"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

30 giugno 2017

Nuovo sacerdote per la chiesa caldea negli Stati Uniti

By Baghdadhope*

Si svolgerà domani nella chiesa della Madre di Dio a Southfield nel Michigan la cerimonia di ordinazione di Padre Patrick Setto.
Padre Setto è nato a Troy (MI) da una famiglia irachena emigrata negli USA negli anni 70. Unico figlio maschio con tre sorelle più grandi Padre Setto ha frequentato le scuole nella sua città natale per continuare gli studi teologici dal 2009 all'aprile del 2017 presso il seminario maggiore del Sacro Cuore a Detroit.
Il 30 aprile 2016 è stato ordinato diacono.
La cerimonia sarà officiata dal vescovo caldeo della diocesi di San Tommaso Apostolo negli Stati Uniti orientali Mons. Francis Kalabat, anche lui ex studente del seminario del Sacro Cuore ed  ora membro del consiglio di facoltà.
Padre Patrick Setto è destinato a prendere servizio ad agosto come vicario parrocchiale nella stessa chiesa dove sarà ordinato domani e dove affiancherà l'attuale amministratore Padre Pierre Konja.

Una nuova grande chiesa caldea ad Erbil

By Baghdadhope*
Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Foto Arcidiocesi caldea di Erbil

Come riportato dal sito dell'arcidiocesi caldea di Erbil il patriarca della chiesa caldea, Mar Louis Raphael I Sako, ha consacrato ieri pomeriggio con una solenne celebrazione la chiesa dei santi Pietro e Paolo nel distretto di Mar Auda ad Ankawa, il sobborgo cristiano di Erbil.
Per l'occasione erano presenti nella città del Kurdistan iracheno molte alte autorità religiose tra le quali per la chiesa caldea l'Arciverscovo di Erbil, Mons. Bashar M. Warda, l'Arcivescovo Emerito Mons. Jacques Isaac, il vescovo di Alqosh, Mons. Mikhail Maqdassi e quello di Dohuk Mons. Rabban al Qas, il Nunzio apostolico in Iraq e Giordania Mons. Alberto Ortega Martin ed il vescovo di Erbil della Chiesa Assira dell'Est Mar Abris Youkhanan.
La cerimonia, accompagnata dal coro della chiesa, è stata introdotta dal parroco della chiesa  Padre Rayan Atto.
Nell'omelia il patriarca Sako ha invitato i fedeli a rimanere in patria ed a preservare l'identità caldea nelle difficili circostanze che il paese sta vivendo, e che richiedono unità di intenti e voci e non visioni ristrette o sogni irrealizzabili. 
Alla fine della cerimonia il vescovo di Erbil, Mons. Warda, ha ringraziato i presenti e l'ufficio per gli affari cristiani del governo del Kurdistan per il sostegno al progetto per il quale sono stati stanziati nel 2103 4 milioni di dollari cui la diocesi ne ha aggiunto circa 850.000 per il suo completamento.
Il progetto della chiesa dei santi Pietro e Paolo include lo spazio per circa 1000 fedeli, 3 sale per attività diverse, gli uffici amministrativi, 24 aule da studio, giardini e spazi interni all'aperto.   


Il Sismografo blogspot
2 luglio 2017

Una nuova grande chiesa caldea ad Erbil


Frammenti di Pace
2 luglio 2017

Erbil: una nuova e grande chiesa caldea


Radiovaticana
Paolo Odarza
2 luglio 2017

Iraq. Inaugurata ad Erbil la chiesa dei santi Pietro e Paolo


Avvenire

3 luglio 2017
Apre a Erbil la chiesa di San Pietro e Paolo

I due Patriarchi siri alla conferenza di Bruxelles sul futuro dei cristiani in Iraq. Forfait della Chiesa assira d'Oriente

By Fides

Due Patriarchi delle Chiese d'Oriente, il siro ortodosso Ignatius Aphrem II e il siro cattolico Ignatius Youssif III Younan hanno preso parte ai lavori della Conferenza sul futuro dei cristiani in Iraq (A Future for Christians in Iraq) organizzata a Bruxelles, presso la sede del Parlamento Europeo, su iniziativa del parlamentare europeo Lars Adaktusson, esponente del Partito cristiano democratico svedese. "Lo scopo di questa conferenza” aveva dichiarato Adaktusson per lanciare l'iniziativa “è il ritorno della popolazione nella Piana di Ninive, e io invito tutti i caldei, i siri e gli assiri a unirsi per assicurare che il loro popolo possa tornare a casa”.
Ai lavori della Conferenza, che si concludono nella giornata di oggi, venerdì 30 giugno, non hanno invece preso parte rappresentanti della Chiesa caldea né della Chiesa assira d'Oriente. Il Patriarcato caldeo, come ha già riferito l'agenzia Fides (vedi Fides 28/6/2017), aveva spiegato in una nota - diffusa la scorsa settimana – le ragioni della mancata adesione all'iniziativa europea, ricordando, tra l'altro, che “il futuro dei cristiani è legato al futuro di tutto il popolo iracheno”, del quale i cristiani iracheni sono parte integrante, e giudicando quindi inopportune iniziative organizzate presso istituzioni politiche occidentali che esprimono attenzione e appoggio in forma esclusiva alle comunità cristiane presenti in Iraq. Se Paesi e istituzioni occidentali vogliono aiutare i cristiani in Iraq – si leggeva in quella nota – possono farlo sostenendo la lotta al terrorismo e la ricostruzione del Paese, così da favorire anche i profughi cristiani che vogliono tornare alle proprie terre d'origine. Il Patriarcato caldeo aveva richiamato anche le tante sigle e micro-formazioni politiche cristiane locali a farsi carico delle proprie responsabilità, evitando di inseguire ipotesi politiche fantasiose e irrealizzabili.
Nella giornata di giovedì 29 giugno, alcuni media legati alla comunità cristiana assira hanno riferito che anche la Chiesa assira d'Oriente ha deciso di non inviare nessun rappresentante alla conferenza di Bruxelles. Secondo le fonti citate da Assyria TV, il Patriarcato assiro ha giudicato l'iniziativa ospitata dal Parlamento Europeo come troppo sbilanciata a favore dei disegni politici indipendentisti perseguiti dai leader curdi della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, intenzionati a allargare la propria influenza sulla Piana di Ninive.
Nel suo intervento, il Patriarca siro ortodsso Ignatius Aphrem II ha dichiarato che i cristiani in Medio Oriente vogliono solo vivere in pace insieme ai loro connazionali, e ha invocato il sostegno internazionale a favore della ricostruzione e del ritorno dei rifugiati alle proprie terre d'origine, sia in Iraq che in Siria, ma non ha fatto alcun riferimento alla necessità di mobilitare forze di protezione internazionali a favore del reinsediamento delle comunità cristiane nelle proprie aree di radicamento storico.
Già all'inizio di maggio, come documentato dall'Agenzia Fides (vedi Fides 6/5/2017) il Patriarca caldeo Louis Raphael Sako aveva diffuso una lettera in cui suggeriva ai cristiani di non chiudersi in trincea e di non farsi abbagliare da proposte irrealiste e intempestive. In quell'occasione, il Patriarca sembrava alludere in particolare alle ipotesi – rilanciate anche di recente da politici cristiani iracheni – di istituire nel nord dell'Iraq aree protette riservate alle minoranze etnico-religiose – comprese quelle cristiane – dotandole di autonomia amministrativa o addirittura sottoponendole a garanzie e sistemi di protezione internazionali. 

