“Baghdad ha perduto la sua bellezza e non ne è rimasto che il nome.
Rispetto a ciò che essa era un tempo, prima che gli eventi la colpissero e gli occhi delle calamità si rivolgessero a lei, essa non è più che una traccia annullata, o una sembianza di emergente fantasma.”
Ibn Battuta
"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."
Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014
Baghdad, 19 luglio 2014
29 novembre 2006
La Chiesa Caldea ed il suo rito nel Viaggio Apostolico di Sua Santità Benedetto XVI in Turchia (28 novembre - 1 dicembre 2006)
Fonte: Sito Ufficiale del Vaticano
Il viaggio del Santo Padre Benedetto XVI in Turchia è un viaggio pastorale, ecumenico ed all’insegna del dialogo con il mondo islamico. In quanto pastorale esso prevede l'incontro con le diverse comunità cattoliche del paese tra le quali è quella caldea:
Un viaggio pastorale
La Chiesa cattolica di Turchia, nelle sue espressioni rituali diverse (latina, armena cattolica, siro cattolica, caldea) costituisce una piccola minoranza all’interno di un mondo musulmano prevalentemente sunnita. In continuità con l’apostolo Pietro che da Roma indirizzò una lettera (1 Pietro) alle comunità cristiane in diaspora dell’attuale Turchia, anche il suo successore s’indirizza alle stesse comunità facendo ad esse dono, non solo della sua parola, anche della sua presenza. Pietro invitava i cristiani di queste terre “a dare ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15). Nel presente momento storico, che ha visto il sorgere e l’affermarsi di forme d’intolleranza religiosa, Papa Benedetto XVI, mediante l’annuncio della Parola e la celebrazione dei Sacramenti, viene a confermare la comunità cattolica di Turchia nella fedeltà a Cristo e nella speranza in Lui.
Le celebrazioni dell’Eucaristia con i fedeli cattolici di Turchia sono due. La prima ha luogo presso il santuario mariano nazionale di Meryen Aria Evi (Casa della Madre Maria), ad Efeso, città in cui il concilio del 431 proclamò la sua divina maternità, ma anche dove ‑ secondo una pia tradizione ‑ Maria sarebbe vissuta per un certo tempo insieme con San Giovanni. Il santuario è punto d’incontro e di preghiera per cristiani e per musulmani che in Maria riconoscono la madre sempre vergine di Gesù eletta da Dio per il bene dell’umanità.
La seconda celebrazione Eucaristica ha luogo il 1° dicembre ad Istanbul nella Chiesa cattedrale dello Spirito Santo. La partecipazione alla Santa Messa in rito latino di una rappresentanza delle comunità cattoliche di Turchia appartenenti ai diversi riti orientali è sottolineata dalla presenza di espressioni rituali proprie di ciascun Rito.
Il libro liturgico del viaggio
La celebrazione nella Cattedrale dello Spirito Santo (1 dicembre 2006)
La celebrazione nella Cattedrale di Istanbul ha una dimensione pneumatologica esplicitata dalla celebrazione della Messa votiva dello Spirito Santo. Tale dimensione è legata non solo al titolo dello “Spirito Santo” della Cattedrale ma anche dalla particolare configurazione dell’assemblea, convocata per la celebrazione, formata da vari gruppi di persone, di diverse lingue e di diversi riti, ma uniti dalla stessa fede, dalla stessa carità e dallo stesso Spirito.
La celebrazione, sia nell’uso delle lingue che di alcune sequenze rituali, vuole essere l’espressione delle varie componenti della comunità cattolica.
Il formulario della Messa è proprio dello Spirito Santo. Vengono usate le seguenti lingue: il latino, il turco, il francese, il tedesco, il siriaco, l’arabo e lo spagnolo.
Alcune sequenze rituali sottolineano la presenza dei vari riti orientali: l’armeno, il caldeo, il siro. Agli armeni è riservato: il canto d’ingresso e il Sanctus; ai caldei: il Salmo responsoriale e il canto di offertorio eseguito in lingua aramaica; ai siri: la proclamazione del Vangelo secondo le modalità del proprio rito.
La celebrazione nella Cattedrale di Istanbul ha una dimensione pneumatologica esplicitata dalla celebrazione della Messa votiva dello Spirito Santo. Tale dimensione è legata non solo al titolo dello “Spirito Santo” della Cattedrale ma anche dalla particolare configurazione dell’assemblea, convocata per la celebrazione, formata da vari gruppi di persone, di diverse lingue e di diversi riti, ma uniti dalla stessa fede, dalla stessa carità e dallo stesso Spirito.
La celebrazione, sia nell’uso delle lingue che di alcune sequenze rituali, vuole essere l’espressione delle varie componenti della comunità cattolica.
Il formulario della Messa è proprio dello Spirito Santo. Vengono usate le seguenti lingue: il latino, il turco, il francese, il tedesco, il siriaco, l’arabo e lo spagnolo.
Alcune sequenze rituali sottolineano la presenza dei vari riti orientali: l’armeno, il caldeo, il siro. Agli armeni è riservato: il canto d’ingresso e il Sanctus; ai caldei: il Salmo responsoriale e il canto di offertorio eseguito in lingua aramaica; ai siri: la proclamazione del Vangelo secondo le modalità del proprio rito.
Leggi sul sito del Vaticano il programma del Viaggio Apostolico del Santo Padre:
La Chiesa Caldea in Turchia
Fonte: Osservatore Romano su Korazim.org
Le vicende storiche dell’antica comunità caldea
sempre in comunione con il Successore di Pietro
diFrançois Yakan
Vicario Patriarcale di Diarbekir, Amida dei Caldei
Gli storici fanno risalire a 4.760 anni prima della nostra era la presenza del popolo assiro-caldeo in questa terra d’Oriente. In questa terra in continuo cambiamento gli assiro-caldei hanno conservato attraverso i secoli, anche negli anni turbolenti, le loro tradizioni e la loro lingua, l’aramaico-siriaco.
La storia della Chiesa caldea in Turchia comincia con la storia del cristianesimo. Non è dunque esagerato dire che è stata la prima Chiesa missionaria, dunque la prima Chiesa cattolica, sempre in comunione con il Successore di San Pietro, anche se in passato le sono stati attribuiti altri titoli e nomi. È stata la Chiesa che, fin dai primi secoli, ha istituito una liturgia propria per la festa di San Pietro e san Paolo.
In passato, vi sono state diverse Diocesi in Turchia, soprattutto nell’Est, e Diarbekir è stata Sede patriarcale. L’Arcidiocesi, fino al 1966, è stata presente nella Turchia orientale, a Diarbekir. A partire da quell’anno, l’Arcivescovado, a seguito degli eventi politici succedutisi nella regione, ha trasferito la sua sede a Istanbul.
La comunità caldea della Turchia ha conosciuto alti e bassi dal 1966 al 1980, e la maggior parte dei caldei dell’Est è andata in esilio all’estero. Negli otto ultimi villaggi nell’Est non è restato un solo cristiano. Attualmente la comunità nazionale consta di 1.000 fedeli, ai quali bisogna aggiungere i numerosi rifugiati provenienti da tutto il Medio Oriente, soprattutto dall’Iraq. È impossibile aggiornare queste cifre in quanto ogni settimana riceviamo decine di nuovi rifugiati spesso traumatizzati, malati, disabili, o vedove con molti figli e senza risorse. Il numero oscilla fra 3.400 e 5.600 persone, a seconda della situazione vissuta in Medio Oriente...
La situazione religiosa
Il lavoro pastorale consiste nei tre campi descritti di seguito. La catechesi dei bambini occupa il primo posto. Per i bambini di nazionalità turca da qualche anno prevediamo un percorso catechetico dalla durata di 4 anni, inter-rituale, e più specificatamente con i siro-cattolici, con la formazione di catechisti (risveglio alla fede, primo, secondo e terzo anno: preparazione alla comunione, studio biblico e formazione di animatori e animatrici). È prevista inoltre la produzione di strumenti catechetici in lingua turca.
