"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

30 dicembre 2008

Fonte/Source: Fides

ELENCO DEGLI OPERATORI PASTORALI - VESCOVI, SACERDOTI, RELIGIOSI, RELIGIOSE E LAICI - UCCISI NELL’ANNO 2008
... Di particolare tragicità la morte di Mons. Paulos Faraj Rahho, Arcivescovo Caldeo di Mosul (Iraq), rapito al termine della Via Crucis, all’uscita della chiesa dello Spirito Santo, la stessa dove, un anno prima, il 3 giugno 2007, erano stati uccisi il parroco e tre diaconi, e poi fatto ritrovare cadavere. “Mons. Rahho ha preso la sua croce e ha seguito il Signore Gesù, e così ha contribuito a portare il diritto nel suo martoriato Paese e nel mondo intero, rendendo testimonianza alla verità. Egli è stato un uomo di pace e di dialogo”: così lo ha ricordato il Santo Padre Benedetto XVI...

ELENCO DE LOS AGENTES PASTORALES SACERDOTES, RELIGIOSOS, RELIGIOSAS Y LAICOS ASESINADOS EN EL 2008
... Particularmente trágica la muerte de Mons. Paulos Faraj Rahho, Arzobispo Caldeo de Mosul (Irak), secuestrado al final del Via Crucis, a la salida de la iglesia del Espíritu Santo, la misma dónde, un año antes, el 3 de junio de 2007, fueron asesinados el párroco y tres diáconos. "Mons Rahho tomó su cruz y siguió al Señor Jesús, y así ha contribuido a llevar el derecho en su atormentado País y en al mundo entero, dando testimonio de la verdad. Él era un hombre de paz y diálogo": así lo ha recordado el Santo Padre Benedicto XVI...

THE NAMES OF PASTORAL WORKERS, PRIESTS, MEN AND WOMEN RELIGIOUS AND LAY CATHOLICS KILLED DURING 2008
... Particularly tragic was the death of Archbishop Paulos Faraj Rahho of Mossul for Chaldeans (Iraq), who was kidnapped after having celebrated the Way of the Cross, as he exited the Church of the Holy Spirit, the same one where on June 3, 2007, the parish priest and three deacons had been killed. His corpse was later found. “Archbishop Rahho took up his cross and followed the Lord Jesus, thus he contributed to bringing justice to his martyred country and to the whole world, bearing witness to the truth. He was a man of peace and dialogue,” the Holy Father Benedict XVI recalled...

29 dicembre 2008

Iraq: menzogne e verità

By Baghdadhope
Fonti: Fox News, Juan Cole Informed Comment

Intervistata da Fox News il 28 dicembre la già quasi ex first lady della Casa Bianca, Laura Bush, ha difeso l’operato del marito negando che la sua presidenza sia stata un fallimento, affermando che sarà la storia a dargli ragione in futuro e citando la liberazione di milioni di persone in Iraq.
Due giorni prima lo storico Juan Cole aveva puntualizzato in 10 punti i falsi miti sulla “normalizzazione dell’Iraq” e sulla storia recente del paese. Un interessante esercizio di memoria e di riflessione sul futuro che Baghdadhope ha tradotto.

Dieci miti sull'Iraq, 2008
di Juan Cole

1. Gli iracheni sono più sicuri grazie alla guerra di Bush. In realtà le condizioni di insicurezza hanno contribuito a creare un problema di profughi sia all’interno del paese che all’estero. Almeno 4,2 milioni di iracheni hanno dovuto lasciare le proprie case. Tra questi 2,2 milioni sono gli sfollati in Iraq e circa 2 milioni sono i profughi, in gran parte in Siria (circa 1,4 milioni) e Giordania (circa mezzo milione). Negli ultimi mesi dell'anno questi due stati, che non riescono a soddisfare i bisogni dei profughi iracheni già presenti sul proprio territorio, hanno introdotto l'obbligo di visto che ha impedito l'ingresso degli iracheni in cerca di rifugio. In Iraq la maggior parte dei governatorati ha impedito l'ingresso agli iracheni che fuggono dalla violenza settaria in altre parti del paese.
2. Un gran numero di iracheni in esilio all'estero ha fatto ritorno in patria. In realtà a tornare non è stato un grande numero di iracheni e molti potrebbero ancora partire per la Siria.
3. Gli iracheni stanno meglio grazie alla guerra di Bush. In realtà un milione di iracheni è "a rischio alimentare" ed altri 6 milioni hanno bisogno delle razioni di cibo fornite dalle Nazioni Unite per sopravvivere. Oxfam ha stimato nell’estate del 2007 che il 28% dei bambini iracheni è malnutrito.
4. L'amministrazione Bush ha ottenuto una grande vittoria con l’Accordo sullo Stato delle Forze. In realtà gli iracheni hanno costretto Bush ad un accordo secondo il quale gli Stati Uniti ritireranno le truppe da combattimento dalle città irachene entro il mese di luglio del 2009 e si ritireranno completamente dal paese entro la fine del 2011. L'amministrazione Bush avrebbe voluto mantenere 58 basi a lungo termine e l'autorità di arrestare gli iracheni a volontà e di dare inizio ad operazioni militari unilaterali.
5. Le minoranze in Iraq sono più sicure dopo l'invasione di Bush. In realtà nel 2008 vi sono stati attacchi significativi e migrazione forzata degli iracheni cristiani di Mosul. Ai primi di gennaio del 2008 i guerriglieri hanno attaccato delle chiese a Mosul ferendo alcune persone. Più recentemente circa 13.000 cristiani sono dovuti fuggire da Mosul a causa della violenza.
6. L'unica spiegazione per il calo del tasso di mortalità mensile dei civili iracheni è l’aumento delle truppe o “rinforzo” di 30.000 soldati americani nel 2007. In realtà l’ammontare delle truppe era già stato al livello odierno senza sortire un grande effetto. I soldati degli Stati Uniti hanno operato in modo efficace contro l’insurrezione nel 2007 ma la ragione principale della diminuzione del numero dei morti è che gli sciiti hanno vinto la guerra per Bagdad con la pulizia etnica di centinaia di migliaia di sunniti dalla capitale e con la sua trasformazione in una città con una maggioranza sciita del 75-80%. (Quando Bush invase il paese Baghdad era abitata al 50% da sunniti ed al 50% da sciiti). L’alto numero dei morti nel 2006 e nel 2007 fu il prodotto di questa massiccia campagna di pulizia etnica. Un miliziano sciita deve fare molta strada ora per trovare un arabo sunnita da uccidere.
7. John McCain ha affermato che se gli Stati Uniti lasciassero l’Iraq il paese sarebbe prontamente riconquistato da al-Qaeda. In realtà ci sono pochi seguaci di Osama Bin Laden in Iraq. I fondamentalisti estremisti, se è ad essi che McCain si riferiva, non sono sostenuti dalla maggior parte degli arabi sunniti, da alcun sciita (il 60% degli iracheni) o curdo (il 20%) e sono odiati da Iran, Siria, Turchia e Giordania, che non permetterebbero mai una simile riconquista.
8. La guerra in Iraq reso il mondo più sicuro dal terrorismo. In realtà l'Iraq è diventato un importante terreno di formazione per gli estremisti ed è implicato nei grandi attentati di Madrid, Londra e Glasgow.
9. Bush ha mosso guerra all’Iraq perché in possesso di informazioni sbagliate sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. In realtà la divisione Informazione e Ricerca (I & R) del Dipartimento di Stato espresse dubbi sulle allarmistiche storie sulle armi di distruzione di massa che Bush/Cheney diffusero. La CIA rifiutò di siglare l’inclusione della storia dell’uranio del Niger nel discorso sullo Stato dell'Unione, cosa che costrinse Bush a citare come fonte l’MI6 britannico. Il memorandum di Downing Street rivelò che Bush aveva adattato le informazioni alla politica. Bush cercò di arrivare ad una provocazione come un attacco sotto falsa bandiera ad aerei delle Nazioni Unite al fine di addossarne la colpa all’Iraq. Gli ispettori delle Nazioni Unite nel febbraio-marzo del 2003 avevano esaminato 100 dei 600 siti sospettati di nascondere armi non trovandone e la risposta di Bush fu quella di richiamarli ed entrare in guerra.
10. Douglas Feith e altri Neoconservatori non volevano una guerra contro l'Iraq(!).
Sì, e per questo avevano sollecitato la guerra all’Iraq con il libro bianco per Bibi Netanyahu nel 1996 e di nuovo con la lettera a Clinton nel 1998 contenente il progetto per un nuovo secolo americano in cui esplicitamente avevano proposto un'azione militare. I Neoconservatori sono notori bugiardi e quando riscriveranno la storia essi risulteranno una combinazione di Gandhi e Madre Teresa e la guerra in Iraq sarà colpa di Bill Clinton. L'unica cosa è che penso che la gente ora sappia chi sono. Essere bugiardo può effettivamente darti dei vantaggi. Essere un notorio bugiardo è uno svantaggio se ciò che vuoi ottenere è che la gente ti ascolti e agisca su tuo consiglio.
Io dico: mai più.

*Nota: i links all'articolo di Juan Cole sono quelli pubblicati nell'originale.

