"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

11 giugno 2024

Mosul Eye: dieci anni dopo l’Isis, gli occhi di un popolo ferito che rinasce

Dario Salvi

Ricorrono in questi giorni i 10 anni dall’ascesa dell’Isis a Mosul, con la successiva espansione lungo la piana di Ninive sino a conquistare metà dei territori di Siria e Iraq in un biennio. Un anniversario che, nonostante la successiva sconfitta del movimento islamista nel nord dell'Iraq, per tante ragioni rappresenta ancora una ferita aperta, con la lotta all’ideologia radicale che rimane un problema irrisolto. Lo sostiene oggi in una lunga riflessione pubblicata sul sito del patriarcato, il primate caldeo card. Louis Raphael Sako che parla di “eventi dolorosi impressi nella memoria”.
Per impedire che tragedie analoghe si ripetano in futuro, il presule torna ad auspicare “soluzioni durevoli” partendo da politiche di sviluppo che fermino l’esodo dei cristiani. A questo il porporato unisce la lotta alle milizie, lo studio della storia cristiana e la costruzione “di uno Stato che sia davvero civile e democratico”. Per ricordare il decennio trascorso da una delle pagine più buie della storia moderna non solo dell’Iraq, ma dell’intera comunità globale, AsiaNews ha intervistato Omar Mohammed, autore di Mosul Eye. Una delle rarissime voci che, al rischio della vita, in quei giorni terribili si spese per testimoniare l’abisso di brutalità e barbarie dei miliziani.

“Si poteva evitare?”. Vi era una possibilità per scongiurare il collasso di Mosul e “il drammatico impatto” sulla sua popolazione, sulla sua “struttura sociale” che ne è uscita stravolta, sulla sua storia che “è cambiata per sempre?”.
Sono gli interrogativi che pone, a 10 anni di distanza dall’ascesa dello Stato islamico (SI, ex Isis), lo studioso, citizen journalist e blogger Omar Mohammed che attraverso la pagina “Mosul Eye” ha raccontato le atrocità commesse dai jihadisti in città. AsiaNews lo ha raggiunto al telefono in una località che chiede di mantenere segreta per sicurezza, ripercorrendo con lui le fasi drammatiche della caduta della metropoli del nord, il regno del terrore e la sconfitta militare per l’offensiva dell’esercito iracheno col sostegno degli Stati Uniti.
“Gli occhi” con i quali la popolazione ha testimoniato, e raccontato per quanto possibile, la tragedia che si stava consumando “sono stati la nostra forma di resistenza all’Isis” racconta lo studioso, “così ci siamo contrapposti e abbiamo resistito” portando ancora oggi impresso sul volto il marchio della sofferenza. “Quando ho incontrato per quasi un’ora in privato papa Francesco [nel viaggio apostolico del marzo 2021] - ricorda - ha pronunciato una frase che mi ha inquietato: guardandomi ha detto di poter dare un volto alle sofferenze di un popolo”. Il pontefice ha reso evidente quanto il dramma di Mosul, le ferite sarebbero state per sempre “parte del mio volto”.

Mosul, 10 anni dopo
A un decennio di distanza la metropoli del nord è una realtà che cerca di ripartire dopo le devastazioni jihadiste, grazie anche alla ricostruzione dei suoi monumenti più celebri - dalla moschea di al-Nouri alla chiesa dell’orologio - aprendosi pure al turismo. “L’autobomba contro il quartier generale dell’esercito” ai primi di giugno del 2014 rappresentò “la svolta”, perché “da quel momento tutto è collassato e la nostra storia è cambiata per sempre” afferma Omar Mohammed. “Proprio in questi giorni - aggiunge - ho ripensato a quei momenti e sono caduto in una profonda crisi depressiva, perché non riuscirò mai a capire il livello di brutalità che hanno portato” unito al “disprezzo per tutto quello che la natura umana rappresenta”.
In passato la “capitale del nord”, soprattutto in seguito all’invasione statunitense del 2003, aveva già registrato fasi di violenza e attacchi di matrice estremista. Fatti di sangue che avevano coinvolto anche i cristiani, come testimoniano le morti di p. Ragheed Ganni nel 2007 e il sequestro un anno più tardi, concluso col ritrovamento del cadavere, dell’allora arcivescovo caldeo mons. Paul Faraj Rahho.
“Quelli erano episodi - spiega il blogger e studioso - ma dopo che Daesh [acronimo arabo per lo Stato islamico] ha assunto il controllo la brutalità è diventata sistematica, parte del sistema di governo”. “Dopo la caduta dell’Isis - prosegue - ho avuto accesso agli archivi e ho potuto osservare come la loro idea di governo fosse proprio mirata a imporre un modello di brutalità sulle persone, un metodo radicato nello Stato islamico”.