“Our Last Stand: Saving Christianity in Iraq”

By Syriac Orthodox Patriarchate
June 29, 2017

His Holiness Patriarch Mor Ignatius Aphrem II spoke at the Panel entitled: “Our Last Stand: Saving Christianity in Iraq” at the conference on the Future of Christians in Iraq.
The panel was moderated by MEP Gyorgy Holvenyi. His Beatitude Syriac Catholic Patriarch Mor Ignatius Youssef III Younan, Very Rev. Archimandrite Emanuel Youkhanna and Very Rev. Msgr. Boniface also contributed to the panel.
His Holiness spoke about the need of the international community to fight terrorism which is a global threat to all people and to human civilization. He emphasized the need to help Christians remain in their homeland after stopping the genocide that they are facing.
He reminded the international community of the case of the abducted Archbishops of Aleppo and hoped for their return.
He suggested that there should be international guarantees and commitment to rebuilding and repatriation without any specific international protection forces. 
His Holiness also stated that the Christians want to live in peace side by side with all their neighbors.

29 giugno 2017

Controversial conference on future of Iraq’s Christians begins in Brussels

By Rudaw

In recognizing ISIS atrocities against Iraq’s minorities as genocide, states are obliged to act, a Dutch politician told Iraq’s Christians at a conference in Brussels in Wednesday that has been boycotted by several Christian organizations.
Recognition of the genocide “is important because if countries recognize that what is going on under Daesh is genocide, they are obliged to act,” said Pieter Omtzigt, member of the Council of Europe from Netherlands.
“And obliged to act means stopping, means at least stopping fighters. Because what’s happening now, for the first time since the 1940s, citizens of the 28 EU countries are committing a genocide. We all know it.”
The conference, A Future for Christians in Iraq, being held Wednesday through Friday, was put on by Lars Adaktusson, Swedish member of the European Parliament.
“The purpose of this conference is the return of the people to the Nineveh Plain, and I call upon all Chaldeans/Syriacs/Assyrians to come together to ensure that their people can return home,” Adaktusson said in a statement published in the lead up to the conference, which he said would welcome 60 participants, including officials from Baghdad and Erbil, and church representatives from Europe and the US.
Not all Christian groups have welcomed his efforts, however.
The Patriarch of the Chaldean Church stated it would not attend the conference because the future of Christians in Iraq is linked to all Iraqis and so is an issue that must be discussed “within the Iraqi house.”
If the West really wants to help, “it will support Iraq in its fight against terrorism and efforts to achieve national reconciliation, establish security and stability, and contribute to the reconstruction and rehabilitation of liberated towns to speed up the return of displaced persons to their homes,” the statement read.
The Assyrian Democratic Movement (ADM) has boycotted the conference.
Kaldo Oghanna, ADM spokesperson, said in a public statement that the conference was promoting a partisan and sectarian agenda and did not reflect ADM’s desire for a unified representation of Chaldeans, Syriacs, and Assyrians as had been agreed in a meeting of Christian political parties in March.
He also noted the omission from the agenda of a discussion of a January 2014 Iraqi cabinet decision regarding the formation of a new province in the Nineveh Plain that would be separate from the disputes between Erbil and Baghdad.
The policy document on the conference’s agenda “requires a referendum whereby our people will decide whether to become part of Kurdistan or another jurisdiction or a province or some form of self-governance.”
Oghanna described this as a “forceful effort” that contradicts his party’s policies, the primary of which is “completing the formation of a new Nineveh Plains province.”
In recognizing ISIS atrocities against Iraq’s minorities as genocide, states are obliged to act, a Dutch politician told Iraq’s Christians at a conference in Brussels in Wednesday that has been boycotted by several Christian organizations.

Recognition of the genocide “is important because if countries recognize that what is going on under Daesh is genocide, they are obliged to act,” said Pieter Omtzigt, member of the Council of Europe from Netherlands.

“And obliged to act means stopping, means at least stopping fighters. Because what’s happening now, for the first time since the 1940s, citizens of the 28 EU countries are committing a genocide. We all know it.”

The conference, A Future for Christians in Iraq, being held Wednesday through Friday, was put on by Lars Adaktusson, Swedish member of the European Parliament.

“The purpose of this conference is the return of the people to the Nineveh Plain, and I call upon all Chaldeans/Syriacs/Assyrians to come together to ensure that their people can return home,” Adaktusson said in a statement published in the lead up to the conference, which he said would welcome 60 participants, including officials from Baghdad and Erbil, and church representatives from Europe and the US.

Not all Christian groups have welcomed his efforts, however.

The Patriarch of the Chaldean Church stated it would not attend the conference because the future of Christians in Iraq is linked to all Iraqis and so is an issue that must be discussed “within the Iraqi house.”

If the West really wants to help, “it will support Iraq in its fight against terrorism and efforts to achieve national reconciliation, establish security and stability, and contribute to the reconstruction and rehabilitation of liberated towns to speed up the return of displaced persons to their homes,” the statement read.

The Assyrian Democratic Movement (ADM) has boycotted the conference.

Kaldo Oghanna, ADM spokesperson, said in a public statement that the conference was promoting a partisan and sectarian agenda and did not reflect ADM’s desire for a unified representation of Chaldeans, Syriacs, and Assyrians as had been agreed in a meeting of Christian political parties in March.

He also noted the omission from the agenda of a discussion of a January 2014 Iraqi cabinet decision regarding the formation of a new province in the Nineveh Plain that would be separate from the disputes between Erbil and Baghdad.

The policy document on the conference’s agenda “requires a referendum whereby our people will decide whether to become part of Kurdistan or another jurisdiction or a province or some form of self-governance.”

Oghanna described this as a “forceful effort” that contradicts his party’s policies, the primary of which is “completing the formation of a new Nineveh Plains province.”
In recognizing ISIS atrocities against Iraq’s minorities as genocide, states are obliged to act, a Dutch politician told Iraq’s Christians at a conference in Brussels in Wednesday that has been boycotted by several Christian organizations.

Recognition of the genocide “is important because if countries recognize that what is going on under Daesh is genocide, they are obliged to act,” said Pieter Omtzigt, member of the Council of Europe from Netherlands.

“And obliged to act means stopping, means at least stopping fighters. Because what’s happening now, for the first time since the 1940s, citizens of the 28 EU countries are committing a genocide. We all know it.”

The conference, A Future for Christians in Iraq, being held Wednesday through Friday, was put on by Lars Adaktusson, Swedish member of the European Parliament.

“The purpose of this conference is the return of the people to the Nineveh Plain, and I call upon all Chaldeans/Syriacs/Assyrians to come together to ensure that their people can return home,” Adaktusson said in a statement published in the lead up to the conference, which he said would welcome 60 participants, including officials from Baghdad and Erbil, and church representatives from Europe and the US.

Not all Christian groups have welcomed his efforts, however.

The Patriarch of the Chaldean Church stated it would not attend the conference because the future of Christians in Iraq is linked to all Iraqis and so is an issue that must be discussed “within the Iraqi house.”

If the West really wants to help, “it will support Iraq in its fight against terrorism and efforts to achieve national reconciliation, establish security and stability, and contribute to the reconstruction and rehabilitation of liberated towns to speed up the return of displaced persons to their homes,” the statement read.

The Assyrian Democratic Movement (ADM) has boycotted the conference.

Kaldo Oghanna, ADM spokesperson, said in a public statement that the conference was promoting a partisan and sectarian agenda and did not reflect ADM’s desire for a unified representation of Chaldeans, Syriacs, and Assyrians as had been agreed in a meeting of Christian political parties in March.

He also noted the omission from the agenda of a discussion of a January 2014 Iraqi cabinet decision regarding the formation of a new province in the Nineveh Plain that would be separate from the disputes between Erbil and Baghdad.