Iraq: lies and truths

By Baghdadhope
Sources: Fox News, Juan Cole's Informed Comment

Interviewed by Fox News on December 28 the almost former White House first lady, Laura Bush, defended the work of her husband denying the failure of his presidency, affirming that history will positively judge it in the future and citing the liberation of million of people in Iraq.
Two days before the historian Juan Cole had stressed 10 false myths concerning the “normalization of Iraq” and the recent history of the country.
An interesting memory exercise and a reflection on the future.

Top Ten Myths about Iraq, 2008
By Juan Cole

1. Iraqis are safer because of Bush's War.
In fact, conditions of insecurity have helped created both an internal and external refugee problem:
'At least 4.2 million Iraqis were displaced. These included 2.2 million who were displaced within Iraq and some 2 million refugees, mostly in Syria (around 1.4 million) and Jordan (around half a million). In the last months of the year both these neighbouring states, struggling to meet the health, education and other needs of the Iraqi refugees already present, introduced visa requirements that impeded the entry of Iraqis seeking refuge. Within Iraq, most governorates barred entry to Iraqis fleeing sectarian violence elsewhere.'
2. Large numbers of Iraqis in exile abroad have returned. In fact, no great number have returned, and more Iraqis may still be leaving to Syria than returning.
3. Iraqis are materially better off because of Bush's war. In fact, A million Iraqis are "food insecure" and another 6 million need UN food rations to survive. Oxfam estimated in summer, 2007, that 28% of Iraqi children are malnourished.
4. The Bush administration scored a major victory with its Status of Forces Agreement. In fact, The Iraqis forced on Bush an agreement that the US would withdraw combat troops from Iraqi cities by July, 2009,and would completely withdraw from the Country by the end of 2011. The Bush administration had wanted 58 long-term bases, and the authority to arrest Iraqis at will and to launch military operations unilaterally.
5. Minorities in Iraq are safer since Bush's invasion. In fact, there have in 2008 been significant attacks on and displacement of Iraqi Christians from Mosul. In early January of 2008, guerrillas bombed churches in Mosul, wounding a number of persons. More recently, some 13,000 Christians have had to flee Mosul because of violence.
6. The sole explanation for the fall in the monthly death rate for Iraqi civilians was the troop excalation or surge of 30,000 extra US troops in 2007. In fact, troop levels had been that high before without major effect. The US military did good counter-insurgency in 2007. The major reason for the fall in the death toll, however, was that the Shiites won the war for Baghdad, ethnically cleansing hundreds of thousands of Sunnis from the capital, and turning it into a city with a Shiite majority of 75 to 80 percent. (When Bush invaded, Baghdad was about 50/50 Sunni and Shiite). The high death tolls in 2006 and 2007 were a by-product of this massive ethnic cleansing campaign. Now, a Shiite militiaman in Baghdad would have to drive for a while to find a Sunni Arab to kill.
7. John McCain alleged that if the US left Iraq, it would be promptly taken over by al-Qaeda. In fact, there are few followers of Usamah Bin Laden in Iraq. The fundamentalist extremists, if that is what McCain meant, are not supported by most Sunni Arabs. They are supported by no Shiites (60% of Iraq) or Kurds (20% of Iraq), and are hated by Iran, Syria, Turkey, and Jordan, who would never allow such a takeover.
8. The Iraq War made the world safer from terrorism. In fact, Iraq has become a major training ground for extremists and is implicated in the major bombings in Madrid, London, and Glasgow.
9. Bush went to war in Iraq because he was given bad intelligence about Saddam Hussein's weapons of mass destruction capabilities. In fact, the State Department's Intelligence & Research (I & R) division cast doubt on the alarmist WMD stories that Bush/Cheney put about. The CIA refused to sign off on the inclusion of the Niger uranium lie in the State of the Union address, which made Bush source it to the British MI6 instead. The Downing Street Memo revealed that Bush fixed the intelligence around the policy. Bush sought to get up a provocation such as a false flag attack on UN planes so as to blame it on Iraq. And UN weapons inspectors in Feb.-Mar. of 2003 examined 100 of 600 suspected weapons sites and found nothing; Bush's response was to pull them out and go to war.
10. Douglas Feith and other Neoconservatives didn't really want a war with Iraq (!). Yeah, that was why they demanded war on Iraq with their 1996 white paper for Bibi Netanyahu and again in their 1998 Project for a New American Century letter to Clinton, where they explicitly called for military action. The Neoconservatives are notorious liars and by the time they get through with rewriting history, they will be a combination of Gandhi and Mother Teresa and the Iraq War will be Bill Clinton's fault. The only thing is, I think people are wise to them by now. Being a liar can actually get you somewhere. Being a notorious liar is a disadvantage if what you want to is get people to listen to you and act on your advice.
I say, Never Again.

28 dicembre 2008

«Il mondo ci aiuti a fermare l’esodo dei caldei» esuli a Beirut

Fonte: Avvenire

di Luca Geronico
Un accordo internazionale, una mobilitazione dei Paesi arabi, dell’Ue e dell’Onu: riunioni, appelli, consultazioni informali... All’episcopato caldeo di Beirut, mentre continua l’afflusso di profughi in cerca di aiuti umani-tari, si lavora a una strategia politica «Questo mese 32 famiglie dall’Iraq , il mese scorso lo stesso: noi ne abbiamo registrate mille e 200 ma molte preferiscono restare completamente nell’ombra. Almeno 5000 caldei, altrettanti musulmani. Ma in Siria e Giordania ce ne sono molti di più e sulla loro sorte e situazione sappiamo molto poco». Almeno 300mila caldei in fuga si stima. Snocciola le cifre di quella che in altre regioni del mondo è stata chiamata “pulizia etnica” e da due anni è il suo assillo quotidiano: dovere di solidarietà, ma anche una sfida: «La mia missione? Salvare questo popolo», afferma battendo il pugno sul bracciolo della poltrona nel suo studio Michel Kassarji, il vescovo caldeo di Beirut. Tocca alla piccola comunità caldea libanese accogliere e rianimare chi scappa dall’Iraq: quest’anno aiuti pari a 700mila dollari e un preziosissimo lavoro di segretariato sociali; mezzo milione di dollari l’anno precedente. Ma soccorrere, medicare, non è una soluzione che possa soddisfare: «Cosa direste voi in Italia se si spopolasse il Vaticano? La Chiesa irachena è una delle più vecchie al mondo, nella liturgia si parla l’antico aramaico».
Una vera svolta in negativa, racconta Michel Kasdano – generale in congedo che ora dirige il centro informazioni della Chiesa caldea – è stato l’omicidio lo scorso marzo del vescovo di Mosul Paulos Faraj Rahho: «Da allora chi arriva oltre al dolore della propria famiglia aggiunge: 'Hanno ucciso il nostro vescovo'». E si scappa sempre di più: per le minacce degli integralisti islamici, per le accuse di aver lavorato per gli americani, per le bande di delinquenti che taglieggiano la popolazione. «Ma anche per il virus dell’immigrazione: il miraggio di un futuro in Occidente che in realtà è sempre più misero delle attese senza capire che inevitabilmente così si perde la propria identità», aggiunge monsignor Kassarji. È la consapevolezza che la questione caldea cela altro: «In Terra santa i cristiani sono solo lo 0,5 per cento. Pure in Libano , l’ultimo Paese con una presenza significativa dei cristiani, si continua ad emigrare», continua Kassarji. Creare le condizioni per restare, preparare un piano che consenta ai caldei di avere in Libano – che non riconosce lo status di rifugiato politico – una seconda patria per ritornare nel lungo periodo in Iraq. Così i caldei del Libano hanno coinvolto la Chiesa maronita e stanno preparando un convegno internazionale per la metà di febbraio con tutte le componenti religiose e politiche del Medio Oriente: un piano per salvare i caldei e rendere possibile una presenza dei cristiani in Medio Oriente: «È una questione simbolica, se vogliamo come quella palestinese nei decenni scorsi per cui chiediamo una risposta della comunità internazionale», afferma il generale Kasdano. Creare in Libano , Siria e Giordania le condizioni per una permanenza e negoziare in Iraq, prima che gli americani si ritirino, uno statuto particolare: «Non una autonomia politica e amministrativa come si voleva nella Piana di Ninive, ma individuare una regione storica protetta da una forza internazionale dell’Onu». Una speranza che diventa una supplica ai cristiani del Medio Oriente: «Ritornate, ritornate nella vostra terra».