Per i bambini dei rifugiati, sono previsti corsi per i catechisti rifugiati in lingua araba e caldea, con l’aiuto dei Padri salesiani. Ogni anno, da 30 a 40 bambini vengono preparati alla prima Comunione. Si tratta di una pastorale adattata alla situazione dei rifugiati che sono sul punto di perdere la speranza poiché si sentono dimenticati da tutti. È veramente urgente trovare soluzioni durature per i cristiani in Iraq.
Nell’insieme, i parrocchiani, che vivono in diverse zone di questa grande città di Istanbul e nella sua periferia, partecipano regolarmente in famiglia alla Messa domenicale.
Celebriamo decine di battesimi e proponiamo ai genitori e alle giovani coppie una preparazione al battesimo della durata di tre mesi, al fine di approfondire il significato del nostro battesimo e della nostra identità di cristiani oggi, in un contesto non cristiano.
Proponiamo anche ai futuri sposi una preparazione al matrimonio, per approfondire il significato di questo sacramento. Purtroppo da qualche anno si sono verificati diversi casi di divorzio. I matrimoni inter-rituali non pongono problemi enormi come in passato.
L’Associazione delle donne, che si riunisce ogni quindici giorni per pregare e ricevere un insegnamento religioso tematico (2000-2001: approfondimento del Vangelo e studio degli evangelisti; 2001-2002: Lettere di san Paolo; 2002-2003: come pregare con il Nuovo Testamento; 2004-2005: Eucaristia; 2006-2007: la carità e la vita cristiana). Abbiamo osservato una vera sete di conoscenza della cultura cristiana da parte dei nostri fedeli in Turchia.
Un anno fa l’Associazione di Aiuto ai Rifugiati è stata riconosciuta dalle autorità turche e aperta a fedeli di diversi riti al fine di soccorrere e difendere le migliaia di rifugiati dimenticati lungo le vie dell’esilio. Per ciò che concerne la collaborazione con i Vescovi di altri riti cattolici, questa avviene secondo i bisogni e in particolare nel corso delle riunioni della Conferenza Episcopale. È naturale e urgente rimettersi in discussione in tutti gli ambiti e vedere come ampliare e portare avanti la Chiesa cattolica in Turchia e adattare i modi di trasmissione della fede ai bisogni e alle mentalità dei nostri giorni, pur restando fedeli alla Sacra Scrittura in questi tempi difficili.
La situazione economica
L’edificio dell’Arcivescovado, del 1874, è stato piano piano ristrutturato. Purtroppo è stato danneggiato dal terremoto del 1999. Abbiamo nuovamente provveduto al restauro, in particolare della copertura del tetto, del sesto piano, dei canali di scolo dell’acqua e anche degli affreschi della cappella, danneggiati dalle inondazioni. Grazie ai doni dei benefattori abbiamo potuto porre rimedio ai danni provocati dal terremoto. Tuttavia nel 2003 l’attentato contro il Consolato britannico ha recato enormi danni alla nostra chiesa e al nostro edificio, e due persone sono state leggermente ferite. L’edificio è stato evacuato ed è rimasto vuoto per diverse settimane. Sono restato da solo a sorvegliare la chiesa demolita, con le sue vetrate rotte e senza protezioni e per un mese ho lavorato alla luce delle candele. Abbiamo lanciato un appello alla solidarietà e i benefattori sono venuti subito in nostro aiuto. La comunità ha preso a prestito la somma mancante per concludere il restauro della chiesa e dell’edificio.
Attualmente noi abbiamo due luoghi di culto a Istanbul: nella cripta della chiesa di sant’Antonio e nella cappella dell’Arcivescovado.
Nell’Est della Turchia la Diocesi comprende diverse antiche chiese storiche, a Diarbarik e a Mardin in particolare, con i loro titoli di proprietà. Le chiese sono però in cattivo stato e hanno bisogno di riparazioni per la salvaguardia di questo patrimonio culturale e religioso. Per tutta la Chiesa cattolica si tratta di una vera posta in gioco per il futuro.
La Diocesi non ha entrate, a parte la questua e le offerte del culto provenienti da un centinaio di famiglie. Ciò non permette neppure di pagare le spese dei due luoghi di culto, il loro mantenimento, il riscaldamento e le piccole riparazioni. Il clero fa fatica a soddisfare le proprie necessità quotidiane e non vi è neppure una previdenza sociale, un sostegno da parte di altri organismi. I parrocchiani fanno il possibile e si organizzano fra loro per soddisfare i bisogni più urgenti e ogni mese attribuiscono una somma simbolica al loro clero. L’intera gestione della Diocesi è affidata all’associazione dei parrocchiani. I conti sono gestiti da un gruppo composto da 12 persone.
La Liturgia
La vita dei nostri fedeli è scandita dalla liturgia, che rivela l’identità dei nostri popoli. Celebriamo sempre nella lingua aramaica, secondo la liturgia assiro-caldea di Addaï e Mari. Ci sforziamo di celebrare una parte della liturgia nella lingua nazionale turca. I santi e i martiri sono venerati e festeggiati come in passato. Il sacramento della penitenza è ancora praticato, ma è in diminuzione. Il sacramento dell’Eucaristia è molto seguito e la festa della Croce riveste grande importanza. Il sacramento del matrimonio è sempre più inter-rituale, il che comporta una preparazione più approfondita. Nelle Chiese orientali è raro amministrare il sacramento del matrimonio a una persona non battezzata.
La mancanza di sacerdoti non può essere colmata dai laici. Fino al 1986 la Diocesi aveva diversi sacerdoti. Con l’esodo dei fedeli, questi sacerdoti si sono recati tutti all’estero e più in particolare in Francia. Forse non è stato fatto tutto il possibile per trattenere questi cristiani a Istanbul. Non si è potuto forse aiutarli dal punto di visto sociale e finanziario.
Dal 2004 sono il solo sacerdote caldeo per tutta la Turchia e per le migliaia di rifugiati disperati che meritano più di tutti protezione e di sentirsi degni. Non riesco ad affrontare, le giornate non sono abbastanza lunghe, la pesante mole di lavoro da svolgere e sempre con urgenza. La Diocesi non ha religiosi ed è urgente che altri sacerdoti vengano qui per recare aiuto.
Una Chiesa missionaria
Si tratta di una Chiesa profondamente missionaria fin dalla sua creazione. Prima di tutto di una Chiesa profondamente cattolica, in quanto è questa Chiesa ad avere annunciato il Vangelo in Medio Oriente, in Armenia, nel Caucaso, in India e persino in Cina. Quest’anima missionaria è sempre viva, continua a donare testimonianze di fede, continua a vivere la "Via Crucis" di Nostro Signore nel tempo presente come è stato in passato. Nella liturgia le preghiere per la missione sono molto importanti.
In Turchia non abbiamo seminari, pertanto ci troviamo a volte di fronte a vocazioni che non sappiamo dove orientare. Per questo è urgente trovare un luogo di studio per queste vocazioni. Nel programma di Educazione nazionale vi è posto solo per l’insegnamento dell’islam e ai nostri bambini cristiani l’insegnamento religioso può essere impartito solo nelle parrocchie nei giorni in cui non vanno a scuola. La cultura cristiana ci manca veramente!
I laici sono particolarmente legati al loro clero. Ci mettono tanta buona volontà per collaborare con noi in tutti gli ambiti: spirituali e materiali. Danno quello che possono e servono ugualmente secondo le loro possibilità. Si è potuto costituire un comitato molto attivo composto da 12 persone. Ci riuniamo una volta al mese o di più se necessario al fine di risolvere alcuni problemi che riguardano l’insieme della Diocesi.
Con i salesiani abbiamo istituito una pastorale rivolta ai rifugiati, agli adolescenti, ai giovani. Si riuniscono ogni settimana. Noi assicuriamo loro una formazione umana e spirituale adatta alla loro età e ai loro bisogni di esiliati. Il nostro fine è di proteggerli, anima e corpo, affinché restino fedeli al loro battesimo. Una riunione di condivisione della Parola e di preparazione alla liturgia e alle celebrazioni si tiene nel centro socio-culturale dell’Arcivescovado, tutti i sabati e le domeniche. S’impartono anche corsi di lingua aramaica.