The policy document on the conference’s agenda “requires a referendum whereby our people will decide whether to become part of Kurdistan or another jurisdiction or a province or some form of self-governance.”

Oghanna described this as a “forceful effort” that contradicts his party’s policies, the primary of which is “completing the formation of a new Nineveh Plains province.”

Assyrian Church of the East to Boycott EU Conference on Future of Nineveh Plains


Sources close to the Assyrian Church of the East confirmed to Assyria-TV on Wednesday that the church will join the boycott against the conference on the future of the Nineveh Plain, hosted by Lars Adaktusson, Swedish member of the European parliament.
The conference is being held in the EU-parliament in Brussels and has come under heavy criticism for excluding important organizations and for having an agenda that fits the interests of the Kurdish regional government in Iraq, which seeks to increase its control over the Nineveh Plains, an area outside the Kurdish dominated region in Northern Iraq.

Iraq, il villaggio distrutto dall’Isis dove sono rimasti solo i serpenti

Lorenzo Cremonesi

Un soffio ritmato, un sibilo a tratti acuto, ma poi più pesante, profondo come il battito d’ali di un grande volatile, pare persino il respiro di un bovino. L’altra notte suonava vicinissimo, amplificato dal buio sotto il cielo stellato senza luna e dal silenzio quasi perfetto nel cuore del nucleo urbano abbandonato. In un primo tempo veniva dalle macerie di una delle abitazioni più antiche del centro del villaggio, quindi da dietro il muro perimetrale della chiesetta medioevale di Santa Maria devastata dagli incendi appiccati nel 2014 dai jihadisti del Califfato, poco dopo echeggiava minaccioso tra le viuzze ingombre di calcinacci, schegge di vetro, mobili fracassati.
«Zarraga, Zarraga, attenti è il loro verso prima di attaccare», sussurrano spaventati i tre fratelli della famiglia Rammu. Miron, che ha ventun anni ed è il maggiore, stringe il manico del badile pronto a colpire. Gli altri, Marsen neppure ventenne e Firas di sedici, raccolgono da terra due pietre. «Zarraga sono le vipere del deserto. Animali velenosissimi, aggressivi, dal morso mortale, attaccano veloci se si sentono in pericolo e di notte sono ancora più imprevedibili. Possono ben superare i due metri di lunghezza. L’altro giorno hanno provato a morsicare uno di noi nel cimitero, abbiamo sparso la zona di zolfo per scacciarli. Una piaga: hanno tane nelle rovine delle case, si moltiplicano tra le immondizie, nessun contadino li uccide più», dice Miron.
È difficile vedere oltre il fascio di luce della nostra torcia. Sono solo due settimane che nella regione del paesino di Karemles è tornata l’elettricità. L’unica abitazione ad essere illuminata è la loro, sul perimetro settentrionale del villaggio aperto sui vecchi campi di grano che da tre anni nessuno coltiva più. «Isis si è trasformato in serpente», scherzano i fratelli. E in qualche modo le loro battute aiutano a dissipare la tensione nel cuore della notte, qui, tra uno dei sette villaggi cristiani abbandonati della piana di Ninive.
Ma l’invasione dei serpenti dove prima stavano gli uomini ha anche il sapore antico della metafora biblica. «Delle circa 1.000 famiglie cristiane che sino al giugno 2014 vivevano a Mosul, nessuna è ancora tornata, restano per lo più acquartierate ad Erbil. A Qaraqosh erano 8 mila, ne sono rientrate meno di 100. Delle 700 di Telkief, neppure una ha voluto tornare. A Bartella hanno riaperto casa solo in 8 su 2.750. Sono i sacerdoti locali a tenere conto degli spostamenti delle loro comunità. Le cifre che forniamo sono ufficiose, ma credibili. Qui nella mia parrocchia caldea di Karemles ci sono solo i Rammu, su 830 famiglie», spiega Paolo Mekko, parroco tra i più attivi sostenitori del ritorno alla vita di Ninive.
Su di una grande mappa appesa nei saloni appena ripristinati nella canonica dalla basilica centrale di Karemles è possibile cogliere il senso della devastazione causata da Isis, oltre alle difficoltà e ai ritardi della ricostruzione. «Delle 759 abitazioni originarie, 89 restano solo macerie, 241 sono state bruciate e 429 hanno subito danni non troppo gravi. Ci stiamo concentrando a riparare subito queste ultime», dice Mekko. Ma i lavori vanno a rilento. La tubatura municipale dell’acqua rimane interrotta nel punto in cui Isis nell’agosto 2014 la fracassò nello scavare trincee presso il villaggio di Shaquli, un chilometro più a nord di Karemles, dove gli abitanti sunniti restano sfollati a Mosul, non tornano nel timore di rappresaglie da parte di cristiani e curdi. Soltanto una decina di operai è al lavoro con una ruspa nel centro di Karemles. Gli echi dei successi militari contro Isis sembrano smorzarsi tra le fate morgane di questa pianura assetata. Mosul è solo 20 chilometri più a sud. Per capire le ritrosie degli abitanti sfollati aiutano le riunioni mensili aperte alle famiglie che si tengono presso gli uffici del patriarcato caldeo, nel quartiere cristiano di Ankawa a Erbil.
«Un conto è dire al mondo che i cristiani iracheni non vogliono abbandonare la loro patria storica, un altro è però tornarci davvero con l’incubo onnipresente che Isis possa riapparire più violento di prima», protestano forte in tanti. C’è chi chiede più fondi per finanziare milizie cristiane di autodifesa e chi invece vorrebbe la presenza di contingenti di pace internazionali. A Qaraqosh sottolineano che nei villaggi sunniti, in alcuni casi distanti solo quattro o cinque chilometri da quelli cristiani, Isis non solo non ha inferto alcuna distruzione, ma anzi, ha raccolto consensi e assoldato militanti. «Sappiamo che sono stati spesso i nostri vicini musulmani a rubare nelle nostre case, a svaligiare i negozi, a impadronirsi delle nostre auto, dei nostri mezzi agricoli», dice Labib Rammu, 55 anni, padre dei tre fratelli di Karamles. «La terra è più fertile che mai dopo tre anni di riposo», osservano. Presto torneranno a produrre cipolle rosse, che una volta erano famose in tutto l’Iraq. Ma l’ottimismo si vela d’incertezza quando mostrano sul cellulare le immagini del loro trattore rubato tre anni fa da Isis, ritrovato ai primi di giugno senza ruote e batterie a Mosul e ora già riparato e attivo nel loro campo. «Distinguere tra i civili sunniti che si sono impadroniti delle nostre cose e i militanti fanatici di Isis è difficile. Talvolta gli uni sono anche gli altri, sebbene adesso cerchino di prendere le distanze», aggiunge Rammu. Alla luce accecante della mattina le strade vuote di Karemles, le abitazioni silenziose, la vista delle macerie, appaiono più desolanti che mai. «Conquisteremo Roma», si legge su un muro delle quattro chiese devastate. «Gesù non è figlio di Dio, ma suo servo», recita un’altra scritta di Isis. L’odio di religione impera. Tanto che la minaccia dei serpenti sembra adesso poca cosa rispetto ai traumi subiti dalle popolazioni più settarie e più sulla difensiva che mai.