26 dicembre 2008

Christian refugees from Iraq pack pews in Lebanon. Violence spurs new exodus for minority

By Liz Sly
December 26, 2008
BOUCHRIEH, Lebanon — In Iraq, the priests routinely celebrate mass in nearly empty churches—if they dare open their church doors at all.
At the Church of Our Lady of Perpetual Help in this working-class Christian suburb east of Beirut, Rev. Joseph Malkoum preaches to an Iraqi congregation that expands every Sunday, swelled by the ranks of Christians fleeing Iraq. In recent weeks, he has noticed an increase in the number of new faces crowded into the pews as a surge in violence directed against Christians in the northern Iraqi city of Mosul fuels a fresh wave of refugees. "There was a period when we felt the numbers were going down, but after the recent troubles in Mosul the movement is picking up again," said Malkoum, who holds a special mass every Sunday for Iraqi Chaldeans, the denomination to which the majority of Iraqi Christians belongs.
Iraq may be safer now, and some Christians are celebrating Christmas openly this year in Baghdad. But the exodus of the country's ancient Christian minority has not stopped — and indeed appears to be accelerating again.
"They're threatening the Christians so that they'll be scared and will leave," said Yohan Hanna Hermes, 59, an Iraqi from Mosul who arrived in Beirut in mid-December and attended mass the next day for the first time since September. "It's a deliberate campaign to drive the Christians out." Iraqis who can afford the plane ticket prefer to go to Lebanon because of its large — 40 percent — Christian population. Others make their way to Jordan or most likely Syria, the main destination for Iraqi refugees.The numbers are small. At the Chaldean Archbishopric just outside Beirut, where many new arrivals report to receive aid and advice, 90 new families were registered in October and November, up from an average of 10 a month earlier in the year. But that comes in addition to as many as 500,000 to 700,000 of the 1.4 million Christians in Iraq who are believed to have fled in the past five years, according to a report last week by the U.S. Commission on International Religious Freedom, an independent body appointed by Congress.
"Five years from now there won't be any ChCorsivoristians left in Iraq. It's happening quietly but also very quickly," said retired Gen. Michel Kasdano, a researcher and spokesman at the Chaldean Archbishopric. In 2006 and 2007, most of the new arrivals were from Baghdad, he said. But since the attacks in late October against Christians in Mosul, which forced an estimated 2,000 Christian families to flee to nearby villages, Christians have been arriving from the north, which was previously considered relatively safe.
"From those who are coming, we hear the others are packing and making preparations to leave," he said. "It's only a matter of time before they all are gone." For Ikhlas Aziz, 40, and her husband, truck driver Dawood Kariokos, 50, the decision to leave was more than a year in the making, since Kariokos was twice kidnapped in 2007. They cite not only the repeated acts of violence and intimidation against Christians but also a climate of discrimination that makes them feel they are no longer welcome.
"All the Christians are terrified all of the time," said Kariokos, as he waited with his wife to register for aid at the archbishopric. "And if I apply for a job they will take the Muslim, not the Christian. Always they prefer the Muslims."
Christians still represent a small minority of refugees, aid agencies point out. About 60 percent of all the Iraqis who fled are Sunni Muslims, even though they account for only 20 percent of Iraq's population, said Sybella Wilkes of the United Nations High Commissioner for Refugees in Damascus, Syria. But Christians, who accounted for 4 percent of Iraq's population on the eve of the war, are also disproportionately represented, comprising 16 percent of the 1.1 million refugees in Syria and 25 percent of the 50,000 refugees in Lebanon, the UN says. They also account for a disproportionate number of those being granted asylum overseas. Of the 16,874 Iraqis resettled in the U.S. since 2006, 48 percent are Christians, according to the U.S. Embassy in Baghdad. Others claim asylum in Western countries such as Sweden and Australia, though not all will be admitted, leaving their future uncertain.
But going back to Iraq isn't an option, said Solaqa Zaya Moshi, 53, who first fled Baghdad for Mosul in 2007. In October he fled Mosul for the surrounding countryside before deciding to leave Iraq altogether, arriving in Lebanon with his wife and son on Dec. 5. The Iraqi government says some of the Christians who fled Mosul have now returned to their homes, but when Moshi tried to go back to his house just to pick up some clothes, his former neighbors told him it wasn't safe.
"In all Iraq it's black, it's finished for Christians. I can never go back," he said, crumpling in tears. "We used to have a very good life in Baghdad, and here I am like a beggar in Lebanon. I've lost everything."

24 dicembre 2008

Buon Natale e Buon Anno Nuovo

Edo Bri'cho o Rish d'Shato Brich'to

Happy Christmas
and Happy New Year

Feliz Navidad y Feliz Año Nuevo

Feliz Natal e Feliz Ano Novo

Joyeux Noël et Bonne Année

Fröhliche Weihnachten
und Gutes Neues Jahr

God Jul och Gott Nytt År

Baghdadhope

Iraq: Twal (Patriarca Latino di Gerusalemme) "Non restare in silenzio davanti alla tragedia irachena"

Fonte: SIR

23 dicembre. “Una tragedia davanti alla quale non si può restare in silenzio”.
Nel suo messaggio di Natale, diffuso oggi a Gerusalemme, il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, ha parlato anche dell’Iraq definendo la situazione nel Paese, “una tragedia davanti alla quale non possiamo rimanere in silenzio” che "investe l’Iraq come popolo, civiltà, patrimonio e storia, in seguito all’occupazione e alla distruzione delle sue strutture di stato, diventando purtroppo teatro del terrorismo e della violenza”. “Ci colpisce, in particolare, la distruzione di chiese e moschee, i rapimenti e l’uccisione di sacerdoti e vescovi, le devastazioni e il saccheggio delle case, nonché le minacce e le espulsioni dei cristiani. E’ nostro profondo auspicio – conclude Twal - che la popolazione dell’Iraq resti nella sua patria. Vogliamo pregare per l’unità di questa nazione e per il ritorno alla vita normale in tutte le sue parti”.

Iraq: Twal (Latin Patriarch of Jerusalem) "Do not keep quite in front of the Iraqi tragedy"

Source: SIR

December 23. “A tragedy in front of which one cannot just keep quiet”.
In his Christmas message, published today in Jerusalem, the Latin Patriarch of Jerusalem, Fouad Twal, also spoke of Iraq, defining the situation of the country as “a tragedy in front of which we cannot just keep quiet” and "which affects Iraq as a population, civilisation, heritage and history, sadly becoming a scene of terrorism and violence”. “We are particularly impressed by the destruction of churches and mosques, the abductions and murders of priests and bishops, the devastation and the plundering of houses, as well as the threats and deportations of Christians. It is our deepest wish – concludes Twal – that the population of Iraq may stay in its homeland. We want to pray for the unity of this nation and for it to go back to normal, everywhere”.

23 dicembre 2008

Torino per l'Iraq


Il progetto: "Io ho un nuovo amico, un sacerdote caldeo iracheno", lanciato dall'Ufficio Pastorale Migranti dell'Arcidiocesi di Torino per sostenere la comunità irachena cristiana con l'aiuto diretto annuale a dieci giovani sacerdoti caldei di Baghdad, è giunto a conclusione dopo cinque anni.
In questo periodo, grazie alla generosità di molti amici che hanno preso a cuore la situazione della piccola e vulnerabile comunità irachena cristiana, abbiamo potuto non solo dare un sostegno pratico ai nostri fratelli, quanto dimostrare loro di non essere stati dimenticati.
Il progetto è il risultato della convinzione che l'aiuto per essere efficace, anche nel costruire ponti tra diverse realtà, non debba essere limitato al momento di crisi acuta, ma debba seguire chi è in difficoltà nel superare quel momento e nel riprendere in mano la propria vita ed il proprio futuro.
Il termine del progetto quindi non si tradurrà in un nostro disimpegno ed è per questa ragione che l'UPM dell'Arcidiocesi di Torino invita tutti a continuare a pensare, pregare ed agire per la comunità irachena cristiana.

Don Fredo Olivero
Direttore Ufficio Pastorale Migranti
Arcidiocesi di Torino

Per informazioni consultare il sito
http://www.migrantitorino.it/ alla voce Iraq

Siria. Mons. Audo (Vescovo di Aleppo) "Natale di integrazione per i rifugiati iracheni"

Fonte: SIR

Natale in parrocchia per i rifugiati cristiani iracheni riparati in Siria per fuggire alle violenze settarie e dei fanatici integralisti. “Molti si ritroveranno in chiesa a Damasco e ad Aleppo – dichiara al Sir il vescovo caldeo di Aleppo, mons. Antoine Audo la parrocchia è il loro punto di riferimento principale, è il luogo dell’identità e dell’appartenenza, irachena e cristiana, una dimensione fondamentale per chi come loro sono costretti a vivere fuori del loro Paese d’origine. In parrocchia hanno il catechismo, partecipano alle funzioni, danno il loro contributo. La chiesa è la loro casa e vi vivono con gli altri fedeli siriani”. “Dalla parrocchia ricevono assistenza spirituale e materiale, grazie anche agli aiuti di molte ong, soprattutto Caritas e Croce Rossa. Con questo sostegno, unito al lavoro che possono svolgere anche se non sono regolari, e ai soldi che arrivano dai familiari all’estero, riescono a dare sostentamento alla propria famiglia. In Siria la vita non è cara e il Governo provvede loro anche l’assistenza sanitaria e l’istruzione”.
“Natale è la festa dei bambini – aggiunge il vescovo caldeo – ed in questi giorni stiamo organizzando sia a Damasco che ad Aleppo delle feste con Babbo Natale che porta loro dei doni, giocattoli e vestiario in particolare”. “Questo Natale sarà all’insegna della convivenza che qui in Siria è facilitata anche dal rispetto reciproco tra musulmani e cristiani. Questo Paese può essere considerato un esempio di tolleranza e convivenza tra le fedi. La prossima visita del Papa in Terra Santa e Giordania darà ulteriore impulso a questa convivenza. Per quello che possiamo facciamo di tutto per essere una chiesa aperta e solidale”.
Attualmente in Siria sono rifugiati oltre 1,5 milioni di iracheni, di cui 40mila sono cristiani. Di questi circa 15 mila vivono a Damasco e 2000 ad Aleppo.