Ecumenismo
I nostri rapporti con i non cattolici sono buoni. Gli incontri e le riunioni hanno un valore simbolico e non portano a risultati significativi per avvicinare i fedeli di entrambi i credi. Se gli uomini metteranno da parte il loro orgoglio e la loro ideologia, allora l’auspicio del Nostro Salvatore "che tutti siano uno" sarà realizzato. Non è forse questo un compito urgente per i Pastori e per tutti i battezzati del terzo millennio? Di fatto è attraverso l’unità che la pace germina nei cuori degli uomini. Laddove vi è l’unità, vi sarà la pace.
Che cosa fare in futuro?
È difficile parlare del futuro, ma non bisogna incrociare le braccia. In effetti abbiamo una grande responsabilità nel vivere e lavorare in questa regione in cui il cristianesimo è nato, e nel conservare la lingua di Cristo e annunciare le Sue lodi e le Sue meraviglie.
Per questo prima di tutto occorrerebbe creare strutture in loco adatte al popolo e alla sua mentalità per salvaguardare l’identità culturale e religiosa della comunità assiro-caldea. Bisognerebbe creare un centro di accoglienza per i giovani esiliati e per quanti sono nel bisogno e un centro di irradiamento spirituale, per suscitare le vocazioni. Una volta realizzate queste opere, nascerebbe un nuovo slancio per la Chiesa assiro-caldea e per tutta la Chiesa cattolica in Turchia.
"Sia fatta la tua volontà", Signore, donaci al più presto la Tua Pace.
Una breve storia della presenza della Chiesa Cattolica Caldea in Turchia
Le vicende storiche dell’antica comunità caldea
sempre in comunione con il Successore di Pietro
di
Vicario Patriarcale di Diarbekir, Amida dei Caldei
Gli storici fanno risalire a 4.760 anni prima della nostra era la presenza del popolo assiro-caldeo in questa terra d’Oriente. In questa terra in continuo cambiamento gli assiro-caldei hanno conservato attraverso i secoli, anche negli anni turbolenti, le loro tradizioni e la loro lingua, l’aramaico-siriaco.
La storia della Chiesa caldea in Turchia comincia con la storia del cristianesimo. Non è dunque esagerato dire che è stata la prima Chiesa missionaria, dunque la prima Chiesa cattolica, sempre in comunione con il Successore di San Pietro, anche se in passato le sono stati attribuiti altri titoli e nomi. È stata la Chiesa che, fin dai primi secoli, ha istituito una liturgia propria per la festa di San Pietro e san Paolo.
In passato, vi sono state diverse Diocesi in Turchia, soprattutto nell’Est, e Diarbekir è stata Sede patriarcale. L’Arcidiocesi, fino al 1966, è stata presente nella Turchia orientale, a Diarbekir. A partire da quell’anno, l’Arcivescovado, a seguito degli eventi politici succedutisi nella regione, ha trasferito la sua sede a Istanbul.
La comunità caldea della Turchia ha conosciuto alti e bassi dal 1966 al 1980, e la maggior parte dei caldei dell’Est è andata in esilio all’estero. Negli otto ultimi villaggi nell’Est non è restato un solo cristiano. Attualmente la comunità nazionale consta di 1.000 fedeli, ai quali bisogna aggiungere i numerosi rifugiati provenienti da tutto il Medio Oriente, soprattutto dall’Iraq. È impossibile aggiornare queste cifre in quanto ogni settimana riceviamo decine di nuovi rifugiati spesso traumatizzati, malati, disabili, o vedove con molti figli e senza risorse. Il numero oscilla fra 3.400 e 5.600 persone, a seconda della situazione vissuta in Medio Oriente...
La situazione religiosa
Il lavoro pastorale consiste nei tre campi descritti di seguito. La catechesi dei bambini occupa il primo posto. Per i bambini di nazionalità turca da qualche anno prevediamo un percorso catechetico dalla durata di 4 anni, inter-rituale, e più specificatamente con i siro-cattolici, con la formazione di catechisti (risveglio alla fede, primo, secondo e terzo anno: preparazione alla comunione, studio biblico e formazione di animatori e animatrici). È prevista inoltre la produzione di strumenti catechetici in lingua turca.
Per i bambini dei rifugiati, sono previsti corsi per i catechisti rifugiati in lingua araba e caldea, con l’aiuto dei Padri salesiani. Ogni anno, da 30 a 40 bambini vengono preparati alla prima Comunione. Si tratta di una pastorale adattata alla situazione dei rifugiati che sono sul punto di perdere la speranza poiché si sentono dimenticati da tutti. È veramente urgente trovare soluzioni durature per i cristiani in Iraq.
Nell’insieme, i parrocchiani, che vivono in diverse zone di questa grande città di Istanbul e nella sua periferia, partecipano regolarmente in famiglia alla Messa domenicale.
Celebriamo decine di battesimi e proponiamo ai genitori e alle giovani coppie una preparazione al battesimo della durata di tre mesi, al fine di approfondire il significato del nostro battesimo e della nostra identità di cristiani oggi, in un contesto non cristiano.
Proponiamo anche ai futuri sposi una preparazione al matrimonio, per approfondire il significato di questo sacramento. Purtroppo da qualche anno si sono verificati diversi casi di divorzio. I matrimoni inter-rituali non pongono problemi enormi come in passato.
L’Associazione delle donne, che si riunisce ogni quindici giorni per pregare e ricevere un insegnamento religioso tematico (2000-2001: approfondimento del Vangelo e studio degli evangelisti; 2001-2002: Lettere di san Paolo; 2002-2003: come pregare con il Nuovo Testamento; 2004-2005: Eucaristia; 2006-2007: la carità e la vita cristiana). Abbiamo osservato una vera sete di conoscenza della cultura cristiana da parte dei nostri fedeli in Turchia.
Un anno fa l’Associazione di Aiuto ai Rifugiati è stata riconosciuta dalle autorità turche e aperta a fedeli di diversi riti al fine di soccorrere e difendere le migliaia di rifugiati dimenticati lungo le vie dell’esilio. Per ciò che concerne la collaborazione con i Vescovi di altri riti cattolici, questa avviene secondo i bisogni e in particolare nel corso delle riunioni della Conferenza Episcopale. È naturale e urgente rimettersi in discussione in tutti gli ambiti e vedere come ampliare e portare avanti la Chiesa cattolica in Turchia e adattare i modi di trasmissione della fede ai bisogni e alle mentalità dei nostri giorni, pur restando fedeli alla Sacra Scrittura in questi tempi difficili.
La situazione economica
L’edificio dell’Arcivescovado, del 1874, è stato piano piano ristrutturato. Purtroppo è stato danneggiato dal terremoto del 1999. Abbiamo nuovamente provveduto al restauro, in particolare della copertura del tetto, del sesto piano, dei canali di scolo dell’acqua e anche degli affreschi della cappella, danneggiati dalle inondazioni. Grazie ai doni dei benefattori abbiamo potuto porre rimedio ai danni provocati dal terremoto. Tuttavia nel 2003 l’attentato contro il Consolato britannico ha recato enormi danni alla nostra chiesa e al nostro edificio, e due persone sono state leggermente ferite. L’edificio è stato evacuato ed è rimasto vuoto per diverse settimane. Sono restato da solo a sorvegliare la chiesa demolita, con le sue vetrate rotte e senza protezioni e per un mese ho lavorato alla luce delle candele. Abbiamo lanciato un appello alla solidarietà e i benefattori sono venuti subito in nostro aiuto. La comunità ha preso a prestito la somma mancante per concludere il restauro della chiesa e dell’edificio.
Attualmente noi abbiamo due luoghi di culto a Istanbul: nella cripta della chiesa di sant’Antonio e nella cappella dell’Arcivescovado.
Nell’Est della Turchia la Diocesi comprende diverse antiche chiese storiche, a Diarbarik e a Mardin in particolare, con i loro titoli di proprietà. Le chiese sono però in cattivo stato e hanno bisogno di riparazioni per la salvaguardia di questo patrimonio culturale e religioso. Per tutta la Chiesa cattolica si tratta di una vera posta in gioco per il futuro.