28 giugno 2017

ISIS Almost Defeated in Iraq, But Thousands of Christians Refuse to Return to Their Homes

By Newsweek and

Three years ago, as darkness fell over the northern Iraqi town of Qaraqosh, Sabah Petrus Shema helped his extended family pile into a pickup truck and leave town. When they were gone, he grabbed two Kalashnikovs and waited as the sound of mortar fire drew near.
Miles down the road, the Islamic State militant group (ISIS) was advancing. By early the next morning, nearly all of the town's residents were gone, and a stream of panicked soldiers began to pass through, retreating from the front. That's when Shema knew it was time to flee. "It was a painful decision," he says. "We were leaving behind our homes, our churches, everything. All we took was our clothes, our IDs and some money."
Qaraqosh was among dozens of towns in northern Iraq that ISIS overran in 2014. Over the past three years, the Iraqi army has regrouped, with the help of Shiite militias, Kurdish forces and American airpower, driving the militants out of all but a few small pockets, such as central Mosul. But while predominantly Muslim towns have begun to rebuild, in Qaraqosh and other mostly Christian places, few residents have returned. Fearing more war and extremism, many worry they never will. "The future in Iraq is full of ambiguity," says Shema, who now lives in a refugee camp in Erbil. "After ISIS is gone, there may be another group that is even worse."
Today, most of Qaraqosh looks like ghost town. Weeds and wildflowers have sprouted along the main roads, and there's an eerie silence, save for the occasional passing truck filled with soldiers from the Nineveh Plains Unit, a Christian militia.
The destruction of Qaraqosh was systematic, and everywhere you look, the buildings are charred from flames. ISIS fighters went from home to home, dousing them in chemicals and setting them ablaze. In churches, they smashed religious icons and slashed the faces of paintings of Jesus and Mary. Throughout the town, they left booby traps and improvised explosive devices, some of which remain.
Yousif Yaqoub, the president of the Beth Nahrin National Union, an Assyrian Christian political party, believes the militants wanted to make the town uninhabitable, to send a message to the country's Christians. "It's not just in Qaraqosh," Yaqoub tells Newsweek by phone from Erbil. "In the other Christian towns too, they tried to destroy every single house."
Given Qaraqosh's disrepair, it's understandable that few residents want to return. Yet other Muslim-majority towns suffered worse destruction and have sprung back to life in the months since ISIS fled. Even in Mosul, where fierce fighting continues, once shuttered stores have reopened, and empty neighborhoods are now bustling with people. On a visit to the Wadi Hajar neighborhood of western Mosul in April, just a month after it was recaptured, shopkeepers were repainting their blackened storefronts even as gunfire and explosions erupted a few blocks away.
Though a few Qaraqosh residents have started trickling back in recent months, the vast majority aren't. Before the ISIS invasion, 50,000 people lived here. Now, there are only an estimated 180 families. The Christians are concerned over how readily some of their Muslim neighbors accepted the rise of ISIS. "There are still many people who support ISIS," says a Nineveh Plains Unit member, who identified himself only as Major Latif. The militamen periodically conduct raids to break up sleeper cells in the area.
In recent months, ISIS sleeper cells have launched attacks in and around parts of Mosul and Kirkuk, as well as in the capital, Baghdad. "We are afraid of all the people who supported ISIS," says Shema. "They were brainwashed. Even the children were taught to kill. If security was present, then we could go home. But in Qaraqosh there is no justice, no law to protect us."
Many Iraqi Christians fear the law will never protect them. ISIS, they feel, is just one of many extremist groups that have threatened non-Muslims since the U.S. toppled Saddam Hussein in 2003. Before the American invasion, there were roughly 1.5 million Christians in Iraq. Since then, their numbers have dwindled to 500,000. Most, such as Shema, are now living in displacement camps in Iraq's semiautonomous Kurdish region. The conditions are cramped but adequate, in part because the plight of Iraq's Christians has become a cause for faith-based charities across the world.
Yet for Shema, life in the refugee camp is a form of purgatory--his home will forever be Qaraqosh, even if he doesn't know when he can live there again. He's visited once--briefly--since ISIS pulled out. All his furniture had been stolen, and there was ash covering the floor. In the front garden, his flower beds had disappeared, and there was a gaping hole where Iraqi troops had dug up an IED.
"It was a great shock," he says. "[ISIS] destroyed everything."

Conferenza a Bruxelles sul futuro dei cristiani nella Piana di Ninive. Ma il Patriarcato caldeo non partecipa

By Fides

Il Patriarcato caldeo non prende parte alla Conferenza convocata per oggi mercoledì 28 giugno a Bruxelles, presso il Parlamento Europeo, e dedicata al futuro dei cristiani nella Piana di Ninive e nelle terre del nord dell'Iraq appena sottratte al controllo dei jihadisti dell'autoproclamato Stato Islamico (Daesh).
 In una nota, diffusa la scorsa settimana, il Patriarcato caldeo ha motivato la sua decisione ricordando, tra l'altro, che “il futuro dei cristiani è legato al futuro di tutto il popolo iracheno”, del quale i cristiani iracheni sono parte integrante. Quindi è opportuno riflettere sul destino della presenza cristiana in Iraq insieme alle autorità e alle altre componenti sociali della propria nazione, piuttosto che organizzare presso istituzioni straniere tali momenti di approfondimento e mobilitazione. Se Paesi e istituzioni occidentali vogliono aiutare i cristiani in Iraq – si legge nella nota – possono farlo sostenendo la lotta al terrorismo e la ricostruzione del Paese, così da favorire anche i profughi cristiani che vogliono tornare alle proprie terre d'origine. Il Patriarcato caldeo richiama anche le tante sigle e micro-formazioni politiche cristiane locali a farsi carico delle proprie responsabilità, evitando di inseguire ipotesi politiche fantasiose e irrealizzabili. 
Già all'inizio di maggio, come documentato dall'Agenzia Fides (vedi Fides 6/5/2017) il Patriarca caldeo Louis Raphael Sako aveva diffuso una lettera in cui suggeriva ai cristiani di non chiudersi in trincea e di non farsi abbagliare da proposte irrealiste e intempestive. In quell'occasione, il Patriarca sembrava alludere in particolare alle ipotesi – rilanciate anche di recente da politici cristiani iracheni – di istituire nel nord dell'Iraq aree protette riservate alle minoranze etnico-religiose – comprese quelle cristiane – dotandole di autonomia amministrativa o addirittura sottoponendole a garanzie e sistemi di protezione internazionali.
Alla conferenza di Bruxelles sul futuro dei cristiani in Iraq, organizzata soprattutto grazie all'impegno del parlamentare europeo Lars Adaktusson, esponente del Partito cristiano democratico svedese, prendono parte rappresentanti di diverse sigle e organizzazioni politiche irachene animate da militanti cristiani. Nel contempo, altre formazioni politiche di matrice cristiana, come l'Assyrian Democratic Movement, nei giorni scorsi avevano confermato ufficialmente la loro decisione di boicottare l'ncontro, la cui impostazione, a loro giudizio, appariva orientata a sostenere una più incisiva preponderanza sulla Piana di Ninive da parte della leadership curda che regge la Regione autonoma del Kurdistan iracheno.