Syria: Mgr. Audo (Bishop of Aleppo) “Christmas of integration for Iraqi refugees"

Source: SIR

Iraqi-Christian refugees who fled to Syria to escape from the sectarian violence of Iraqi fundamentalists will spend their Christmas in their parish. “Many are those who will gather in the churches of Damascus and Aleppo. The parish is their main reference point, a place in which they can express their identity and belonging, an Iraqi-Christian identity, a fundamental dimension for all those who, like them, are forced to live outside their country,” declared to the SIR Mgr Antoine Audo, Chaldean Bishop of Aleppo. "In their parish they can attend catechism, take part in celebrations and give their contribution. The Church is their home, and they live there with other Syrian faithful. The parish is giving them both material and spiritual care, assisted by the support of many NGOs, especially Caritas and the Red Cross. With this support, along with the work they can do even if they are not regular and the money they receive from their relatives abroad, they can provide for their family. Life is not expensive in Syria and the Government provides them with health care and instruction”.
“Christmas is the feast of children and in those days we are organising, both in Damascus and in Aleppo, some celebrations with Santa Claus who is bringing them presents, toys and clothes in particular,” adds the Chaldean priest.” “This Christmas will be characterised by the peaceful living together that here in Syria is made easier for the mutual respect Muslims and Christians are showing to one another. This country sets an example of tolerance and cohabitation between the two faiths. The pope’s next visit to the Holy Land will contribute to fostering this cohabitation. We try our best to make our Church open and fraternal.”
Of the 1.5 million Iraqi refugees who are currently in Syria, 40,000 are Christians, 15,000 of them live in Damascus and 2,000 in Aleppo.

19 dicembre 2008

Ancora nelle mani dei rapitori le due suore italiane. Una di loro è la sorella di Don Fredo Olivero, amico degli iracheni cristiani.

By Baghdadhope

Con l'avvicinarsi del Natale Baghdadhope rompe il silenzio stampa fino ad ora mantenuto come richiesto su un fatto gravissimo che ha colpito Don Fredo Olivero, Direttore dell’Ufficio Pastorale Migranti della diocesi di Torino e, per quanto ci riguarda, protagonista in questi anni di alcuni progetti di sostegno alla comunità irachena cristiana: il rapimento in Kenya di sua sorella, Suor Maria Teresa Olivero, ancora nelle mani dei suoi sequestratori insieme a Suor Rinuccia Giraudo dal 9 di novembre scorso.
Alcuni amici di Don Fredo hanno dato vita ad una raccolta di firme su Internet volte a sollecitare il governo a concludere al più presto le trattative per la liberazione delle due suore che si aggiungono a quelle che sono già state e saranno raccolto nella diocesi di Torino.

Dal sito chiccodisenape ecco il testo dell'appello:

Chiediamo al Governo Italiano di fare il massimo sforzo per la liberazione di Suor Maria Teresa Olivero e Suor Caterina “Rinuccia” Giraudo rapite in Kenya il 9 novembre 2008.

Per manifestare il vostro sostegno, potete firmate questo testo, inviando una e-mail a chiccodisenape@gmail.com o lasciando un commento al post indicando il vostro nome, cognome e città di residenza cliccando qui.

Still in the hands of their abductors the two Italian nuns. One of them is the sister of Don Fredo Olivero, a friend of Iraqi Christians.

By Baghdadhope

As Christmas is approaching Baghdadhope breaks news blackout, maintained until now as required, on what happened to Don Fredo Olivero, Director of the Pastoral Migrants Office of Turin diocese (Italy) and, as far as we are concerned, the protagonist in recent years of some projects aimed at supporting the Iraqi Christian community: the abduction in Kenya of his sister, Sister Maria Teresa Olivero, still in the hands of her abductors along with Sister Rinuccia Giraudo since November 9.
Some friends of Don Fredo began a collection of signatures on Internet aimed at urging the Italian government to conclude as soon as possible the negotiations for the release of the two sisters, in addition to those that have already been and will be collected in Turin diocese.

This is the text of the appeal posted on chiccodisenape:

We urge the Italian government to exert maximum effort for the release of Sister Maria Teresa Olivero and Sister Caterina "Rinuccia" Giraudo abducted in Kenya on November 9, 2008.

To show your support, you can sign this text, sending an e-mail to chiccodisenape@gmail.com or leaving a comment to the post with your name, city and nation of residence clicking here.

18 dicembre 2008

Giordania: Il Natale dei rifugiati iracheni, Moussalli (Vic. Caldeo) "aspettano il Papa"

Fonte: SIR

Celebrazioni natalizie anche per i rifugiati cristiani iracheni in Giordania. A prepararle è il vescovado caldeo di Giordania con il suo vicario padre Raymond Moussalli: “stiamo organizzando le messe di mezzanotte e di Natale ad Amman, per accogliere quanti più fedeli possibili – dice al Sir il vicario - il rito sarà quello caldeo. Ma ci sono anche altre chiese che celebreranno secondo le proprie usanze”. “Non sappiamo quanti parteciperanno alle funzioni anche perché molti, almeno 2000, sono già partiti o in partenza, soprattutto negli Usa, dove hanno avuto il visto di ingresso. Attualmente i cristiani iracheni in tutta la Giordania arrivano a 12 mila persone”. Per alleviare le sofferenze di questi cristiani fuggiti “alla persecuzione e all’orrore della violenza”, aggiunge, “stiamo raccogliendo aiuti materiali che sotto forma di dono natalizio stiamo consegnando alle famiglie in questi giorni. Per i bambini arriverà Babbo Natale che consegnerà giocattoli e dolci. Il Natale è la loro festa, rallegrarli significa dare sollievo anche alle loro famiglie”. “Ma il sollievo maggiore per questi fratelli iracheni – sottolinea Moussalli - è sapere che Benedetto XVI verrà in Terra Santa nel 2009. Questa visita, che potrebbe toccare anche la Giordania, è il dono di Natale più bello. Speriamo che Benedetto XVI possa incontrare dei bambini iracheni e qualche famiglia di rifugiati”.

Jordan: The Christmas of Iraqi refugees, Moussalli (Chaldean Vicar) "they are waiting for the Pope"

Source: SIR

Christmas celebrations for Christian Iraqi refugees in Jordan. They are prepared by the Chaldean episcopate of Jordan through its vicar, Father Raymond Moussalli: “We are setting up midnight Masses and Christmas Masses in Amman, to welcome as many believers as possible – said the vicar to SIR; - the rite will be the Chaldean one. However, other churches will also celebrate Christmas, according to their traditions”. “We don't know how many people will take part in the services. Many people, at least 2,000, have already left or are about to leave, above all from the United States, where they received entry visas. At present, the Iraqi Christians all over Jordan are a high number, 12 thousand people”. To relieve the sufferings of those Christians escaping from “the persecution and horror of violence”, he added, “we are gathering material aids to be given to families as presents in these days, as Christmas gifts. Santa Claus will arrive and give children toys and sweets. Christmas is their feast; cheering them up means also bringing relief to their families”. “However, the best relief for these Iraqi brothers – pointed out Moussalli - is knowing that Benedict XVI is arriving in the Holy Land in 2009. This visit, which might include Jordan, too, is the best Christmas gift. We hope that Benedict XVI may meet the Iraqi children as well as some refugee families”.

Iraq: Christmas in Mosul, Warduni (Baghdad) "The courage to be Christians". Memory by Msgr. Rahho

Source: SIR

“About 1,200 families are back but the fear is not over. In spite of that, we shall celebrate a good Christmas”. With this spirit, the Christian community of Mossul is going to live the next Christmas, the first one without its bishop, Msgr. Paulos Faraj Rahho, kidnapped and killed last March. “Marked by a senseless violence which forced them to escape – declared to SIR the patriarchal vicar of Baghdad, Msgr. Shlemon Warduni, who is in close touch with the local ecclesial community,the Christians of Mossul will celebrate Christmas in an atmosphere of fear, but with the courage granted them by faith. The priests of the diocese met exactly yesterday, guided by their patriarchal procurator, to set up celebrations. The purpose is to celebrate Christmas as usual, even though fear and suffering for the death of Msgr. Rahho are clearly felt. In spite of fear, the priests of Mossul told me that they expect a high number of believers at Masses”. Even though nothing is confirmed at present, “it seems that the Christian places of worship will be carefully controlled by the army during Christmas festivities, for reasons of cautiousness linked to security. The fact that there were improvements in relation to security is not sufficient”, said the bishop, who counts on the appointment of the successor of Msgr. Rahho at the beginning of 2009.

