Fulvio Scaglione
Ieri, a cent’anni esatti da quel 29 agosto 1915 in cui la soldataglia 
turca lo decapitò dopo averlo torturato a morte per poi gettarne le 
spoglie nel fiume Tigri, è stato proclamato beato il vescovo 
siro-cattolico Flaviano Michele Melki. Non molti, in Occidente, 
conoscono la sua storia, considerata invece esempio di santità tra i 
fedeli delle Chiese orientali. Nato nel 1858 a Qaalat Mara, nel sud-est 
della Turchia, era stato ordinato vescovo (la cerimonia si svolse a 
Beirut, in quel Libano che ieri l’ha visto diventare beato) di Djezireh 
dei Siri nel 1913. Tra i fedeli era noto anche per aver venduto i 
paramenti pur di aiutare i poveri. Nel 1915, di fronte all’avanzare 
della persecuzione, rifiutò di abbandonare la propria sede, dove subì il
 martirio.
Non deve stupire che una simile testimonianza di 
fede sia tuttora largamente sconosciuta. Intanto, il genocidio degli 
assiri, in cui morirono tra 250mila e 750mila cristiani, raggiunti e 
trucidati in vaste zone della Turchia e persino nell’odierno Iran, è 
stato accuratamente rimosso. Non figura nei libri di testo, è negato 
dalla Turchia al pari di quello a esso contemporaneo degli armeni, e per
 ragioni di convenienza politica è riconosciuto da pochi Stati (lo fanno
 Italia e Francia, Svizzera e Polonia ma non Gran Bretagna, Germania e 
Usa, che non accettano il termine "genocidio" nemmeno per gli armeni) ed
 è stato discusso dal Parlamento europeo per la prima volta nel 2007.
Una
 congiura del silenzio che ha reso piuttosto facile spingere nell’ombra 
tante stragi, ma che fa capire la forza delle parole di papa Francesco, 
che il 12 aprile di quest’anno, salutando i fedeli di rito armeno 
durante la Messa per l’anniversario del genocidio, ha detto: «La nostra 
umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la 
prima, quella che generalmente viene considerata come "il primo 
genocidio del XX secolo", ha colpito il vostro popolo armeno, prima 
nazione cristiana, insieme ai siro-cattolici, ortodossi, assiri, caldei e
 ai greci». Il Novecento come secolo dei genocidi e secolo anche di 
genocidi cristiani: ecco un tema su cui varrebbe la pena di riflettere 
molto più di quanto si sia fatto finora.
Ma c’è un’altra 
ragione per cui la figura del vescovo Melki e la storia del suo martirio
 sono oggi esemplari. E questa ragione sta proprio in quel suo essere un
 martire a molti ignoto. È la più terribile ed efficace conferma che in 
un secolo non è cambiato quasi nulla per milioni di cristiani di tante 
parti del mondo. Possiamo dirlo di nuovo con le parole del Papa, che in 
un’omelia a Santa Marta ha ricordato appunto «i nostri fratelli sgozzati
 sulla spiaggia della Libia, quel ragazzino bruciato vivo dai compagni 
perché cristiano, quei migranti che in alto mare sono buttati in mare 
dagli altri perché cristiani. Pensiamo a quegli etìopi assassinati 
perché cristiani, e tanti altri che noi non sappiamo». 
Nei massacri 
dell’intolleranza islamica come nella pulizia etnica dell’Is, nelle 
tragedie dell’immigrazione come nella crudeltà delle guerre civili, il 
martirio dei cristiani ancora oggi è anonimo, ignorato e quindi 
disprezzato. Come si vede, un secolo è passato invano. 
È 
importante rendersi conto, sempre nel nome e nell’esempio di monsignor 
Melki, che anche oggi del martirio cristiano si parla poco non per caso o
 per distrazione ma per convenienza. Il silenzio è necessario per non 
turbare certe politiche, non disturbare certe alleanze, non alterare 
certi equilibri. Ricordiamo le reazioni scomposte, urlate, e quindi 
tanto più indicative, che accolsero in aprile le parole di papa 
Francesco (che riecheggiavano quelle di Giovanni Paolo II e del 
patriarca armeno Karekin II) sul massacro dei cristiani armeni e dei 
siro-cattolici come «primo genocidio del Novecento». Nel 2003 in Iraq 
c’era quasi un milione e mezzo di cristiani e oggi ce ne sono meno di 
300 mila. L’Is è arrivato a controllare un territorio grande quasi 
quanto l’Italia. Nella Nigeria delle enormi ricchezze petrolifere pare 
ineliminabile la violenza di Boko Haram. Potremmo fare tanti altri 
esempi ma la domanda è sempre la stessa: davvero non sappiamo perché? 
Siamo sicuri che non potremmo fare di più e di meglio?