La Diocesi non ha entrate, a parte la questua e le offerte del culto provenienti da un centinaio di famiglie. Ciò non permette neppure di pagare le spese dei due luoghi di culto, il loro mantenimento, il riscaldamento e le piccole riparazioni. Il clero fa fatica a soddisfare le proprie necessità quotidiane e non vi è neppure una previdenza sociale, un sostegno da parte di altri organismi. I parrocchiani fanno il possibile e si organizzano fra loro per soddisfare i bisogni più urgenti e ogni mese attribuiscono una somma simbolica al loro clero. L’intera gestione della Diocesi è affidata all’associazione dei parrocchiani. I conti sono gestiti da un gruppo composto da 12 persone.
La Liturgia
La vita dei nostri fedeli è scandita dalla liturgia, che rivela l’identità dei nostri popoli. Celebriamo sempre nella lingua aramaica, secondo la liturgia assiro-caldea di Addaï e Mari. Ci sforziamo di celebrare una parte della liturgia nella lingua nazionale turca. I santi e i martiri sono venerati e festeggiati come in passato. Il sacramento della penitenza è ancora praticato, ma è in diminuzione. Il sacramento dell’Eucaristia è molto seguito e la festa della Croce riveste grande importanza. Il sacramento del matrimonio è sempre più inter-rituale, il che comporta una preparazione più approfondita. Nelle Chiese orientali è raro amministrare il sacramento del matrimonio a una persona non battezzata.
La mancanza di sacerdoti non può essere colmata dai laici. Fino al 1986 la Diocesi aveva diversi sacerdoti. Con l’esodo dei fedeli, questi sacerdoti si sono recati tutti all’estero e più in particolare in Francia. Forse non è stato fatto tutto il possibile per trattenere questi cristiani a Istanbul. Non si è potuto forse aiutarli dal punto di visto sociale e finanziario.
Dal 2004 sono il solo sacerdote caldeo per tutta la Turchia e per le migliaia di rifugiati disperati che meritano più di tutti protezione e di sentirsi degni. Non riesco ad affrontare, le giornate non sono abbastanza lunghe, la pesante mole di lavoro da svolgere e sempre con urgenza. La Diocesi non ha religiosi ed è urgente che altri sacerdoti vengano qui per recare aiuto.
Una Chiesa missionaria
Si tratta di una Chiesa profondamente missionaria fin dalla sua creazione. Prima di tutto di una Chiesa profondamente cattolica, in quanto è questa Chiesa ad avere annunciato il Vangelo in Medio Oriente, in Armenia, nel Caucaso, in India e persino in Cina. Quest’anima missionaria è sempre viva, continua a donare testimonianze di fede, continua a vivere la "Via Crucis" di Nostro Signore nel tempo presente come è stato in passato. Nella liturgia le preghiere per la missione sono molto importanti.
In Turchia non abbiamo seminari, pertanto ci troviamo a volte di fronte a vocazioni che non sappiamo dove orientare. Per questo è urgente trovare un luogo di studio per queste vocazioni. Nel programma di Educazione nazionale vi è posto solo per l’insegnamento dell’islam e ai nostri bambini cristiani l’insegnamento religioso può essere impartito solo nelle parrocchie nei giorni in cui non vanno a scuola. La cultura cristiana ci manca veramente!
I laici sono particolarmente legati al loro clero. Ci mettono tanta buona volontà per collaborare con noi in tutti gli ambiti: spirituali e materiali. Danno quello che possono e servono ugualmente secondo le loro possibilità. Si è potuto costituire un comitato molto attivo composto da 12 persone. Ci riuniamo una volta al mese o di più se necessario al fine di risolvere alcuni problemi che riguardano l’insieme della Diocesi.
Con i salesiani abbiamo istituito una pastorale rivolta ai rifugiati, agli adolescenti, ai giovani. Si riuniscono ogni settimana. Noi assicuriamo loro una formazione umana e spirituale adatta alla loro età e ai loro bisogni di esiliati. Il nostro fine è di proteggerli, anima e corpo, affinché restino fedeli al loro battesimo. Una riunione di condivisione della Parola e di preparazione alla liturgia e alle celebrazioni si tiene nel centro socio-culturale dell’Arcivescovado, tutti i sabati e le domeniche. S’impartono anche corsi di lingua aramaica.
Ecumenismo
I nostri rapporti con i non cattolici sono buoni. Gli incontri e le riunioni hanno un valore simbolico e non portano a risultati significativi per avvicinare i fedeli di entrambi i credi. Se gli uomini metteranno da parte il loro orgoglio e la loro ideologia, allora l’auspicio del Nostro Salvatore "che tutti siano uno" sarà realizzato. Non è forse questo un compito urgente per i Pastori e per tutti i battezzati del terzo millennio? Di fatto è attraverso l’unità che la pace germina nei cuori degli uomini. Laddove vi è l’unità, vi sarà la pace.
Che cosa fare in futuro?
È difficile parlare del futuro, ma non bisogna incrociare le braccia. In effetti abbiamo una grande responsabilità nel vivere e lavorare in questa regione in cui il cristianesimo è nato, e nel conservare la lingua di Cristo e annunciare le Sue lodi e le Sue meraviglie.
Per questo prima di tutto occorrerebbe creare strutture in loco adatte al popolo e alla sua mentalità per salvaguardare l’identità culturale e religiosa della comunità assiro-caldea. Bisognerebbe creare un centro di accoglienza per i giovani esiliati e per quanti sono nel bisogno e un centro di irradiamento spirituale, per suscitare le vocazioni. Una volta realizzate queste opere, nascerebbe un nuovo slancio per la Chiesa assiro-caldea e per tutta la Chiesa cattolica in Turchia.
"Sia fatta la tua volontà", Signore, donaci al più presto la Tua Pace.
Vescovo caldeo di Baghdad: "Dalle parole del Papa un aiuto per le nostre comunità minacciate"
Fonte: Agensir
Gli inviti al dialogo tra le religioni, alla effettiva libertà religiosa e al rispetto delle minoranze: gli echi della visita di Benedetto XVI giungono anche in Iraq dove le comunità cristiane sono da tempo oggetto di violenze ed attacchi. “Stiamo seguendo il Papa in questo viaggio con le nostre preghiere – afferma al Sir il vescovo ausiliare di Baghdad, monsignor Shlemon Warduni – siamo colpiti dal coraggio dei suoi gesti e della sua testimonianza. Il dialogo ha bisogno di persone come Benedetto XVI i cui richiami possono aiutare a svelenire il clima intorno alle minoranze cristiane e non solo in Iraq. Abbiamo bisogno di gesti e parole di pace. Quelli visti ieri ad Ankara vanno nella giusta direzione: tolleranza, rispetto, bontà e giustizia. Esse offrono un aiuto per le nostre comunità minacciate. Di fronte a questi segni del Papa i veri credenti musulmani non potranno che essere felici e rispondere positivamente. Insieme, cristiani e musulmani possono contribuire alla costruzione di un mondo più giusto e di pace perché solo Dio può fare il bene del mondo”.
28 novembre 2006
26 novembre 2006
Era ora! Ufficialmente in Iraq è "guerra civile." Lo dicono gli studiosi...
Fonte: International Herald Tribune
Ci sono voluti anni, e l'opinione espressa da diversi studiosi, per sapere che l'Iraq non è in un "clima" "sull'orlo" o in "una quasi" guerra civile, ma "è" in guerra civile!
“Se questa non è guerra civile solo Dio sa cos’è una guerra civile” disse l'ex primo ministro iracheno Ayad Allawi ad un mese dai sanguinosissimi scontri che seguirono la distruzione del santuario sciita di Samarra, esprimendo ciò che tutti gli iracheni dicevano ormai già da tempo. Se, infatti, quella che si sta svolgendo in Iraq non è una guerra civile è allora necessario trovare un'altra definizione che esprima l'orrore quotidiano che nessuno sa più come chiamare per non dispiacere il governo iracheno/americano che si rifiuta di adoperarlo per non dovere ammettere il completo fallimento della democratizzazione forzata del paese.
Sarebbe meglio però chiamare le cose con il proprio nome. Gli iracheni lo sanno, lo vivono, ne muiono: è guerra civile! E se qualcuno nel mondo ancora ne dubita ecco accorrere in suo aiuto studiosi americani che lo mettono nero su bianco...
Leggi l'articolo di Edward Wong del New York Times riportato dall'International Herald Tribune...