Iraq: Natale a Mosul. Warduni (Baghdad) "il coraggio dei cristiani". Ricordo di Monsignor Rahho

Fonte: SIR

“Finora sono tornate circa 1200 famiglie ma la paura non è finita. Nonostante ciò celebreremo un degno Natale”. Con questo spirito la comunità cristiana di Mosul si appresta a vivere il prossimo Natale, il primo senza il proprio vescovo mons. Paulos Faraj Rahho rapito e ucciso nel marzo scorso. “Segnati da una violenza insensata che li ha costretti alla fuga – dichiara al Sir il vicario patriarcale di Baghdad, mons. Shlemon Warduni che è in stretto contatto con la comunità ecclesiale locale – i cristiani di Mosul celebreranno il Natale in un clima di paura ma con il coraggio che viene loro dalla fede. Proprio ieri si sono riuniti i sacerdoti della diocesi, guidati dal loro procuratore patriarcale, per organizzare le celebrazioni. Lo scopo è quello di festeggiare il Natale come sempre, anche se la paura e la sofferenza per la morte di mons. Rahho si percepiscono chiaramente. Nonostante la paura i sacerdoti di Mosul mi hanno detto che si attendono una grande presenza di fedeli alle messe”. Anche se al momento mancano conferme a riguardo, “sembra che per le festività natalizie i luoghi di culto cristiani verranno controllati da vicino dall’esercito. Motivi di prudenza legati alla sicurezza, nonostante su questo piano si siano registrati dei miglioramenti” spiega il vescovo che per l’inizio del 2009 confida nella nomina del successore di mons. Rahho.

15 dicembre 2008

Madre e figlia temono per la propria vita se costrette a tornare in Iraq da Birmingham

Fonte: Birmingham Post

By Paul Bradley

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

La pensionata irachena Niala Melki e sua figlia Salma Haddad furono costrette a fuggire dal paese devastato dalla guerra quando le forze armate inglesi ed americane invasero la loro città, Bassora, nel 2003.
In quanto cristiane praticanti, una minoranza in Iraq, affrontarono costanti minacce da parte della folla inferocita che credeva sostenessero l'invasione a causa della loro religione. Cercarono rifugio a Birmingham ma ora, a cinque anni dalla richiesta di asilo, il ministero dell'interno ha rigettato la loro ultima domanda.
La coppia, che è stata aiutata dall'associazione Restore di Birmingham, teme per la propria vita e si dice bisognosa di non partire e di ricompensare la comunità che le ha sostenute negli ultimi 5 anni.
Hanno un'ultima possibilità di appellarsi contro la decisione del ministero.
La signora Haddad, il cui padre, morto per leucemia nel 1998, era un dottore, ha dichiarato: "Quando mio padre morì io e mia madre rimanemmo sole in una società patriarcale. Allo scoppio della guerra non avemmo altra scelta se non quella di fuggire dato che non c'era nessun uomo a proteggerci dagli agenti della sicurezza irachena che ce l'avevano con noi a causa della nostra fede. Abbiamo vissuto in Gran Bretagna per 5 anni, la gente di Birmingham ci ha trattato molto bene e ci sentiamo sicure qui."
“Ora però ci hanno detto che dobbiamo tornare a casa, una cosa al contempo ridicola e terrorizzante. Non abbiamo nulla lì. Niente casa, niente famiglia, niente amici, niente soldi, come potremmmo sopravvivere? Nel giro di pochi giorni saremmo uccise. Se ci dessero l'asilo potrei lavorare part-time e prendermi cura di mia madre."
La condizione della coppia è resa più precaria dalla cattiva salute della signora Melki.
La settantaseienne, che soffre di una grave forma di artrite, non sa quanto tempo le resterà da vivere e non è in grado di viaggiare.
Restore, un progetto gestito dalle chiese di Birmingham per dare aiuto annualmente a 100 richiedenti in città, sta aiutando la famiglia.
La coppia ha dichiarato di voler compensare la comunità che le ha aiutate e di non voler più dipendere dal governo e dalla beneficenza.
La signora Melki, il cui figlio divenne cittadino britannico negli anni 70 dopo essersi trasferito in Gran Bretagna per lavorare come specialista alla IT, ha detto: "Abbiamo provato per anni ad avere lo status di rifugiate ma ci hanno tenuto in un limbo e non possiamo andare avanti così. Adesso vivremo un altro Natale incerto."
La portavoce di Restore, Shari Brown, ha dichiarato: “Se venisse loro concesso lo status di rifugiate avrebbero delle possibilità. Potrebbero trasferirsi a Nottingham per vivere con il figlio di Niala, Salma potrebbe trovare un lavoro e potrebbero vivere una vita normale."
Il ministero dell'interno ha vagliato 5,220 richieste di asilo tra il luglio ed il settembre del 2008, rigettandonel 72%.
Una portavoce dell'agenzia di frontiera britannica ha dichiarato: “Tutte le richieste di asilo vengono vagliate con attenzione da specialisti che tengono conto di tutte le circostanze rilevanti. Qaundo una richiesta è bocciata c'è il diritto di appello alle corti indipendenti. Non carremmo qualcuno con un appello in sospeso."

Mother and daughter fear execution if they are forced back to Iraq from Birmingham

Source: Birminghm Post

By Paul Bradley

December 15, Iraqi pensioner Niala Melki and her daughter Salma Haddad were forced to flee the war-torn country when British and US forces invaded their home city of Basra in 2003.
As practising Christians, who are a minority in Iraq, they faced constant threats from killing mobs who believed they were supporting the invasion because of their religion.
They sought refuge in Birmingham but now, after five years of applications for asylum, the Home Office has refused their latest request.
The pair, who have been supported by Birmingham charity Restore, fear for their lives and said they were desperate to stay and put something back into the community that has supported them for the last five years.
They have one last chance to appeal against the Home Office ruling.
Ms Haddad, whose father was a doctor before he died of Leukaemia in 1998, said: “When my father died there was just me and my mother trying to look after ourselves in a patriarchal society.
“When the war broke out we had no choice but to flee as there were no men around to protect us from Iraqi security agents who were targeting us because of our faith.
We’ve been in Britain now for five years and the people in Birmingham have treated us extremely well and we feel safe here.
But we’ve been told we must return home, which is both ridiculous and extremely frightening. We have nothing there. No home, no family, no friends, no money - how would we survive?
“Within days we would be killed. If we are granted asylum here I can work part-time and care for my mother the rest of the time.”
The pair’s status is even more precarious due to Ms Melki’s ill health.
The 76-year-old, who suffers from severe arthritis, doesn’t know how much longer she will live and she is not capable of travelling.
Restore, a project run by Birmingham churches to offer support to about 100 asylum seekers each year in the city, is helping the family.
Both mother and daughter said they want to put something back into the community which has supported them and have had enough of living off government and charitable hand-outs.
Ms Melki, whose son became a British citizen in the 1970s after moving to Britain to work as an IT specialist, said: “We’ve been trying for years to get refugee status but we are being kept in limbo at the moment and can’t get on with our lives. Yet again we face another uncertain Christmas.”
Restore spokeswoman Shari Brown said: “If they are granted refugee status they start to have choices. They could move to Nottingham to be with Niala’s son, Salma could get a job and they could lead a proper life.”
The Home Office looked at 5,220 applications for asylum in the third quarter of 2008, rejecting 72 per cent of them.
A UK Border Agency spokesman said: “All applications for asylum are carefully considered by specialist caseworkers, taking into account all the relevant circumstances.
“Where an application is refused, there is a right of appeal to the independent courts. We would not remove someone with an outstanding appeal.”