22 giugno 2017 
Baghdadhope
Dichiarazione della chiesa caldea sulla conferenza di Bruxelles del 28 giugno 2017


26 giugno 2017
Assyrian International News Agency
Assyrian Groups to boycott EU Conference on future of Niniveh Plains

27 giugno 2017

Ninive chiama Bruxelles. Manca un novello profeta Giona

Gianfranco Marcelli

«La vostra presenza è un pugno in faccia a chi è convinto che l'Occidente è morto e l'Europa è fallita. E qui, vi assicuro, sono in tanti a pensarlo». Questa confidenza veniva fatta nell'aprile di un anno fa dal Patriarca cattolico caldeo, Louis Raphael Sako, a una delegazione italiana in visita a Erbil, Kurdistan iracheno, dove si concentrava gran parte dei cristiani fuggiti quasi due anni prima dalla piana di Ninive, dopo la conquista di Mosul da parte dell'Isis. Ad ascoltarlo c'erano tra gli altri i vescovi italiani Francesco Cavina (Carpi) e Antonio Suetta (Ventimiglia), assieme al responsabile di Aiuto alla Chiesa che soffre, Alessandro Monteduro.
Neanche due mesi prima, in febbraio, il Parlamento europeo aveva approvato all'unanimità una mozione che marchiava come "genocidio" la sistematica persecuzione delle minoranze religiose nel territori che dal 2014 formavano il "califfato" del Daesh. Un gesto politico solenne, quello di Strasburgo, al quale tuttavia non erano seguiti grandi iniziative concrete. È vero, nel maggio seguente, il presidente dell'Esecutivo di Bruxelles, Jean-Claude Juncker, aveva nominato il commissario all'Istruzione, lo slovacco Ján Figel', inviato speciale «per la promozione della libertà di religione e di credo al di fuori dell'Unione». Ma nonostante il forte impegno personale, la sua prima vera missione in loco si è potuta realizzare solo il 1° marzo di quest'anno.
Insomma, tempi lenti, mentre per fortuna con ben altri ritmi andava avanti l'azione umanitaria di sostegno di organizzazioni come Aiuto alla Chiesa che soffre. La quale ora prova a rilanciare in grande stile, dopo aver proposto un vero "Piano Marshall" per il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive. Il progetto è già partito e i primi cantieri sono aperti da metà maggio. Prevede la ricostruzione di oltre 12mila abitazioni e comporta una spesa di 230 milioni di euro. Nei giorni scorsi l'iniziativa è stata presentata agli ambasciatori dei Paesi dell'Unione presso la Santa Sede e i primi segnali di attenzione ci sono. L'Ungheria ha già stanziato due milioni di euro. La Polonia sembra stia muovendosi. E a inizio autunno Acs spera di poter promuovere a Roma una "conferenza" di donatori, che produca il colpo di reni necessario.
Quello che ancora non si vede è una reale mobilitazione unitaria del Vecchio continente, che sulle rive dell'Eufrate tutti attendono con ansia, come lo stesso Figel' ha potuto verificare di persona, constatando che, a differenza degli Stati Uniti, contro l'Europa non c'è ostilità preconcetta. Ma c'è quello scetticismo di fondo confidato dal Patriarca Sako, da dissipare certo con l'impegno economico, ma soprattutto con una presenza costante, visibile e duratura. Il nodo è anzitutto culturale e geopolitico. A tre anni dalla conquista di Mosul da parte dei tagliagole di al-Bagdhadi, tre anni contrassegnati da un immobilismo diplomatico deprimente, la Ue deve capire che non avrà molte altre occasioni per accreditarsi come un'entità credibile e significativa, proprio adesso che l'ora della liberazione della città sembra scoccata.
Più o meno ventisette secoli fa, un profeta biblico dal carattere riottoso e irascibile, di nome Giona, rifiutò fino all'ultimo di obbedire al comando divino di predicare a Ninive. Dopo peripezie marittime con tanto di tempesta e "soggiorno" nel ventre di un grosso pesce, si convinse infine ad annunciare nella capitale degli Assiri che una catastrofe incombeva sul popolo. Con sua sorpresa – in verità con suo scorno – la predicazione fu accolta, i niniviti fecero penitenza e la città si salvò. Viene da pensare che forse oggi anche Bruxelles avrebbe bisogno di una forte voce profetica, capace più che di minacciare, di richiamare al dovere di far rinascere un grande sogno. Prima che sia troppo tardi.

Leader cattolico: la liberazione di Mosul dall’Isis è vicina. Poi la ricostruzione

By Asia News

La liberazione di Mosul dalle milizie dello Stato islamico (SI, ex Isis) che nel giugno 2014 hanno assunto il controllo della città “sarà completata entro i prossimi giorni”, perché al momento “restano solo poche aree” presidiate dall’ultimo bastione jihadista. È quanto afferma ad AsiaNews Duraid Hikmat Tobiya, cattolico, già consigliere per le minoranze del governatorato di Ninive e membro della Hammurabi Human Rights Organization, che prefigura una riconquista a breve della ex roccaforte del “Califfato”. Al momento vi sono poche centinaia di uomini, al massimo 350 combattenti [stime dell’esercito irakeno, ndr] concentrati nella Città Vecchia. “Vi è un notevole grado di distruzione - aggiunge il leader cristiano - soprattutto nel lato destro. Ma con l’infuriare della battaglia, il timore è che vi possano essere nuovi, e gravi danni alle infrastrutture”.
Il leader cattolico è in contatto con le fonti (per le quali chiede l’anonimato) che sono rimaste a Mosul per tutto il periodo in cui la metropoli del nord dell’Iraq è rimasta sotto il dominio di Daesh [acronimo arabo per lo SI]. Il timore, spiega, è che nello scontro finale fra jihadisti e coalizione arabo-curda “possano morire molti civili innocenti”. Ad oggi, aggiunge, “vi sono fino a 100mila persone sotto assedio, la maggior parte delle quali donne, bambini e anziani” che vengono usati dai miliziani fondamentalisti “come scudi umani” per coprirsi la fuga.
Nel fine settimana i miliziani dello Stato islamico (SI) hanno lanciato una contro-offensiva, per rispondere ai crescenti attacchi della coalizione arabo-curda che, dopo aver liberato il settore orientale di Mosul, ora punta al controllo completo della città. I jihadisti hanno dislocato un gran numero di kamikaze in alcuni punti strategici, pronti a farsi esplodere. Testimoni locali sottolineano che, a dispetto dei tentativi di opposizioni la sconfitta finale si fa sempre più vicina.
Gli scontri hanno interessato i distretti occidentali di Al-Tanak, Rajm Hadid e Al-Yarmouk, provocando morti e feriti. L’avanzata dell’esercito è rallentata dai cecchini, in grado di colpire anche al buio grazie all’uso di visori notturni. Tuttavia, secondo quanto affermato alti ufficiali irakeno da una “prospettiva militare” lo Stato islamico “è finito”. I timori maggiori riguardano la sorte dei civili, ancora intrappolati dietro le linee jihadiste con poco cibo, medicinali e acqua a disposizione. Il numero degli sfollati ha superato quota 800mila.
Musulmani e cristiani fuggiti dalla città condividono le medesime difficoltà e preoccupazioni, spiega Duraid Hikmat Tobiya, cui si aggiungono le devastazioni, lo sfollamento e la mancanza di lavoro. “Il futuro di Mosul - aggiunge - è ancora assai vago. Aspettiamo la liberazione completa, per vedere ciò che accadrà. La priorità resta però la ricostruzione, di modo che la gente possa tornare e riprendere le proprie attività di un tempo”. Secondo il leader cattolico è ancora presto per parlare di “piena coesistenza pacifica” fra i fedeli delle due religioni, anche perché “l’ideologia estremista permea una parte della popolazione” e anche con la sconfitta dell’Isis i timori di nuove violenze non saranno dissipati. In questo senso è compito delle autorità centrali a Baghdad adoperarsi per sradicare queste sacche di fondamentalismo. E sarà possibile farlo valutando “i sermoni del venerdì nelle moschee” e colpendo quanti predicano odio e divisioni. A questo si aggiunge la modifica dei curriculum scolastici, “perché - conclude - non vi può essere coesistenza senza un cambiamento radicale del pensiero, eliminando alla radice l’ideologia che Daesh ha instillato nelle menti delle persone, soprattuto i giovani, negli ultimi tre anni”.
Intanto nell’area di Mosul liberata dall’offensiva arabo-curda - in cui permangono i segni delle gravi e sistematiche violenze compiute dallo SI - la popolazione musulmana ha festeggiato per la prima volta senza la minaccia jihadista la festa di Eid al-Fitr per la fine del Ramadan. I bambini (nella foto) si sono riversati nelle strade e piazze del settore orientale; alcuni di loro hanno festeggiato con riproduzioni di pistole e fucili, gli unici “giocattoli” ammessi sotto il Califfato, mentre altri ne hanno approfittato per rispolverare i vecchi balocchi.
Da Mosul parte infine un appello alla comunità internazionale per la ricostruzione del minareto pendente [la “Hadba”] che affiancava la moschea di al-Nouri, devastata nei giorni scorsi dallo SI durante gli scontri con l’esercito irakeno. Promosso dal popolare blogger Mosul Eye, che da tempo racconta in forma anonima la vita sotto il Califfato, l’appello spiega che “far rinascere il minareto di al-Hadbaa” vuol dire al tempo stesso “rilanciare l’identità di Mosul”. Il minareto rappresenta un patrimonio “culturale e umano” per tutto il popolo della città, cristiani e musulmani; la sua distruzione ha rappresentato “la distruzione della nostra identità umana”. Una sua ricostruzione costituirebbe un segnale di “attenzione” della comunità internazionale per le sorti della regione e una dura risposta “contro il terrorismo che ha distrutto un patrimonio umano”.