Sebbene l’amministrazione Bush continui a negarlo, un numero sempre maggiore di studiosi americani ed iracheni, personalità politiche ed analisti, affermano che gli scontri in Iraq soddisfano gli standards di ciò che è definita guerra civile.
La definizione comune di guerra civile segue due principali criteri. Il primo è che i gruppi in lotta devono appartenere alla stessa nazione e devono lottare per il suo controllo politico, per quello di uno stato separatista o per un radicale cambiamento politico. Il secondo è che almeno 1000 persone devono essere morte a causa degli scontri, e di queste almeno 100 di ogni parte in causa.
La maggior parte degli studiosi americani specializzati nello studio delle guerre civili afferma che il conflitto in Iraq è una guerra civile.
“Penso che in questo momento, e per l’immediato futuro almeno, il livello di violenza in Iraq soddisfi i criteri di definizione di guerra civile così come concepiti da ogni essere ragionevole” ha dichiarato James Fearon, studioso di politica della Stanford University che a settembre ha testimoniato al Congresso proprio sulla guerra in Iraq.
Sebbene i termini “guerra civile” abbiano un significato ampio abbastanza da includere molti tipi diversi di conflitti, una delle due parti coinvolte è quasi sempre il governo in carica. Alcuni studiosi affermano quindi che la guerra civile in Iraq è iniziata quando gli americani hanno trasferito la sovranità del paese ad un governo iracheno nominato nel giugno 2004. Quel passo trasformò la guerra anti-USA in una tra gruppi di insorti alla ricerca del recupero del potere per gli arabi sunniti ormai fuori dai giochi politici che si opposero ad un governo guidato dal Primo Ministro Ayad Allawi e sempre più dominato dagli sciiti.
Altri studiosi affermano invece che la guerra civile è iniziata quest’anno, dopo che la distruzione di un venerato santuario sciita a Samarra diede il via ad una catena di assassini per vendetta che in cinque giorni fece centinaia di morti e che continua tuttora. Dopo un mese dalla distruzione Allawi dichiarò che l’Iraq era affogato in una guerra civile: “Se questa non è guerra civile solo Dio sa cos’è una guerra civile.”
Secondo gli studiosi la guerra civile in Iraq contiene elementi sia dell’insorgenza – un gruppo lotta per rovesciare quello che considera un governo nazionale illegittimo – e della guerra settaria – il governo attaccato è guidato dagli sciiti ed opposto dagli arabi sunniti.
In Iraq la violenza settaria e le vendette sunnite-sciite sono diventate il marchio della lotta, ma i cicli della violenza hanno inizio a causa dei capi delle milizie che hanno dei fini politici. L’ex presidente yugoslavo, Slobodan Milosevic, agì in questo modo durante le guerre nei Balcani.
Il conflitto civile in Iraq in molti casi si svolge in aree a popolazione mista sunnita- sciita, incluse le città di Baghdad e Mosul e la provincia di Diyala. Vasta parte del territorio iracheno ha poco a che fare con questa violenza, ma si tratta di aree relativamente omogenee e poco abitate.
I governi coinvolti in guerre civili speso non intendono definirle come tali, in Colombia, ad esempio, si sostenne per anni che i ribelli fossero solo dei banditi.
Alcuni esponenti dell’amministrazione Bush hanno affermato che non avendo – i gruppi di insorti a guida sunnita – una visione politica la definizione di “guerra civile” non è applicabile.
Molti studiosi, al contrario, affermano che lo spargimento di sangue in Iraq ha già messo il paese nella lista dei paesi colpiti da guerra civile nell’ultimo mezzo secolo. Fearon ed il suo collega David Laitin affermano che il numero dei morti per anno in Iraq, con almeno 50.000 uccisi dal marzo 2003, pongono questo conflitto tra le 20 peggiori guerre civili degli ultimi 60 anni, al pari di quelle del Burundi e della Bosnia.
Il presidente ed il primo ministro iracheni evitano di usare i termini “guerra civile,” ma molti iracheni affermano che gli estremisti hanno portato il paese proprio in questa situazione, sebbene i moderati hanno lottato per farlo allontanare dall’abisso.
“Il mondo deve sapere che in Iraq c’è una guerra civile” dice Adel Ibrahim, uno sceicco della tribù a maggioranza sciita dei Subiah, “E’ una guerra civile devastante. I mortai uccidono i bambini nei nostri quartieri. Abbiamo paura di andare ovunque perché se prendiamo l’autobus potremmo essere uccisi. Non sappiamo chi è il nemico e chi è l’amico.”
La carneficina sempre in aumento conferma che si tratta di una guerra civile. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite dello scorso mercoledì 3709 iracheni sono stati uccisi ad ottobre, il mese peggiore dall’invasione a guida americana, e più di 100.000 fuggono ogni mese verso la Siria o la Giordania.
“E’ stupefacente. Avrebbe dovuto essere definita guerra civile già molto tempo fa, ma ora non so come qualcuno possa ancora non definirla tale “ dice Nicholas Sambanis, professore a Yale e co-editore di “Capire la guerra civile: prove ed analisi”pubblicato nel 2005 dalla Banca Mondiale. “Il livello di violenza è tale da superare la maggior parte della guerre civili avvenute dal 1945 in poi.”
Sempre secondo Sambanis il consenso tra gli studiosi è unanime: “non conosco nessuno che affermi il contrario.”
Gli studiosi americani sono d’accordo sul fatto che ci sono state almeno 100 guerre civili a partire dal 1945. Ai piedi della scala immaginaria di queste guerre c’è quella dell’Irlanda del Nord, e se si calcola il numero dei morti le peggiori sono state quelle in Angola, Afghanistan, Nigeria, Cina e Ruanda.
Gli storici però dissentono sulla definizione di “guerra civile” e se essa possa essere applicata all’Iraq. John Keegan autore britannico di storie di guerra applica la definizione in soli cinque casi, a partire dalla guerra civile inglese del XVII secolo fino a quella libanese dl XX. Il criterio applicato da Keegan include il fatto che i gruppi stanno lottando per ottenere l’autorità nazionale, che hanno capi che pubblicamente denunciano i loro fini e che lottano indossando delle uniformi. L’Iraq, secondo Keegan, quindi, non è in uno stato di guerra civile.
All’opinione di Keegan però si oppone quella di altri studiosi che affermano sia cruciale per i politici e per i media riconoscere il conflitto in Iraq come guerra civile.
“Perché dovrebbe importarci di come essa è definita se tutti siamo d’accordo nel dire che la violenza è inaccettabile?” chiede Laitin, “La mia risposta è che c’è una comunità scientifica che studia le guerre civili, ne comprende le dinamiche e come esse, in genere, vanno a finire. Questo tipo di ricerche ha valore per la nostra sicurezza nazionale.”
La definizione comune di guerra civile segue due principali criteri. Il primo è che i gruppi in lotta devono appartenere alla stessa nazione e devono lottare per il suo controllo politico, per quello di uno stato separatista o per un radicale cambiamento politico. Il secondo è che almeno 1000 persone devono essere morte a causa degli scontri, e di queste almeno 100 di ogni parte in causa.
La maggior parte degli studiosi americani specializzati nello studio delle guerre civili afferma che il conflitto in Iraq è una guerra civile.
“Penso che in questo momento, e per l’immediato futuro almeno, il livello di violenza in Iraq soddisfi i criteri di definizione di guerra civile così come concepiti da ogni essere ragionevole” ha dichiarato James Fearon, studioso di politica della Stanford University che a settembre ha testimoniato al Congresso proprio sulla guerra in Iraq.
Sebbene i termini “guerra civile” abbiano un significato ampio abbastanza da includere molti tipi diversi di conflitti, una delle due parti coinvolte è quasi sempre il governo in carica. Alcuni studiosi affermano quindi che la guerra civile in Iraq è iniziata quando gli americani hanno trasferito la sovranità del paese ad un governo iracheno nominato nel giugno 2004. Quel passo trasformò la guerra anti-USA in una tra gruppi di insorti alla ricerca del recupero del potere per gli arabi sunniti ormai fuori dai giochi politici che si opposero ad un governo guidato dal Primo Ministro Ayad Allawi e sempre più dominato dagli sciiti.