Caldei celebrano il Natale

Fonte: Detnews.com

by Gregg Krupa

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

15 dicembre, Warren. Per molti dei 5.000 rifugiati provenienti dall'Iraq che vivono a Detroit quasi ogni Natale è più felice di quelli passati dal momento in cui è iniziata la guerra nel 2003.
Circa un quarto di loro, più di 1.200 profughi caldei, si sono riuniti domenica nella Bella Hall per una festa di Natale organizzata dalla Diocesi caldea cattolica degli Stati Uniti d'America, ma la gioia del periodo è stata offuscata dal pensiero della sofferenza e dell'inquietudine dei recenti natali. Ed i solchi profondi sulla fronte di alcuni dei rifugiati hanno rivelato la loro continua preoccupazione per la famiglia, i parenti e gli amici lasciati in guerra, o a lottare nelle incerte circostanze come rifugiati in paesi come Siria e Giordania.
"L'anno scorso abbiamo partecipato alla Messa e con noi c'erano molti i cristiani", ha detto Bushra Alawerdi del suo Natale in esilio in Siria nel 2007. "Ma c'èra anche molta frustrazione. Ora stiamo meglio. Anche se non ancora come prima della guerra naturalmente. "Nella zona di Baghdad dove vivevo sono entrati in casa mia ed hanno rubato tutto" ha detto Alawerdi, che è arrivata con il marito e quattro figli all'inizio di quest'anno. "Non abbiamo avuto scelta se non quella di partire. E, no, non vorrei tornare."
"La lingua è difficile per noi qui",
ha detto attraverso un interprete. "Siamo ancora alla ricerca di un lavoro ed i soldi sono pochi. Ma certamente sono più felice rispetto all'anno scorso ".
I caldei, cattolici di rito orientale, sono la più antica comunità di cristiani del mondo. Ne vivono più a Detroit che in qualsiasi altro posto al di fuori dell'Iraq. I lunghi ritardi nel vaglio dello status di rifugiato dei caldei hanno peggiorato la loro situazione, lasciandoli a languire in attesa di ricongiungersi con le famiglie ed i parenti negli Stati Uniti.
Una massa di profughi è ormai arrivata e molti di loro vivono a Warren e Sterling Heights.
Ma il loro desiderio di una vita migliore nel paese che ha guidato una coalizione che ha scatenato la guerra alla loro terra cinque anni fa sta precipitando nel gorgo degli alti e bassi finanziari che gli americani stanno affrontando. La terra piena di opportunità in cui essi credevano sarebbero arrivati ha perso un pò della sua magia mentre aspettavano l'autorizzazione a emigrarvi.
"La decisione di preparare una cena di Natale per i rifugiati ed i nuovi arrivati negli Stati Uniti è legata al voler mostrare loro che qui ci sono fratelli e sorelle che vogliono loro bene e che tenteranno di renderli felici in ogni modo possibile", ha detto Monsignor Ibrahim Ibrahim, che presiede la diocesi cattolica caldea e che ha deciso di organizzare la grande festa di Natale.
"Vogliamo che sentano di non essere stati abbandonati" ha detto Ibrahim. "Vogliamo che sentano che ci sono persone che pensano loro e che li amano. Ma anche loro devono fare la lolo parte in tutto ciò".
Per alcuni dei cristiani rifugiati che hanno visto il peggio della guerra questo Natale segnerà forse un nuovo inizio fatto di fiducia e speranza.
"Ho visto molte cose orribili", ha detto Aamira Botris, parlando attraverso un interprete. "Cose davvero orribili, le abbiamo viste tutti. Sono felice per tutto, ora, tranne che per il fatto che non c'è lavoro".
Per questo Natale Botris è finalmente con sua madre, Rimzia Yono, arrivata a Detroit Metro sei anni fa.
"Lo scorso anno, a Natale, eravamo ad Amman, in Giordania", ha detto Botris. "Ma la nostra felicità non era completa, perché la nostra famiglia non era insieme. Sono molto felice ora perché sono con mia madre. Ma sono ancora triste, quest 'anno, perché mia sorella Sarab Botris, è ancora ad Amman. E' registrata come rifugiata ma non l'hanno ancora accettata e neanche intervistata, ed ha tre figlie con lei."
La comunità caldea locale sta facendo molto per accogliere i rifugiati. Ma tra le preoccupazioni che riguardano l'economia, e se di conseguenza il Michigan potrà fare abbastanza, la festa di Natale è vista come un gesto di speranza e di solidarietà, di fede e di buoni propositi.
"La ragione di questo invito è quella di dare il messaggio di Natale che è un messaggio di amore e di speranza", ha detto Janan Senawi, che ha aiutato ad organizzare la festa a nome della diocesi caldea, e che aiuta molti rifugiati in qualità di psicologo per l'Arab Chaldean Council a Lathrup Village.
"Ne hanno passate tante e nel periodo di passaggio vogliamo aiutarli ad entare a far parte della nostra comunità e delle nostre chiese. Condividere un pasto con loro è stato un gesto simbolico perchè ogni famiglia ricevesse un dono".
Tutte le famiglie hanno ricevuto da Meijer una carta di acquisti del valore di 50$ ed i bambini un regalo, oltre alla festa con la cena ed i canti natalizi.
Milad Latif, che vive a Shelby, ha passato cinque anni ad Amman in attesa di entrare negli Stati Uniti e si considera tra i più fortunati perché i suoi parenti a Detroit prima della guerra chiamarono per mettere in guardia la sua famiglia in Iraq dei pericoli che si prospettavano.
"Sono partito un mese prima della guerra", ha raccontato Latif, che ha appreso dai media che l'edificio commerciale e residenziale dove la sua famiglia viveva a Baghdad è stato un frequente bersaglio dei bombardamenti, da parte degli aerei americani nonché delle auto-bomba della resistenza e dei terroristi. "L'anno scorso ero ad Amman con mia sorella, ma mia madre, mio fratello e mia sorella erano qui. Per questo a Natale eravamo separati, e potete immaginare come è stato."
"La maggior parte dei profughi ringrazia Dio perché sono vivi ed al sicuro",
ha detto. "L'economia va male ma nessuno chiede dove stiamo andando, cosa stiamo facendo, se stiamo andando in chiesa. Si può vivere liberi. Questa è la cosa importante".

Chaldeans celebrate Christmas

Source: Detnews.com

by Gregg Krupa

December 15, Warren. For many of the 5,000 refugees from Iraq living in Metro Detroit, almost any Christmas celebration is merrier than what they have had since the war began in 2003.
As about one-fourth of them, more than 1,200 Chaldean refugees, gathered in the Bella Hall on Sunday for a Christmas party organized by the Chaldean Catholic Diocese of the United States of America, the joy of the season is tempered by thoughts of the suffering and fret of recent Christmases past. And the deep furrows in the foreheads of some of the refugees revealed their continuing concern about family, relatives and friends left behind in the war, or struggling in uncertain circumstances as refugees in countries like Syria and Jordan.
"We were able to celebrate Mass last year, and there were lots of Christians around us," Bushra Alawerdi said of her Christmas in exile in Syria in 2007. "But there was also lots of frustration. We are better, now. Though still not the same as before the war, of course."
"In my area in Baghdad, where I lived, they invaded my home and took all of my belonging,"
said Alawerdi, who arrived with her husband and four children earlier this year. "We had no choice but to leave. And, no, I would not like to return."
"The language is tough for us here,"
she said, through an interpreter. "We are still looking for jobs. The money is short. But, for sure, I am more happy, this year, than last year."
Chaldeans, Catholics of the Eastern Rite, are the oldest community of Christians in the world. They reside in Metro Detroit in larger numbers than anywhere outside of Iraq. Long delays in processing the refugee status of the Chaldeans worsened their plight, as they languished, waiting to join family and relatives in the United States.
A critical mass of the refugees has now arrived, living in large numbers, many in Warren and Sterling Heights. But their longing for a better life in the country that led a coalition that launched the war in their land five years ago is running headlong into the financial downturn faced by Americans. The land golden with opportunity that they believed they would arrive in lost some its luster, as they bided their time, waiting for permission to come.
"The decision to make a Christmas dinner for the refugees and the new arrivals in the United States is to show them that there are brothers and sisters who love them here, and they will try to make them happy in every way that is possible," said Bishop Ibrahim Ibrahim, who presides over the Chaldean Catholic diocese, and who decided to organize the large Christmas party.
"We want them to feel that they are not abandoned by others," Ibrahim said. "We want them to feel that there are people behind them who are thinking of them, and who love them. But they also have to take their part, in all of this."
For some of the Christian refugees, who have witnessed the worst of war, perhaps this Christmas will mark a new beginning of trust and hope.
"I saw a lot of bad things," said Aamira Botris, speaking through an interpreter. "Very, very horrible things, we all saw it. I am content with everything, now, except there are not jobs available."
Botris is with her mother, Rimzia Yono, finally, on this Christmas. Yono came to Metro Detroit six years ago.
"Last year, at Christmas, we were in Amman, Jordan," Botris said. "But our happiness was not complete, because our family was not together. I am very happy, now, because I am with my mother. But I am still sad, this year, because my sister Sarab Botris, remains in Amman. She is registered as a refugee, but they have not accepted her yet, or even interviewed her. She has three daughters with her."
The local Chaldean community is doing much to welcome the refugees. But amid concern about whether the economy in Michigan will allow for enough to be done, the Christmas party is viewed as a hopeful gesture of solidarity, faith and themes of the season.
"The reason for this invitation is to deliver the message of Christmas, which is a message of love and hope," said Janan Senawi, who helped organize the party on behalf of the Chaldean diocese, and who counsels many refugees as a psychologist for the Arab Chaldean Council, in Lathrup Village. "They have all been through a lot, and during their transition we wanted to help them into our community, into our churches. It was a gesture to share a meal with them, to give each family a gift."
The families all received a $50 gift card from Meijer, and the children received a present, in addition to the party, which included Christmas carols and a large meal.
Milad Latif, who lives in Shelby Township, spent five years in Amman, waiting to come to the United States. He said he considers himself among the lucky ones, because his extended family in Metro Detroit called to warn his family in Iraq, before the war, that trouble was on the way.
"I left one month before the war," said Latif, who has learned from news reports that the large commercial and residential building that was his family's home in Baghdad has been a frequent target of bombing, from American planes as well as the car bombs of the resistance and the terrorists. "Last year, I was in Amman, with my sister, but my mom and my brother and my sister were here. So, at Christmas, we were separated, and you can imagine how Christmas was.
"Most of the refugees, thank God for it, because they are alive and safe,"
he said. "The economy is bad, but no one is asking where you are going, what are you doing, are you going to church? You can live free. That's the important thing."

13 dicembre 2008

I vescovi caldei vedono un futuro incerto per i cristiani in Iraq

Fonte: The Tidings (settimanale dell'Arcidiocesi di Los Angeles)

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

13 dicembre Detroit (CNS) I cattolici caldei che rimangono in Iraq "sono tutti in pericolo. Non sanno se saranno uccisi o rapiti oggi o domani", ha detto il vescovo caldeo Ibrahim N. Ibrahim. "Per essere onesti, non vediamo alcun futuro per i cristiani nei paesi arabi. Non solo in Iraq ma anche in Siria, Libano, e persino in Egitto".
In Iraq c'erano 650.000 caldei prima invasione guidata dagli USA nel 2003. Oggi ce ne sono 250.000-300.000, lo stesso numero di quanti ora vivono in America del Nord, ha detto il vescovo Ibrahim, a capo dell'Eparchia di San Tommaso Apostolo di Southfield. I 150.000 caldei che vivono nell'area di Detroit costituiscono il gruppo più numeroso al di fuori del Medio Oriente ed il vescovo ha riferito che il loro numero è cresciuto di 40.000 unità negli ultimi cinque anni. I suoi confratelli vescovi in Siria e il Libano, paesi di accoglienza per i profughi iracheni, sono d'accordo con la sua valutazione dei pericoli esistenti per coloro che ancora vivono nel paese d'origine. Tutti conoscevano l'arcivescovo caldeo Paulos Faraj Rahho di Mosul, Iraq, ucciso nel marzo del 2008, ed anche tre sacerdoti che sono stati uccisi. Metà dei sacerdoti che ora vivono a Baghdad sa cosa vuol dire essere rapito. "Temo per il nostro futuro", ha detto Antoine Audo, vescovo caldeo di di Aleppo, in Siria.

