le ferite del passato: per questo gli alberi verranno piantanti in luoghi storici appartenenti alle diverse comunità etniche e religiose di Mosul, nei cortili delle università e negli spazi pubblici» – ha continuato Muhammad. Uno di questi luoghi è proprio la chiesa di Nostra Signora dell’Ora, dove saranno piantati anche alberi da frutta per incoraggiare la ripresa della produzione di marmellate artigianali. Come spiega ancora lo storico, quest’iniziativa è un modo per ricompattare la città e le sue comunità.
Lontano dalla tranquillità delle oasi giardino, resta però vivo il ricordo della violenza che gli abitanti di Mosul hanno sperimentato dal 2003 a oggi. Spesso i ribelli attaccavano e giustiziavano le forze di sicurezza irachene di stanza nella città o vicino ad essa, assaltavano le stazioni di polizia, facevano esplodere autobombe e attaccavano le diverse comunità etniche e religiose che Mosul ospitava fin dai tempi antichi. I rapimenti erano molto comuni.
I cristiani erano particolarmente presi di mira perché non avevano reti tribali che garantissero loro protezione, anche se chiunque si trovasse per strada rischiava di essere rapito da uomini mascherati, portato via in auto e nascosto in luoghi sconosciuti fino a quando la famiglia non pagava il riscatto.
Più di dieci anni fa, quando i rapimenti erano frequenti, padre Yousif Toma affermò in un’intervista che «a Mosul tutti pagano» mentre chi scrive, che è di origini siciliane, gli ricordava il racket della protezione mafiosa. Purtroppo, però, il peggio doveva ancora venire. Sarebbe arrivato nel 2014 con la conquista di Mosul e delle città circostanti da parte dell’ISIS, che ha cancellato completamente ogni forma di diversità religiosa, perpetrato violenze di massa e costretto anche i musulmani alla fuga in altre regioni dell’Iraq o all’estero. Nella conferenza stampa sul volo di ritorno a Roma, il Pontefice ha espresso ai giornalisti il suo turbamento per lo stato di devastazione della città e ha sollevato una domanda su cui la comunità internazionale raramente si interroga e a cui raramente risponde: «Chi ha venduto le armi a questi terroristi? Chi è il responsabile? Almeno chiederei a questi che vendono le armi la sincerità di dire: noi vendiamo le armi».
La devastazione non ha colpito soltanto gli edifici. Come mi ha detto una ragazza ventiquattrenne, laureata e membro dell’associazione Mosul Eye, e di cui non faccio il nome per preservare la sua sicurezza, «lo shock e i traumi sono ovunque intorno a noi. Tutto questo è parte della nostra vita quotidiana ma noi, nonostante tutto, ridiamo ancora e vogliamo vivere, ed è per questo che abbiamo aderito al progetto “Green Mosul” per il quale stiamo lavorando così duramente». Aderendo a questo progetto, che è iniziato alla fine del 2021 e proseguirà per tutto il 2022, questa ragazza e altri giovani dell’associazione stanno cercando di affrontare i fantasmi della guerra.
Mosul Eye è molto attiva anche a livello culturale: «Con alcuni volontari – ha spiegato Omar Mohammed – abbiamo rifornito la biblioteca universitaria andata distrutta e lavorato a diversi piccoli progetti culturali. Per esempio, abbiamo organizzato un concerto di violino presso la tomba del Profeta Giona, parzialmente distrutta dall’ISIS. In futuro sogniamo persino di aprire un teatro dell’opera a Mosul».
Sono questi i sogni di molti giovani che sperano in un futuro migliore per la loro città e per il loro Paese, nonostante il ritorno ciclico della violenza. Un ritorno che, nell’omelia pronunciata durante la messa conclusiva celebrata a Erbil, Papa Francesco ha voluto scongiurare rilanciando gli insegnamenti cristiani della fraternità, del perdono e del servizio al prossimo: «Qui in Iraq, quanti dei vostri fratelli e sorelle, amici e concittadini portano le ferite della guerra e della violenza, ferite visibili e invisibili! La tentazione è di rispondere a questi e ad altri fatti dolorosi con una forza umana, con una sapienza umana. Invece Gesù ci mostra la via di Dio, quella che Lui ha percorso e sulla quale ci chiama a seguirlo».