Mosul Eye
Revive Mosul’s identity – Rebuild Al-Hadbaa

26 giugno 2017

Assyrian Groups to Boycott EU Conference on Future of Nineveh Plains


Three Assyrian political parties and the Chaldean Church in Iraq have announced their boycott of a conference to be held in the EU Parliament in Brussels. The conference, titled A Future for Christians for Iraq and organized by EU parliamentarian Lars Adaktusson from the Swedish Christian Democratic Party, has been touted by Adaktusson as a decisive event for the survival of Assyrians in the war torn country.
The Chaldean Catholic Church announced it will boycott the conference in a statement posted on its official website on Thursday. Boycotts were also announced by the Abnaa al Nahrain Assyrian political party, the Assyrian Patriotic Party and the Assyrian Democratic Movement (ADM), the largest Christian Political Party in Iraq.
In a four page letter sent to Mr Adaktusson, which AINA has examined, ADM explained the reasons for its decision not to attend the conference. ADM has also issued a public statement in its decision to boycott the conference. The objections of ADM expressed in the letter are shrouded in diplomatic language yet amount to a scathing critique of the way the conference has been prepared. According to ADM, the conference is set up in a way that makes it inherently pro-Kurdish and pro-Kurdish Regional Government. ADM is indirectly accusing the organizers of giving support for greater Kurdish control of the Nineveh Plains. Most of the critique centers around a policy document outlining the steps to be taken in regard to the future of the Nineveh Plains. The policy document is expected to be formally adopted at the conference, and ADM points out several serious flaws in it.
According to ADM the security arrangement proposed in the policy document will revert the security situation in the Nineveh Plains back to the disastrous reality that existed prior to ISIS, when the area was controlled by the Kurdish peshmerga, Iraqi army units and local forces loyal to the KDP political party headed by the president of the Kurdish led region, Massoud Barzani. ADM is also critical of the lack of time frame for when the inhabitants of the Nineveh Plain will decide on the future alignment of their region, stating that:
Any elections, and by extension any decisions, about what governmental structure the Nineveh Plains falls under are illegitimate until a period of time has passed whereby demographics are restored to some approximation of the average between 2005 and pre-ISIS 2014 levels. Without any sequencing and timeline for certain conditions to be met, the policy document enables the agenda of those seeking to control our political, social and economic future by compelling our people to make decisions when we are at our weakest and most vulnerable. We need the European Union to provide a shield against such pressures, not assist in enabling them.
Apart from criticism against the policy document, ADM also raises issues concerning the structure and preparation of the conference. The party accuses Lars Adaktusson and his staff of intentionally excluding certain political representatives and NGOs, stating in the letter "There are many NGOs which have been excluded whose participation is necessary to properly reflect the diversity of views and discourses in our people whereas the current invitation list preferences some voices over others."
ADM proposed to the conference that it discard the policy document in favor of a joint agreement reached between the majority of the Assyrian political parties in Iraq on March 6 of this year, and to adjust the list of invited representatives and NGOs to better reflect the diversity of views among the Assyrians. In his reply to The Assyrian Democratic Movement, Lars Adaktusson regrets the decision of the ADM to boycott the conference and admits that the non participation of a major actor will raise questions about the legitimacy of the conference. Adaktusson doesn't however show a willingness to address the issues raised by ADM.

Patriarcato Caldeo
22 Giugno 2017
Dichiarazione della chiesa caldea sulla conferenza di Bruxelles del 28 giugno 2017