Chaldean bishops see litle future for Christians in Iraq

Source: The Tidings (Weekly newspaper of the Los Angeles Archdiocese)

December 13 Detroit (CNS). Chaldean Catholics who remain in Iraq "are all in danger. They never know if they will be killed or kidnapped today or tomorrow," said Chaldean Bishop Ibrahim N. Ibrahim.
"To be honest, we don't see any future for the Christians in the Arab countries. Not only Iraq, even Syria, even Lebanon, even Egypt," he said. There were 650,000 Chaldeans in Iraq prior to the 2003 U.S.-led invasion into Iraq. Today, there are 250,000-300,000 --- the same number now living in North America, said Bishop Ibrahim, head of the Southfield-based Eparchy of St. Thomas the Apostle. The 150,000 Chaldeans in the Detroit area make up the largest group outside the Middle East; he said the number has grown by 40,000 in the past five years.
His brother bishops in Syria and Lebanon, host countries for Iraqi refugees, agree with his assessment of the dangers to those still in their home country. They all knew Chaldean Archbishop Paulos Faraj Rahho of Mosul, Iraq, who was killed in March 2008. They also knew the three priests who have been killed. And half of the priests now in Baghdad know what it's like to have been kidnapped. "I fear our future," said Chaldean Bishop Antoine Audo of Aleppo, Syria.

Italia/Santa Sede: Frattini, grande impegno per minoranze cristiane

Fonte: ASCA

13 dicembre . Il ministro degli Esteri Franco Frattini, parlando a papa Benedetto XVI in occasione della visita di quest'ultimo all'ambasciata italiana della Santa Sede, ha sottolineato la ''profonda sensibilita'' del nostro Paese ''per la sorte delle minoranze cristiane in ogni parte del mondo, esercitando una costante azione a loro supporto''.
Nei confronti della minoranza cristiana in India, ''di fronte ai recenti luttuosi avvenimenti'', Frattini ha ribadito l'importanza dell'intervento italiano, ''sia bilateralmente che nell'ambito dell'Unione europea. Siamo inoltre fortemente convinti - ha aggiunto - che la stabilizzazione del Medio Oriente passi anche attraverso la salvaguardia delle diverse comunita' cristiane storicamente presenti nella regione alle quali, in particolare in Libano e in Iraq, forniamo il nostro supporto e aiuto''.

«Obama, non dimenticare i cristiani in Iraq»

Fonte: Avvenire

11 dicembre. «Non dimenticare l'Iraq e i cristiani che vi abitano». E' questo l'appello lanciato dal patriarca caldeo Emmanuel III Delli, creato cardinale da Benedetto XVI nel Concistoro dello scorso anno, al presidente eletto degli Stati Uniti Barack Obama. Il patriarca caldeo ha parlato a Detroit durante un viaggio negli Stati Uniti per incontrare le comunità caldee. Delli ha detto che «gli ultimi cinque anni sono stati il periodo peggiore che io abbia mai visto nella mia vita» e che «l'occupazione anglo-americana non è stata positiva per i cristiani e nemmeno per l'Iraq». Il cardinale Delli ha poi ricordato che la violenza colpisce tutti, anche gli islamici, «ma noi cristiani ne sentiamo maggiormente le conseguenze perché siamo un gruppo piccolo, senza alcuna protezione».

9 dicembre 2008

Stern: Apriamo le porte agli emigranti cristiani della Terra Santa

Fonte: Terrasanta
di Manuela Borraccino
Roma, 5 dicembre 2008

È giusto fare di tutto perché i cristiani del Medio Oriente «possano restare nei loro Paesi d'origine e prosperare» ma, date le «discriminazioni che caratterizzano la loro condizione di minoranza», nessuno può impedire l'esodo inarrestabile che nel giro di 15-20 anni potrebbe dimezzarne il numero in tutta la regione: «Occorre piuttosto favorire con adeguate politiche di accoglienza il loro inserimento nei Paesi occidentali». Una presa di posizione impopolare, quella di mons. Robert Strern, presidente della Missione pontificia per la Palestina e segretario generale della Catholic Near East Welfare Association (Cnewa), il braccio umanitario della Santa Sede per l'aiuto ai cristiani delle Chiese orientali.
Invitato a parlare alla Consulta mondiale dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro convocata ogni cinque anni per valutare la situazione dei cattolici di Terra Santa ed approvare gli aiuti umanitari, il sacerdote newyorchese che da quarant'anni viaggia nella regione ha analizzato le conseguenze delle tendenze demografiche in atto: «La nostra fede, a differenza dell'ebraismo e dell'islam, non dipende da luoghi fisici: se anche non restasse un solo cristiano in Terra Santa, il cristianesimo resterebbe vivo e diffuso» ha detto.
Lei viaggia da quarant'anni in Medio Oriente, nel Corno d'Africa, in India. Come vede il futuro dei cristiani?
Se tentiamo di tracciare uno scenario in modo asettico, ispirandoci alle statistiche demografiche come se fossimo dei sociologi, la tendenza inarrestabile che emerge dai dati è che l'esodo dei cristiani in atto da più di mille anni da tutto il Medio Oriente si sta accelerando nelle ultime generazioni. I cristiani di Terra Santa sono oggi la più piccola fra tutte le minoranze cristiane del Medio Oriente: in Israele, secondo le ultime statistiche dell'ottobre 2007, i cristiani rappresentano il 2 per cento della popolazione: circa 147mila su 7 milioni e 337mila abitanti, in gran parte arabi, ai quali vanno aggiunti almeno 300mila «non ebrei» giunti in Israele dall'Europa dell'Est e dalle Filippine negli ultimi anni. Nei Territori palestinesi sono circa l'1 per cento della popolazione, alcune decine di migliaia su 3 milioni e 800mila palestinesi circa. In Giordania sono il 4 per cento, circa 250mila su 5 milioni e 600mila abitanti. In Libano, un tempo a maggioranza cattolica, i cristiani sono scesi al 30 per cento: sono oggi 1 milione e 170mila su 3 milioni e 900mila abitanti. In Siria ed in Egitto sono circa il 10 per cento della popolazione: rispettivamente 1 milione e 850mila su quasi 19 milioni di siriani, e circa 9 milioni su 81 milioni di egiziani. In Iraq, per quanto se ne sappia, erano circa il 3 per cento della popolazione prima della guerra: oggi molti meno. Se guardiamo indietro nella storia, erano il 100 per cento! Ma, secondo le ultime proiezioni, i cristiani potrebbero ridursi a 6 milioni in tutta la regione nei prossimi 15-20 anni.
A parte l'instabilità cronica, quali sono le cause principali?
I cristiani del Medio Oriente sono stranieri in una terra inospitale, anche se sono nati lì. In Israele vivono in uno Stato e in un società ebraici, nei Paesi musulmani vivono immersi in una società islamica. Per quanto siano discendenti degli abitanti originari di quelle terre, viene fatto in modo che essi sentano di non essere più «adatti» a quelle terre, di non appartenervi più. E questo perché spesso i cristiani vengono identificati con l'Occidente, cosa che talvolta essi stessi incoraggiano con le loro parole e azioni. La loro stessa condizione di minoranza li espone alle discriminazioni: sono cittadini di serie B non solo nei Paesi musulmani, ma anche in un Paese democratico come Israele.
La Chiesa universale cerca da sempre di favorirne la presenza, eppure l'esodo continua. Che fare?
Io credo che, anziché contrastare questo movimento, dovremmo favorirlo. È giusto creare le condizioni di sicurezza, pacificazione e benessere affinché i cristiani che vogliono restare in Medio Oriente possano vivere e prosperare. Ma, date le circostanze, non possiamo impedire che cerchino un avvenire migliore per se stessi e per i loro figli e dovremmo piuttosto aiutarli, chiedendo ai nostri governanti di elaborare politiche che ne aiutino l'inserimento. Ci preoccupiamo che i grandi stormi di uccelli migratori possano viaggiare ogni anno dal Canada al Messico, che i salmoni possano risalire le correnti dei fiumi e andare al nord... perché dunque facciamo di tutto per impedire le migrazioni umane? Io penso che una delle grandi sfide del nostro tempo sia quella di facilitare le migrazioni, essere più generosi nell'accoglienza, favorire in particolare il processo di integrazione dei cristiani del Medio Oriente nei Paesi occidentali: questo è un tema politico di grande rilevanza.
Non c'è il rischio che i Luoghi santi diventino dei monumenti archeologici, svuotati delle loro comunità?
Non sto dicendo che sia uno scenario auspicabile: ovviamente vogliamo fare di tutto perché i cristiani restino ed è estremamente importante che nelle loro difficoltà avvertano il sostegno della Chiesa universale. Quel che intendo dire, però, è che la nostra fede non dipende da alcuni luoghi, come avviene nelle altre religioni abramitriche: pensiamo all'enorme importanza di Eretz Israel (la terra di Israele) nell'ebraismo, o ai santuari della Mecca, Medina o Gerusalemme per l'Islam... Invece il messaggio di Cristo è per ogni uomo, la natura intrinseca del cristianesimo non è vincolata a un luogo o ad un'etnia. Perciò la Terra Santa conserverà sempre un luogo speciale nei nostri cuori, nella nostra memoria, nelle nostre menti e nelle nostre vite ma, se anche non restasse un solo cristiano in Terra Santa, il cristianesimo resterebbe vivo e diffuso.
Che cosa si aspetta dalla presidenza di Barack Obama?
Gli Stati Uniti hanno storicamente un ruolo di primo piano in Medio Oriente e la mia speranza, specialmente come cittadino americano, è che il nuovo presidente apra nuove prospettive. Il fatto che sia figlio di una madre americana cristiana e di un padre africano musulmano, che sia nato alle Hawaii e abbia passato diversi anni in Indonesia, gli dà maggiori chances di capire le differenze. Almeno questo è quanto ci ha detto durante la campagna elettorale, quindi mi aspetto che porti una ventata di freschezza nella politica Usa verso il Medio Oriente. E che porti una forte leadership! Perché quello di cui si sente la mancanza in Israele e in Palestina è proprio la presenza di un leader, qualcuno che abbia la forza e la capacità di mettere insieme le persone ed imporre una soluzione al conflitto arabo-israeliano.
Che impatto potrà avere il viaggio del Papa di cui ormai si parla?
Penso che per i cristiani, e non solo per loro, sarà una grande iniezione di energia. Ero lì quando venne Giovanni Paolo II e tutti, ebrei cristiani e musulmani, passarono quelle giornate incollati alla tivù guardando quel piccolo uomo vestito di bianco che pregava, parlava, offriva Messe, visitava le persone... È stato un momento di pace, di calma in mezzo alla tempesta. Spero che per Papa Benedetto XVI possa essere lo stesso. Lui è Pontifex, «costruttore di ponti»... Io spero che quando sarà lì la sua presenza, le sue parole e la sua preghiera possano contribuire a sanare le terribili divisioni fra i popoli, fra le religioni e la politica.