Altri studiosi affermano invece che la guerra civile è iniziata quest’anno, dopo che la distruzione di un venerato santuario sciita a Samarra diede il via ad una catena di assassini per vendetta che in cinque giorni fece centinaia di morti e che continua tuttora. Dopo un mese dalla distruzione Allawi dichiarò che l’Iraq era affogato in una guerra civile: “Se questa non è guerra civile solo Dio sa cos’è una guerra civile.”
Secondo gli studiosi la guerra civile in Iraq contiene elementi sia dell’insorgenza – un gruppo lotta per rovesciare quello che considera un governo nazionale illegittimo – e della guerra settaria – il governo attaccato è guidato dagli sciiti ed opposto dagli arabi sunniti.
In Iraq la violenza settaria e le vendette sunnite-sciite sono diventate il marchio della lotta, ma i cicli della violenza hanno inizio a causa dei capi delle milizie che hanno dei fini politici. L’ex presidente yugoslavo, Slobodan Milosevic, agì in questo modo durante le guerre nei Balcani.
Il conflitto civile in Iraq in molti casi si svolge in aree a popolazione mista sunnita- sciita, incluse le città di Baghdad e Mosul e la provincia di Diyala. Vasta parte del territorio iracheno ha poco a che fare con questa violenza, ma si tratta di aree relativamente omogenee e poco abitate.
I governi coinvolti in guerre civili speso non intendono definirle come tali, in Colombia, ad esempio, si sostenne per anni che i ribelli fossero solo dei banditi.
Alcuni esponenti dell’amministrazione Bush hanno affermato che non avendo – i gruppi di insorti a guida sunnita – una visione politica la definizione di “guerra civile” non è applicabile.
Molti studiosi, al contrario, affermano che lo spargimento di sangue in Iraq ha già messo il paese nella lista dei paesi colpiti da guerra civile nell’ultimo mezzo secolo. Fearon ed il suo collega David Laitin affermano che il numero dei morti per anno in Iraq, con almeno 50.000 uccisi dal marzo 2003, pongono questo conflitto tra le 20 peggiori guerre civili degli ultimi 60 anni, al pari di quelle del Burundi e della Bosnia.
Il presidente ed il primo ministro iracheni evitano di usare i termini “guerra civile,” ma molti iracheni affermano che gli estremisti hanno portato il paese proprio in questa situazione, sebbene i moderati hanno lottato per farlo allontanare dall’abisso.
“Il mondo deve sapere che in Iraq c’è una guerra civile” dice Adel Ibrahim, uno sceicco della tribù a maggioranza sciita dei Subiah, “E’ una guerra civile devastante. I mortai uccidono i bambini nei nostri quartieri. Abbiamo paura di andare ovunque perché se prendiamo l’autobus potremmo essere uccisi. Non sappiamo chi è il nemico e chi è l’amico.”
La carneficina sempre in aumento conferma che si tratta di una guerra civile. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite dello scorso mercoledì 3709 iracheni sono stati uccisi ad ottobre, il mese peggiore dall’invasione a guida americana, e più di 100.000 fuggono ogni mese verso la Siria o la Giordania.
“E’ stupefacente. Avrebbe dovuto essere definita guerra civile già molto tempo fa, ma ora non so come qualcuno possa ancora non definirla tale “ dice Nicholas Sambanis, professore a Yale e co-editore di “Capire la guerra civile: prove ed analisi”pubblicato nel 2005 dalla Banca Mondiale. “Il livello di violenza è tale da superare la maggior parte della guerre civili avvenute dal 1945 in poi.”
Sempre secondo Sambanis il consenso tra gli studiosi è unanime: “non conosco nessuno che affermi il contrario.”
Gli studiosi americani sono d’accordo sul fatto che ci sono state almeno 100 guerre civili a partire dal 1945. Ai piedi della scala immaginaria di queste guerre c’è quella dell’Irlanda del Nord, e se si calcola il numero dei morti le peggiori sono state quelle in Angola, Afghanistan, Nigeria, Cina e Ruanda.
Gli storici però dissentono sulla definizione di “guerra civile” e se essa possa essere applicata all’Iraq. John Keegan autore britannico di storie di guerra applica la definizione in soli cinque casi, a partire dalla guerra civile inglese del XVII secolo fino a quella libanese dl XX. Il criterio applicato da Keegan include il fatto che i gruppi stanno lottando per ottenere l’autorità nazionale, che hanno capi che pubblicamente denunciano i loro fini e che lottano indossando delle uniformi. L’Iraq, secondo Keegan, quindi, non è in uno stato di guerra civile.
All’opinione di Keegan però si oppone quella di altri studiosi che affermano sia cruciale per i politici e per i media riconoscere il conflitto in Iraq come guerra civile.
“Perché dovrebbe importarci di come essa è definita se tutti siamo d’accordo nel dire che la violenza è inaccettabile?” chiede Laitin, “La mia risposta è che c’è una comunità scientifica che studia le guerre civili, ne comprende le dinamiche e come esse, in genere, vanno a finire. Questo tipo di ricerche ha valore per la nostra sicurezza nazionale.”
Tradotto ed adattato da Baghdadhope
22 novembre 2006
Minacce ed estorsioni, chiude la Caritas di Mosul
Fonte: Asia News
Il racconto di una delle operatrici: volevano che versassimo soldi per la resistenza all’occupazione Usa; la Chiesa e i cristiani sono il bersaglio preferito di chi vuole arricchirsi in modo facile. Resiste un corso di teologia per laici, che da Mosul verrà trasferito in una zona più sicura...
Leggi il resto dell'articolo su Asia News:
http://www.asianews.it/view.php?l=it&art=7815
Continue intimidazioni e insistenti richieste di versare denaro per finanziare le attività di un gruppo islamico locale, hanno costretto la Caritas di Mosul a chiudere i battenti. A raccontarlo ad AsiaNews è una delle operatrici, ora costrette a lasciare la città per paura di ritorsioni. La donna, che ha chiesto l’anonimato, ha lavorato come ricercatrice sociale presso l’organismo della Chiesa cattolica dal 1995 fino a settembre scorso, quando è cominciata “l’agonia” della Caritas.
“I primi del mese – ricorda – il nostro responsabile ha ricevuto una telefonata a casa da un gruppo islamico, il quale sapeva bene che il telefono del Centro non funziona per un guasto”. La giovane spiega: “Il gruppo non si è identificato con un nome, prima hanno cominciato a recitare un brano dal Corano, dopo ci hanno chiesto di dare loro del denaro per sostenere la resistenza all’occupazione americana dell’Iraq”. Chi parlava ha tenuto a sottolineare che “conosceva perfettamente tutte le attività del Centro, il numero degli impiegati, la loro precisa identità e non voleva sentire storie”. “Noi – continua la donna - abbiamo cercato di spiegare che come Caritas non abbiamo fondi per le nostre attività, se non le donazioni dei fedeli, che ci aiutano a sostenere solo i più bisognosi”. Ma non c’è stato niente da fare: “Ci hanno detto che quello che raccontavamo era falso e che la Chiesa può dare dei soldi, perché la Chiesa è ricca”.
Alla fine dopo numerose telefonate il gruppo islamico ha fissato una scadenza per la consegna di una “somma di denaro più alta possibile”.
Nella settimana in cui si svolgevano le trattative, però, c'è stato il discorso di Benedetto XVI all’Università di Regensburg e le polemiche strumentalizzate sulla sua presunta offesa all’Islam. “Si sono molto arrabbiati - racconta l’operatrice - e ci hanno chiamato chiedendo di parlare con i vescovi della città e dir loro che dovevano disapprovare le parole del Papa in Germania”.
Mentre le minacce si facevano più insistenti il direttore ha detto loro che la Caritas poteva dare solo 1.000.000 di denari iracheni, ma non di più. “Naturalmente non era sufficiente e ci hanno chiesto di aumentare la somma, ma dopo l’ennesimo rifiuto da parte nostra si sono convinti e hanno accettato l’offerta; non abbiamo avuto scelta, ma da allora il Centro ha dovuto chiudere, in queste condizioni era impossibile continuare”.
La Caritas di Mosul, che dall’inizio della guerra non aveva mai interrotto le sue attività neppure un giorno, si occupava soprattutto dei senza tetto e il 90 per cento del suo lavoro interessava la popolazione musulmana. Il lavoro della Caritas continua comunque a Baghdad, nei villaggi cristiani della provincia di Niniveh e nel Kurdistan.