Il Kurdistan è libero dal Daesh ma non dalla paura del futuro

By Avvenire
Sara Lucaroni

Ci si sono ritrovati a vivere insieme, come prima, cristiani, yazidi, turcomanni, shabak, tutte le minoranze: Avro City sono 20 edifici gialli tirati su nel 2007, una lottizzazione senza geometria alle porte di Douhk. Ismael, cristiano ortodosso, indica il suo palazzo e ne va fiero. È un triangolo coraggioso il governatorato di Dohuk: avamposto dei fuochi turchi, dei gorgoglii dell’Iran, delle fluttuazioni di Baghdad, della Siria sconvolta e denudata. Il futuro della regione autonoma del Kurdistan, che il 25 settembre voterà per l’indipendenza, si gioca anche sulle minoranze, non solo sull’orgoglio della “curdità”.
Dall’estate 2014, le province hanno accolto tra i loro 4 milioni di abitanti due milioni di sfollati da Ninive, Mosul e Sinjar. Ora Daesh è un serpente che dai sobborghi di Kirkuk arriva a Baaij, ha la spina dorsale rotta ma morde e uccide. I peshmerga del presidente Masoud Barzani e l’esercito iracheno presidiano e avanzano, le varie milizie fanno gli interessi dei loro ispiratori. Il fronte è ora nord-ovest, oltre Mosul che in questi giorni sta per essere totalmente liberata, compresa la citta vecchia dove il Daesh è asserragliato. È già il dopo Daesh. Ismael ha 60 anni, vive con moglie, figlio, nuora, nipoti, tutti sfollati di Sinjar. Ha messo in piedi un ristorante: «Noi siamo stati fortunati ma non dimenticherò quel che abbiamo lasciato».
Dal secondo piano in cui vive Ismael, scende Myriam. Suo marito è morto poco tempo fa per un incidente. Piange. Lei il futuro non lo vede. «Se sarà chiaro quale autorità governerà sulle nostre vecchie case, le minoranze non avranno problemi a convivere come prima», spiega Ismael. Nello stesso istante a Erbil il patriarca Louis Raphaël I Sako presiede l’incontro dei vescovi caldei sull’appello all’unità della componente cristiana di fronte alle scelte politiche e nel dialogo con le istituzioni. Istituzioni che per i cristiani assiri del partito Abnaa al Nahrain, i “Figli della Mesopotamia”, spezzano col referendum i tempi (e i fili) con Baghdad e la comunità internazionale: prima tornino a casa gli sfollati. È il pensiero di molti. Poco più di sei mesi fa l’esercito iracheno e quello dei peshmerga liberavano Bartella, Qaraqosh, Bashiqa, Batnaya, Baqofa, Karamlis, Telkeif, Teleskoff e si facevano fotografare mentre rimettevano le croci sui tetti delle chiese.
Gli altari sono vivi, si lavora col cuore, i simboli sono tornati prima delle 12mila famiglie sfollate e dei 200 milioni di dollari che servirebbero alla ricostruzione. Qualcuno, grazie a Ong e reti solidali, è tornato o si prepara a tornare. Ma la Piana, che non è Kurdistan e neppure più Iraq, è senza controllo e l’identità della minoranza è stata il primo fattore del de- stino scelto per ognuna da Daesh: va ricostruita la fiducia, appianati i presunti tradimenti.
«Siamo confinanti e abbiamo avuto un destino simile con i cristiani, ora dovremmo avere il controllo diretto delle nostre provincie, Ninive e Shin- gal, come prevede l’art. 140 della Costituzione » spiega il principe Breen Thasen, con il padre guida politica della comunità yazida. Niente è facile: i 30mila a Sinjar denunciano tentativi di «curdizzazione», e il restante è sfollato Turchia, in Siria, in Grecia, in Germania, in Canada. Il riconoscimento del genocidio da parte della comunità internazionale aprirebbe alla creazione di un’area autogestita e sotto protettorato.
Mentre Breen snocciola le cifre sugli orfani (sono 2.700) da un hotel di lusso ad Erbil, la disperazione del premio Sacharov, Nadia Murad, che per la prima volta entra nella casa a Kojo dove fu rapita, fa il giro del mondo. Poche ore e via di nuovo in Europa. È tra gli ultimi villaggi liberati il suo, mentre a Sinjar città, presidio di retrovia sul Daesh in fuga, le poche famiglie rientrate fanno i conti con l’assenza di servizi e le bombe artigianali. Sulla montagna, la vivacità delle attività commerciali di Sinuni, lungo la strada principale, naufraga sulle case povere dei pastori. Resiste anche il grande campo dentro la valle più alta, dove tra le 10mila famiglie, qualcuno ha dismesso la tenda per costruirsi la casa.
Ci sono divisioni. Anche le zone sono divise tra i gruppi combattenti curdi in lotta, come i Pkk-Ypg e i peshmerga siriani Rojava. Ora anche la milizia sciita di Hashd al-Shaabi recluta gli yazidi. «È la terza forza di terra nella liberazione di Ninive e Mosul, e poche settimane fa era entrata nei villaggi a sud-est, Kojo compreso» spiega il principe, ricordando come l’accoglienza degli sfollati non cancelli l’idea che si sia consumato un tradimento sulla pelle della sua comunità.
«Daesh ha ucciso oltre 1.400 shabak», dice uno dei capi della comunità che contava a Ninive 60mila persone, suddivisi tra sunniti e sciiti. Il 35 per cento di Bartella era shabak, ma è nata una diffidenza sul loro presunto appoggio alle truppe paramilitari sciite arrivate dopo la liberazione. «La nostra sorte viene ignorata, dai tempi di Saddam Hussein. Noi vivremo con tutti se il governo centrale assumerà il controllo della zona» incalza, accomunando la necessità di un sostegno più corposo a quelle di un’altra minoranza, i Kakai.
Curdi, templi distrutti, 250mila persone in Iraq, la necessità di un riconoscimento religioso effettivo. A Beshir, tutta macerie, 700 turcomanni sciiti sono stati massacrati dai jihadisti, e nella vicina Amerli in migliaia furono assediati. Le ragazze, come quelle yazide, vendute. Kirkuk, di cui si discute l’annessione alla regione autonoma del Kurdistan alla luce del referendum, è la loro capitale. «Non abbiamo problemi di convivenza, ci hanno difesi e ci hanno ascoltato. Ora vorremmo avere più peso nelle decisioni politiche» argomenta chiusa nel suo ufficio al Parlamento curdo Duna Nani Kahveci, vice presidente del Turkman Reform Party. Nella vicina Suleymaniyah, dai campi di Ashti 1 e Ashti 2 non si vede l’immensa vela di vetro dell’hotel Grand Millennium, ma il via vai della statale verso l’Iran. Le minoranze sono divise in settori, in 10mila vivono secondo geometria: yazidi, sunniti, cristiani, sciiti e le regole formali del vicinato.
Lo sa il patriarca Nicodemus Daoud Matti Sharaf, vescovo metropolitano della chiesa siriano ortodossa, che si infervora: «Qui si parla l’aramaico, la lingua di Cristo, le radici di ogni comunità vanno protette ad ogni costo – afferma –. Se la legge ci proteggerà sarà possibile vivere con chiunque come sempre: musulmani, yazidi, tutti. Della sicurezza si occupino Onu, Europa, Usa, le potenze vicine. Servono garanzie. Servono radici robuste».

Ecco i numeri del dramma degli yazidi

La battaglia di Mosul ha restituito pochissimi prigionieri alle famiglie sfollate nei campi e nelle città del Kurdistan iracheno. Ma grazie ad attivisti, Organizzazioni non governative e il Comitato istituito dal governo regionale per indagare sulle stragi e censire le vittime del genocidio, le cifre aggiornate e soprattutto i nomi delle vittime danno un contorno sempre più netto ai crimini di Daesh contro la minoranza yazida: 340.000 gli sfollati dall’area di Sinjar, 60.000 quelli dall’area di Bashiqa, a Ninive. Ben 1.300 uccisioni in un solo giorno, 6.417 i8 prigionieri e 3.001 persone liberate. Sono invece 2.745 minori rimasti orfani di uno o entrambi i genitori. Trentatré le fosse comuni scoperte alle porte dei villaggi con una media di 35-40 cadaveri. I luoghi sacri e i templi distrutti sono 70, mentre 80.000 yazidi hanno lasciato in questi tre anni l’Iraq settentrionale.

La secessione: il compito a tre comitati elettorali di sondare le nazioni confinanti

La domanda a cui gli elettori risponderanno con «Sì» o «No» è riportata sulla scheda di voto in lingua curda, araba e turkmena sarà: «La Regione del Kurdistan e le aree curde al di fuori dell’amministrazione della regione dovrebbero essere un Paese indipendente?». Il prossimo 25 settembre la regione autonoma del Kudistan deciderà sulla sua indipendenza dall’Iraq, un progetto politico ora accelerato dalla necessità di rivedere gli equilibri regionali politico-etnici all’indomani della sconfitta di Daesh. Dopo la riunione straordinaria a cui hanno preso parte i maggiori partiti della regione, il Pdk del presidente Massoud Barzani, il Puk di Jalal Talabani e il Gorran, il cui leader è recentemente scomparso, è stata decisa la creazione di tre comitati elettorali che avranno il compito di sondare il terreno con i paesi confinanti, in primis Turchia e Iran. Per il 6 novembre invece sono state fissate le elezioni parlamentari. Tra le questori più complesse legate alla consultazione referendaria c’è quella sui confini: annettere o meno Kirkuk, strappata a Daesh dai peshmerga e in cui ancora si combatte, e la provincia di Ninive, esclusa Mosul, riconquistata negli ultimi mesi.