6 dicembre 2008

Babilonia, mito e realtà




13 novembre 2008 - 15 marzo 2009


Per duemila anni il mito di Babilonia ha ossessionato l’immaginazione europea.

La Torre di Babele ed i giardini pensili, il banchetto alla corte di Baldassarre e la caduta di Babilonia hanno ispirato artisti, scrittori, poeti, filosofi e registi. Nel corso degli ultimi duecento anni gli archeologi hanno lentamente rimesso insieme la 'vera' Babilonia - una capitale imperiale, un grande centro scientifico, artistico e commerciale. Dal 2003, la nostra attenzione è stato attirata da nuove minacce all’archeologia della Mesopotamia, il moderno Iraq. Attingendo al patrimonio del British Museum di Londra, del Musée du Louvre e della Réunion des musées nationaux di Parigi, e del Vorderasiatisches Museum di Berlino, la mostra esplora il dialogo continuo tra la Babilonia della nostra immaginazione e le testimonianze storiche di una delle grande città dell’antichità al momento del suo culmine e della sua eclissi.

Esplora online:


Babylon, myth and reality

The British Museum, London

November 13, 2008 – March 15, 2009

For two thousand years the myth of Babylon has haunted the European imagination. The Tower of Babel and the Hanging Gardens, Belshazzar’s Feast and the Fall of Babylon have inspired artists, writers, poets, philosophers and film makers.
Over the past two hundred years, archaeologists have slowly pieced together the ‘real’ Babylon – an imperial capital, a great centre of science, art and commerce. Since 2003, our attention has been drawn to new threats to the archaeology of Mesopotamia, modern day Iraq.
Drawing on the combined holdings of the British Museum London, the musée du Louvre and the Réunion des musées nationaux, Paris, and the Vorderasiatisches Museum Berlin, the exhibition explores the continuing dialogue between the Babylon of our imagination and the historic evidence for one of the great cities of antiquity at the moment of its climax and eclipse.


5 dicembre 2008

I cristiani iracheni e quell'esperienza di libertà negata


di Roberto Fontolan

Un trafiletto nei giorni scorsi riportava una frase tratta da un’intervista di fine mandato rilasciata da George Bush alla televisione ABC. Qual era il suo più grande rimpianto? Aver scoperto che le notizie sulle armi di distruzione di massa che Saddam stava accumulando in Iraq erano false.
Non una cosa da poco, dal momento che quelle armi furono la motivazione ufficiale della guerra. Si ricorderà l’audizione di Colin Powell che esibiva davanti alle televisioni di tutto il mondo le foto e i filmati di mezzi e impianti piazzati nel deserto, le “prove schiaccianti” della minaccia irachena.
Qualche tempo dopo Colin Powell si dimise e chiunque al mondo lesse in quelle dimissioni l’esito della frattura con il presidente: il generale aveva “dovuto” obbedire, ma non lo avrebbe più fatto. La guerra ci fu e sappiamo come è andata e come sta andando (per avere qualche idea di come sia vissuta in questa fase dall’immaginario americano è utile vedere i film “The Hurtlocker” e “Nessuna verità”).
Recentemente il parlamento iracheno ha approvato il piano di ritiro americano, che fissa al 2011 la fine dell’operazione in corso da cinque anni. Ma dire che l’Iraq resta e resterà in una situazione drammatica è un eufemismo.
Dell’intero Paese soltanto il Kurdistan, a nord, vive in pace e (quasi) prosperità: uno stato di semi-indipendenza, alimentato dal locale esercito e dagli accordi petroliferi realizzati autonomamente, che infatti fanno arrabbiare il governo centrale di Baghdad. Nel resto dell’Iraq, gli accordi tra sunniti e sciiti si fanno e si disfano velocemente mentre continuano a imperversare milizie e terroristi di ogni possibile sfumatura.
È vero però che la strategia essenzialmente militare messa in atto dal generale Petreus ha dato frutti e per questo non può essere abbandonata, pur restando la domanda sulla sua tenuta nel tempo. Cosa succederà, come si evolverà la situazione irachena è un enigma. L’influenza, se non di più, dell’Iran; la forza di Al Qaeda (oggettivamente rilanciata dalla strage di Mumbai, anche se i suoi legami con la squadra di mujahiddin potrebbero risultare molto esili); il conflitto intramusulmano e arabo-curdo; il rapporto con gli Usa… al momento sono tutte incognite che sicuramente riempiono il dossier Iraq sul tavolo del nuovo segretario di Stato designato, Hillary Rodham Clinton, che per ottenere la conferma dovrà superare le forche caudine delle audizioni del Congresso (e soprattutto dovrà farlo il marito Bill la cui Fondazione ha raccolto 500 milioni di dollari, anche da donatori arabi).
In quel dossier non è certo che ci sia un rapporto sul miserevole stato dei cristiani iracheni. Non passa giorno senza che dalle loro comunità si levino grida di morte e di aiuto. Davanti alle persecuzioni, agli esodi, alle devastazioni, agli omicidi mirati, occorre riconoscere che la sopravvivenza dei cristiani in Iraq è un tema largamente sottovalutato.
Prima di tutto dalla comunità musulmana mondiale, se mai ne esista una. Settimane fa, nel corso del Forum islamo-cristiano di Roma, un illuminato e moderatissimo studioso sciita iraniano, profugo dal suo Paese e stimato docente in una università (cattolica) di Washington, a una domanda sul tema ha saputo rispondere: «Sono stati molti di più i morti musulmani in Bosnia a opera dei serbi». Diciamo che fino a che i “leader” islamici risponderanno così, resteranno sempre poco credibili.
I cristiani iracheni sono martirizzati dai musulmani, spesso per ragioni unicamente religiose: questa è la verità nuda e cruda e le grandi moschee d’occidente così come i capi islamici, a cominciare dal re dell’Arabia, dovrebbero prendere atto, condannare, agire di conseguenza. Ma poi il tema è bellamente ignorato dalle diplomazie occidentali, eccetto il nostro ministro Frattini che la settimana scorsa ha parlato chiaro ai governanti iracheni, e clamorosamente dai media e dunque dall’opinione pubblica.
Non è una faccenda risolvibile con la pur doverosa accoglienza (l’Unione europea lo farà con diecimila profughi), ma solo con il riconoscimento concreto del diritto alla libertà religiosa in un Paese verso il quale erano state assunte parecchie responsabilità tra cui quella di “esportare la democrazia”.
Un diritto che va difeso, persino con le armi, e che dovrebbe dare il titolo centrale alle celebrazioni per i 60 anni della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, in programma la settimana prossima.
Dedichiamola ai cristiani iracheni, facciamo pensare il mondo al valore della libertà religiosa. Se si riuscirà a fare un passo avanti in questo cammino anche quelle vecchie false notizie potranno essere servite a qualcosa.