Anche se sempre più provata, la Chiesa irachena non perde la speranza di portare avanti la sua missione. L’insicurezza che regna nella zona ha costretto la diocesi di Mosul a sospendere il corso di teologia per laici che si svolgeva in città. Ma fonti della comunità caldea riferiscono che si tratta solo di un fatto temporaneo, in quanto il corso verrà trasferito in un villaggio vicino e più sicuro.
Continue intimidazioni e insistenti richieste di versare denaro per finanziare le attività di un gruppo islamico locale, hanno costretto la Caritas di Mosul a chiudere i battenti. A raccontarlo ad AsiaNews è una delle operatrici, ora costrette a lasciare la città per paura di ritorsioni. La donna, che ha chiesto l’anonimato, ha lavorato come ricercatrice sociale presso l’organismo della Chiesa cattolica dal 1995 fino a settembre scorso, quando è cominciata “l’agonia” della Caritas.
“I primi del mese – ricorda – il nostro responsabile ha ricevuto una telefonata a casa da un gruppo islamico, il quale sapeva bene che il telefono del Centro non funziona per un guasto”. La giovane spiega: “Il gruppo non si è identificato con un nome, prima hanno cominciato a recitare un brano dal Corano, dopo ci hanno chiesto di dare loro del denaro per sostenere la resistenza all’occupazione americana dell’Iraq”. Chi parlava ha tenuto a sottolineare che “conosceva perfettamente tutte le attività del Centro, il numero degli impiegati, la loro precisa identità e non voleva sentire storie”. “Noi – continua la donna - abbiamo cercato di spiegare che come Caritas non abbiamo fondi per le nostre attività, se non le donazioni dei fedeli, che ci aiutano a sostenere solo i più bisognosi”. Ma non c’è stato niente da fare: “Ci hanno detto che quello che raccontavamo era falso e che la Chiesa può dare dei soldi, perché la Chiesa è ricca”.
Alla fine dopo numerose telefonate il gruppo islamico ha fissato una scadenza per la consegna di una “somma di denaro più alta possibile”.
Nella settimana in cui si svolgevano le trattative, però, c'è stato il discorso di Benedetto XVI all’Università di Regensburg e le polemiche strumentalizzate sulla sua presunta offesa all’Islam. “Si sono molto arrabbiati - racconta l’operatrice - e ci hanno chiamato chiedendo di parlare con i vescovi della città e dir loro che dovevano disapprovare le parole del Papa in Germania”.
Mentre le minacce si facevano più insistenti il direttore ha detto loro che la Caritas poteva dare solo 1.000.000 di denari iracheni, ma non di più. “Naturalmente non era sufficiente e ci hanno chiesto di aumentare la somma, ma dopo l’ennesimo rifiuto da parte nostra si sono convinti e hanno accettato l’offerta; non abbiamo avuto scelta, ma da allora il Centro ha dovuto chiudere, in queste condizioni era impossibile continuare”.
La Caritas di Mosul, che dall’inizio della guerra non aveva mai interrotto le sue attività neppure un giorno, si occupava soprattutto dei senza tetto e il 90 per cento del suo lavoro interessava la popolazione musulmana. Il lavoro della Caritas continua comunque a Baghdad, nei villaggi cristiani della provincia di Niniveh e nel Kurdistan.
Anche se sempre più provata, la Chiesa irachena non perde la speranza di portare avanti la sua missione. L’insicurezza che regna nella zona ha costretto la diocesi di Mosul a sospendere il corso di teologia per laici che si svolgeva in città. Ma fonti della comunità caldea riferiscono che si tratta solo di un fatto temporaneo, in quanto il corso verrà trasferito in un villaggio vicino e più sicuro.
20 novembre 2006
Baghdad: sacerdote scomparso, si teme il rapimento
Fonte: Asia News
Da ieri mattina non si hanno notizie di p. Doglas, parroco caldeo di S. Elia. Il vescovo ausiliare di Baghdad: “Molto probabile il sequestro”. Si fa concreto il timore che queste iniziative criminali vogliano colpire le personalità religiose più attive, per scoraggiare i cristiani a rimanere in Iraq.
Baghdad (AsiaNews) – A Baghdad i cristiani temono si sia verificato l’ennesimo rapimento di un sacerdote. Padre Doglas Yousef Al Bazy - 34 anni, caldeo - è uscito dalla sua parrocchia ieri mattina e non è ancora tornato a casa...
Da ieri mattina non si hanno notizie di p. Doglas, parroco caldeo di S. Elia. Il vescovo ausiliare di Baghdad: “Molto probabile il sequestro”. Si fa concreto il timore che queste iniziative criminali vogliano colpire le personalità religiose più attive, per scoraggiare i cristiani a rimanere in Iraq.
Baghdad (AsiaNews) – A Baghdad i cristiani temono si sia verificato l’ennesimo rapimento di un sacerdote. Padre Doglas Yousef Al Bazy - 34 anni, caldeo - è uscito dalla sua parrocchia ieri mattina e non è ancora tornato a casa...
L’allarme si è rapidamente diffuso in Iraq e nella diaspora tramite Internet ed Sms: i fedeli del giovane prete e i responsabili della Chiesa caldea irachena ritengono “molto probabile” che si tratti di un sequestro. Se così fosse, sarebbe l’ultimo caso di una lunga lista di rapimenti a danni di religiosi cristiani, dettati da moventi non solo di criminalità comune.
Il vescovo ausiliare dei caldei di Baghdad, mons. Shleman Warduni, riferisce ad AsiaNews: “Il patriarca Delly ed io abbiamo attivato i nostri contatti, sperando potessero darci qualche speranza, ma finora non abbiamo avuto risposte. Il rapimento è l’ipotesi più probabile, ma non ci sono conferme”.
Padre Doglas è stato ordinato circa 10 anni fa; mons. Warduni lo definisce come una figura “molto attiva nella diocesi, impegnato soprattutto a fianco dei giovani”. È segretario dell’Istituto per l’insegnamento religioso e anche del Consiglio dei capi delle Chiese a Baghdad. Da pochi mesi gli è stata affidata la parrocchia di S. Elia.
Secondo il vescovo ausiliare, “vi sono tante interpretazioni dietro il rapimento di un cristiano: criminalità, fanatismo religioso, denaro, l’intenzione di creare divisone tra la popolazione”. “Speriamo che chi lo ha preso abbia coscienza - sottolinea il presule - e capisca che noi sacerdoti desideriamo solo portare la Buona novella alla gente e lavorare per il bene di tutti gli iracheni. Siamo per l’unità dell’Iraq e chiediamo di poter operare insieme ai nostri connazionali per ricostruire il nostro Paese e ottenere pace e sicurezza”. Tra la comunità caldea, però, si fa sempre più strada l’idea che minacce e rapimenti non siano condotti in modo indististino, ma “mirino alle personalità più impegnate nella comunità cristiana, le più giovani e le più coraggiose, quasi a monito di chi continua a sperare di poter continuare a vivere in questo Paese”.
Fonti di AsiaNews riferiscono che ormai la situazione nel Paese è “insopportabile”: i cristiani escono raramente di casa, ma non sono gli unici a soffrire. “Nessun luogo è più sicuro - dicono - ormai non si è tranquilli nemmeno sul posto di lavoro: nei mesi scorsi sono stati uccisi dei panettieri a Baghdad solo perché sfornavano un pane tipico romboidale, col vago aspetto di una croce”. In conclusione mons. Warduni lancia un appello ai possibili rapitori di p. Doglas: “Se avete coscienza e credete in Dio, non fategli del male e liberatelo il prima possibile, sano e salvo”.
Il vescovo ausiliare dei caldei di Baghdad, mons. Shleman Warduni, riferisce ad AsiaNews: “Il patriarca Delly ed io abbiamo attivato i nostri contatti, sperando potessero darci qualche speranza, ma finora non abbiamo avuto risposte. Il rapimento è l’ipotesi più probabile, ma non ci sono conferme”.