Contro il rimpatrio forzato di rifugiati iracheni

23 giugno 2017

Dimostrarsi coerenti con la grande vocazione degli Stati Uniti che hanno sempre saputo dare protezione a quanti fuggono dalla persecuzione religiosa: è quanto chiedono i vescovi statunitensi che in una lettera indirizzata al segretario per la Sicurezza interna, John Francis Kelly, intervengono formalmente sul paventato rimpatrio forzato in Iraq, soprattutto dal Michigan e dal Tennessee, di numerosi cattolici caldei che si sono macchiati di crimini più o meno gravi e per i quali hanno già scontato le pene loro inflitte. Una questione da diversi giorni già sul tappeto e che ha suscitato molto clamore nella comunità caldea in nord America ma anche nello stesso Iraq.
Nella lettera si chiede di sospendere il provvedimento di espulsione almeno fino a quando la situazione politico-militare nel paese mediorientale non si sarà stabilizzata e il governo di Baghdad non sarà in grado di garantire il rispetto della libertà religiosa.
Il documento è firmato dal presidente dell’episcopato, il cardinale arcivescovo di Galveston-Houston, Daniel N. DiNardo, insieme ai presuli responsabili della Commissione episcopale per le migrazioni, Joe Steve Vásquez, e del Comitato giustizia e pace internazionale, Oscar Cantú.
Nel testo si esprime appunto «grave preoccupazione» per la sorte di alcuni cristiani, soprattutto cattolici caldei, che in Michigan e in Tennessee sono stati indicati come destinatari di provvedimenti di deportazione. «La restituzione delle minoranze religiose all’Iraq, senza particolari piani di protezione, non sembra coerente — avvertono i vescovi — con le nostre preoccupazioni riguardo al genocidio e alla persecuzione dei cristiani in Iraq». In tale prospettiva, l’episcopato statunitense sollecita il segretario per la Sicurezza interna, Kelly, a «esercitare il potere discrezionale di cui avete diritto per rinviare la deportazione delle persone in Iraq, in particolare i cristiani e i cattolici caldei, che non costituiscono minacce alla sicurezza pubblica statunitense fino a quando la situazione in Iraq non si stabilizza e il suo governo si dimostrerà disposto e capace di proteggere i diritti delle minoranze religiose».


Indipendent Catholic News
June 22, 2017

US Bishops urge authorities not to deport Christian refugees fleeing persecution

23 giugno 2017

"The Christians of Iraq return good for evil, and have no desire for revenge"

By Rome Reports


Jumana arrived in Baghdad when the self-proclaimed Islamic State began to sow terror throughout Iraq. During her time in the country, she has seen firsthand the unshakable faith of Iraqi Christians.

Jumana Trad: President, Fundación Promoción Social de la Cultura
"There is a saying in Iraq: 'They throw stones at us and we throw bread at them. ' It means that they always return good for evil, and the truth is that I have been able to see it with my own eyes. The Iraqi Christian is a Christian. A Christian does not seek revenge on anyone. This is how they are."
She has also seen the example of the Missionary Sisters of the Sacred Heart of Jesus, who had to flee persecution from the jihadists in Mosul. Now, they have returned to Baghdad to open a medical clinic that helps Muslims and Christians in a country where terrorism is an almost daily occurance.
"Iraq is the country most affected by terrorism. In 2016 alone, 17,000 people died of terrorist attacks. In a city like Baghdad, every day there is an attack."

One of the most terrible was in the shi'ite district of Karrada, where these sisters give refuge to families in their school. Here last year, a car bomb killed 300 people in this mall. At the end of May of this year, another attack claimed by ISIS killed almost 20 people in an ice cream parlor. This group of Christians prayed a few days ago at the scene of the attack. They did it for peace and for their country, which has been immersed in an intermittent war since the late 1970s.
Jihadism, war and economic precariousness have led to the exodus of hundreds of thousands of Christians from this land, evangelized by Thomas the apostle in the first century. It is estimated that in 2003, there were about one million Christians in Iraq. Today there are no more than 200,000.
"A lady from the parish told me she had a total of 600 in her family. Now there are three. But I am still optimistic, because I have lived through the war in Lebanon, where many people also left, and then many have returned. Now that there is more peace, and people - if they do not return - continue to help rebuild the country from their new country."

Just as Jumana is doing, the Fundación Promoción Social de la Cultura, an NGO that has been providing support in the Middle East since 1987, is providing special strength now with the two on-going crises in Syria and Iraq.
They do so by helping persecuted Christians in places like the Virgin Mary Camp in Baghdad or those victims of the Syrian war in places like Zaatari in Jordan, one of the largest refugee camps in the world.

Iraqi Christians should not be deported to become victims of ISIS

By The Hill
Bawai-Soro* op-ed
June 15, 2017

In 1939, the Cuban government, and then the U.S. government refused entry to hundreds of Jewish refugees fleeing Germany. They were forced to return to Europe, and many perished in the Holocaust.
The story of the S.S. St. Louis – popularly known as the “voyage of the damned” – remains one of the darkest episodes of the Roosevelt administration. And it should serve as a cautionary tale for the Trump administration today.
It has been eight decades since the United States returned refugees facing genocide to countries where they might perish in it. Now, we are about do so again.
As many as 300 Iraqi Christians are slated for deportation to Iraq, some as early as this week. They would return to a country where they face genocide.
Though the circumstances differ somewhat from those in 1939, what our country stands on the cusp of doing is, in many ways, even worse. In 1939, we refused entry to people fleeing Hitler. We did not forcibly return them to Germany. Upon their return to Europe, the passengers went to many countries such as Belgium, France and Britain. Of course, two of those countries subsequently fell to the Nazis, who continued persecuting – and in many cases killing – those who had fled in 1939 and could have had been saved had the United States admitted them.
History has never forgiven us.
In this case, the government has stated that it plans to deport individuals who live in the United States and are members of a tiny religious group facing genocide in their home country.
That Christians face genocide in Iraq at the hands of ISIS has been well documented. Both houses of Congress unanimously declared this last year. So did the secretary of state on March 17, 2016. And so have both the president and the vice president when speaking at prayer breakfasts this year.
God only knows who gave this specific order. Whether it is the “deep state” at work, or a political order, however, the effect remains the same. The American government, for the first time ever, is about to deport to a country undergoing an active genocide the very people targeted in that genocide.
When many of those being threatened with deportation came to America, Iraq had a strong Christian population of 1.5 million. Today, only 200.000 remain, and many of them are living as refugees. We are not returning these Christians to the country they knew, we are returning them to a post-apocalyptic situation in which Christian towns, villages and neighborhoods have been totally destroyed by ISIS.
No one, Christian or otherwise, should be forced to return to a country with an ongoing genocide that targets them specifically. And yes, ISIS is still in Iraq, and yes, it is still killing religious minorities. In fact, it executed almost twenty women from a religious minority just this month.
And ISIS has not been shy about targeting Christians. It has recently referred to us as its “favorite prey,” and urged the destruction of Christianity on the cover of its magazine less than a year ago.
The Trump administration should find a solution that does not include returning people to a country with an ongoing genocide targeting them. It should do this not because the Iraqi Christian community supported the president and was the margin of victory in Michigan. It should do this because it is the right thing to do.
Several months ago, I was one of the few voices that spoke out publicly in support of President Trump’s executive order on immigration. I understand, as I wrote then, how important it is to keep Americans safe.
Having grown up in Iraq, and having come here as a refugee myself, the impulse to protect this country from the kind of violence so prevalent in the land of my birth has long struck a chord with me. It still does.
It also strikes a chord with many in the Iraqi Christian community. Our community knows what happens when terrorists overrun a country. We know what happens when they hate us for our faith and try to exterminate us. Many of us came here to avoid just that.
It is precisely for this reason that I believe the administration must stop the deportation back to Iraq of Christians now living in the United States. We have a duty to keep those in this country safe from terrorism. We have an even greater duty when we know they are the specific targets of that terrorism. 
The world needs American leadership in promoting human rights and combatting terrorism. This deportation would violate every principle of protecting the victims of the genocide, the “crime of crimes.” It would also be a win for ISIS, as we send their “favorite prey” back to them.

* Most Rev. Bawai Soro is a bishop of San Diego's Chaldean Catholic Diocese of St. Peter.