Occhi per raccontare il terrore
Negli anni di dominio jihadista “Mosul Eye” ha svolto un ruolo di primo piano nel denunciare le violenze: un blog a lungo anonimo, che solo dopo la liberazione della città nel luglio 2017 ha avuto un nome e un volto. Per oltre due anni e mezzo Omar Mohammed si è rivelato una delle pochissime fonti affidabili documentando la vita sotto l’Isis, decapitazioni, devastazioni e massacri a sfondo etnico e confessionale su Facebook, Twitter e Wordpress quando i social erano irraggiungibili. Il gruppo estremista ha conquistato la metropoli e i villaggi del nord Iraq fra il 4 e il 10 giugno 2014, innescando un esodo massiccio di cristiani, yazidi e altri gruppi etnici perseguitati. Nelle settimane successive ha esteso il dominio sulla piana di Ninive, innescando una emergenza umanitaria con centinaia di migliaia di persone in fuga. “Ripensando a quel periodo - racconta - emerge con maggiore chiarezza il lavoro di ‘Mosul Eye’, senza il quale non vi sarebbero state altre fonti ad eccezione della narrativa ufficiale Isis”. Oggi, invece, la città “ha una propria storia da raccontare, e questo è l’aspetto più importante: la popolazione di Mosul ha avuto occhi per testimoniare”, non ha distolto lo sguardo da una realtà tragica facendo del racconto “una forma di resistenza” al califfo Abu Bakr al-Baghdadi e ai suoi uomini. Perché questo orrore fatto di decapitazioni, esecuzioni, fosse comuni, “campi sterminio” e minorenni giustiziati per aver ascoltato musica “non rimanesse nascosto e non andasse perduto, dimenticato”.
Un’opera, riletta a posteriori, che è “molto importante anche per il futuro della città” ponendo le basi per una vera ricostruzione che non è solo delle infrastrutture, delle chiese, delle moschee, degli edifici e delle attività artigianali o imprenditoriali, ma prima di tutto sociale, umana. “Le persone - spiega - hanno la tendenza a rimuovere, ad andare avanti con la propria vita. Ecco perché ho lanciato un progetto di raccolta delle testimonianze orali incontrando cristiani, musulmani, yazidi, registrando la loro storia personale e collettiva, preservandola per le generazioni future. Persone che vogliono ricordare, perché questo non accada più” come i Killing fields o la prigione di Tuol Slegn in Cambogia, i campi di concentramento “come Mauthausen che ho visitato di recente”. Al riguardo egli propone due esempi: da un lato “il tentativo di proteggere e conservare gli edifici usati dall’Isis per i massacri”, evitando che vengano “distrutti come ha fatto il governo con quello in cui avvenivano le esecuzioni”. Vi è poi la memoria di persone che si sono sacrificate, fra le quali il professore universitario musulmano Mahmoud Al ‘Asali morto per salvare i cristiani. “La nostra missione, oggi, è fare in modo che le persone ricordino. Per questo la sua famiglia ha voluto donare i suoi testi, libri e manoscritti alla biblioteca di Mosul al cui interno vi è un angolo a lui dedicato”.

Il papa, la memoria e l’inclusione
A distanza di 10 anni dall’ascesa dell’Isis il quadro di Mosul resta “complicato”, vi è “molto da fare” e per molti “la ferita è ancora aperta”. “Serve lavorare per dar vita a un sistema sociale in cui non vi sia solo la diversità, ma anche l’inclusione” sottolinea Omar Mohammed, insistendo su quest’ultimo elemento come fattore chiave per una vera ricostruzione. “Una inclusione - aggiunge - grazie alla quale religione o etnia non siano più elemento di paura o fattore scatenante di violenza” per cristiani e musulmani, per sunniti o sciiti, per gli yazidi e altre minoranze dell’area. A questo egli aggiunge la necessità di controllare “le milizie sciite” attive a Mosul come nella piana di Ninive, le quali spesso sono fonte di o alimentano illegalità e nuove violenze etnico-confessionali, un elemento già denunciato in questi anni dai leader cristiani.
Fra i momenti più significativi della fase di rinascita post-Isis, il blogger evidenzia la visita di papa Francesco nel marzo 2021, il suo incontro personale “durato quasi un’ora” col pontefice e “lo scatto che tengo sulla mia scrivania come ricordo prezioso”. “La sua presenza [in una fase storica ancora segnata da chiusure e restrizioni ai viaggi per la pandemia di Covid-19, ndr] ha creato un senso di fiducia fra comunità, perché - racconta - ha voluto incontrare cristiani, musulmani, yazidi, inviando un messaggio di speranza, di guarigione”. Dell’ora trascorsa assieme ricorda una frase in particolare che “mi ha inquietato: dopo avermi visto, il papa ha detto che ‘Adesso posso dare un volto alle sofferenze della popolazione di Mosul’. Grazie alle sue parole - prosegue - è diventato chiaro anche per me quanto le sofferenze [sotto Daesh] fossero impresse per sempre nel mio volto”. Al contempo, la visita ha lasciato un senso di “orgoglio” profondo.
Lo studioso ha avviato e sostenuto personalmente in questi anni quattro progetti: la biblioteca; la raccolta orale e scritta di documenti, storie e testimonianze; il tentativo di preservare l’eredità ebraica di Mosul ricostruendone la presenza in passato (fuggiti o espulsi fra il 1948 e il 1950 dopo la nascita di Israele); il piano di rimboschimento per restituire un volto “verde” alla città. “Quattro iniziative con quattro prospettive diverse - afferma - e l’obiettivo comune di riunire la società, creare nuovi legami”. “Ancora oggi vi sono segni del passaggio dell’Isis: la radicalizzazione, l’ideologia estremista in alcuni ambiti e non dobbiamo illuderci che sia sparita. Da qui dobbiamo ripartire e lavorare - conclude - per rafforzare l’istruzione, alimentare la cultura della vita con una particolare attenzione ai giovani, alle generazioni future, secondo il principio dell’inclusività”.