Padre Doglas è stato ordinato circa 10 anni fa; mons. Warduni lo definisce come una figura “molto attiva nella diocesi, impegnato soprattutto a fianco dei giovani”. È segretario dell’Istituto per l’insegnamento religioso e anche del Consiglio dei capi delle Chiese a Baghdad. Da pochi mesi gli è stata affidata la parrocchia di S. Elia.
Secondo il vescovo ausiliare, “vi sono tante interpretazioni dietro il rapimento di un cristiano: criminalità, fanatismo religioso, denaro, l’intenzione di creare divisone tra la popolazione”. “Speriamo che chi lo ha preso abbia coscienza - sottolinea il presule - e capisca che noi sacerdoti desideriamo solo portare la Buona novella alla gente e lavorare per il bene di tutti gli iracheni. Siamo per l’unità dell’Iraq e chiediamo di poter operare insieme ai nostri connazionali per ricostruire il nostro Paese e ottenere pace e sicurezza”. Tra la comunità caldea, però, si fa sempre più strada l’idea che minacce e rapimenti non siano condotti in modo indististino, ma “mirino alle personalità più impegnate nella comunità cristiana, le più giovani e le più coraggiose, quasi a monito di chi continua a sperare di poter continuare a vivere in questo Paese”.
Fonti di AsiaNews riferiscono che ormai la situazione nel Paese è “insopportabile”: i cristiani escono raramente di casa, ma non sono gli unici a soffrire. “Nessun luogo è più sicuro - dicono - ormai non si è tranquilli nemmeno sul posto di lavoro: nei mesi scorsi sono stati uccisi dei panettieri a Baghdad solo perché sfornavano un pane tipico romboidale, col vago aspetto di una croce”. In conclusione mons. Warduni lancia un appello ai possibili rapitori di p. Doglas: “Se avete coscienza e credete in Dio, non fategli del male e liberatelo il prima possibile, sano e salvo”.
19 novembre 2006
Rapito un altro sacerdote in Iraq
Padre Douglas Al Bazi è il parroco della chiesa cattolica caldea di Mar Eliya a Baghdad e dalle 10.00 di domenica 19 novembre non ci sono più sue notizie. I suoi cellulari sono staccati e nessuno, neanche al Patriarcato Caldeo, sa niente di lui, che a quell'ora ha lasciato la chiesa in macchina e senza scorta. La notizia, confermata la stessa sera della sua sparizione da una fonte certa, ha gettato nello sconforto la comunità cristiana irachena. Padre Douglas è il quarto sacerdote caldeo rapito a Baghdad nel giro di cinque mesi e, sebbene gli altri rapimenti si siano risolti con il rilascio degli ostaggi, è ancora fresco il ricordo della barbara uccisione di Padre Paul Iskandar, sacerdote siro ortodosso rapito a Mosul lo scorso ottobre ed ucciso il giorno dopo il suo sequestro. Un rapimento, quello di Padre Paul, apparentemente inspiegabile se non alla luce della ondata di violenza che sta sempre più avendo come vittime i cristiani e specialmente i loro simboli: i sacerdoti. Le richieste fatte dai rapitori di Padre Paul erano state due: che la chiesa siro ortodossa dichiarasse pubblicamente il suo disaccordo con le parole che Papa Benedetto XVI aveva pronunciato a settembre nell'ormai famoso "discorso di Ratisbona" considerato da molti offensivo verso l'Islam, ed un ingente somma di denaro come riscatto.
La prima richiesta fu esaudita subito e più di 30 cartelli di "sconfessione "delle parole papali furono affissi all'esterno delle chiese ortodosse, mentre per la richiesta del riscatto non fu dato neanche il tempo di racogliere il denaro. Il corpo di Padre Paul fu infatti ritrovato il giorno dopo con la testa e gli arti spiccati dal tronco.
In una tale atmosfera la notizia della sparizione di Padre Douglas è quindi particolarmente preoccupante. Padre Douglas, giovane e molto attivo, era già stato toccato dalla violenza che insanguina Baghdad. Il 29 gennaio scorso era scampato ad un attentato alla chiesa di cui era allora parroco, Mar Mari, nella zona settentrionale di Baghdad, (http://baghdadhope.blogspot.com/2006_01_01_baghdadhope_archive.html) ed il 23 febbraio era rimasto ferito da una pallottola vagante esplosa da uomini armati che in alcune auto in corsa avevano preso di mira la stessa chiesa. (http://baghdadhope.blogspot.com/2006/02/violenze-in-iraq-colpito-sacerdote.html)
Viva preoccupazione è stata espressa da Don Fredo Olivero, direttore dell'Ufficio Pastorale Migranti dell'Arcidiocesi di Torino, subito informato telefonicamente dell'accaduto. Padre Douglas Al Bazi, infatti, è stato più volte ospite a Torino ed è il referente iracheno del progetto di sostegno a dieci sacerdoti caldei di Baghdad promosso dall'UPM.
A Baghdad, oltre ad essere parroco della chiesa di Mar Eliya, Padre Douglas è Direttore dell'Istituto di Catechesi annesso al Babel College, l'unica facoltà teologica cristiana in Iraq.
18 novembre 2006
Nunzio Apostolico in Iraq presenta le credenziali al Presidente Jalal Talabani
Nunzio Apostolico in Iraq e Giordania dal 2001 al 2006, Monsignor Fernando Filoni, è stato sostituito nell’aprile dello stesso anno dall’indiano Monsignor Francis Chullikat che l’altro ieri ha finalmente presentato le sue credenziali al presidente iracheno Jalal Talabani.
Monsignor Chullikat ha riferito a Talabani il sostegno della Santa Sede agli sforzi di unificazione delle differenti visioni politiche in un momento così delicato per la storia dell’Iraq, e da parte sua Jalal Talabani si è impegnato a sostenere i cristiani iracheni al pari dei loro connazionali musulmani aggiungendo che gli attacchi degli insorti colpiscono ambedue le parti indifferentemente, ma che gli iracheni si opporranno ad ogni tentativo di rottura dei rapporti tra esse.
L'8 novembre Monsignor Chullikat ha rilasciato un’intervista a REPUBBLICA sulla sentenza di condanna a morte per Saddam Hussein pronunciata dal tribunale iracheno….
Monsignor Chullikat ha riferito a Talabani il sostegno della Santa Sede agli sforzi di unificazione delle differenti visioni politiche in un momento così delicato per la storia dell’Iraq, e da parte sua Jalal Talabani si è impegnato a sostenere i cristiani iracheni al pari dei loro connazionali musulmani aggiungendo che gli attacchi degli insorti colpiscono ambedue le parti indifferentemente, ma che gli iracheni si opporranno ad ogni tentativo di rottura dei rapporti tra esse.
L'8 novembre Monsignor Chullikat ha rilasciato un’intervista a REPUBBLICA sulla sentenza di condanna a morte per Saddam Hussein pronunciata dal tribunale iracheno….
Repubblica 8 novembre 2006
di Orazio La Rocca
“La vita di Saddam Hussein va salvata”. Lo chiederanno "con forza” all'Onu, ai governanti Usa e alle attuali autorità dell'Iraq, i venti vescovi cattolici della Conferenza episcopale irachena. L'intervento anticipa a Repubblica l'arcivescovo Francis Assisi Chullikat, nunzio apostolico a Bagdad dal marzo scorso sarà fatto “a nome della sacralità della vita, dei diritti inviolabili dell'uomo e come gesto di pacificazione nei confronti di un paese, l'Iraq, che di tutto ha bisogno fuorché di condanne a morte”. Il tutto con la tacita "benedizione” delle autorità vaticane. L'appello sarà diffuso nei prossimi giorni, dopo una riunione collegiale che i presuli dell'Iraq terranno per analizzare il provvedimento capitale emesso lunedì scorso a carico dell'ex leader iracheno e studiare il da farsi.
Monsignor Chullikat, come rappresentante del Papa in Iraq che disposizioni ha avuto dalla Santa Sede dopo la condanna a morte di Saddam Hussein?
"Come è noto, la Chiesa cattolica da sempre è impegnata in prima persona indifesa della vita ed è totalmente contraria alla pena capitale per qualsiasi persona, al di là delle colpe commesse. Questo, perché, la vita è il dono supremo di Dio e va sempre difesa e salvaguardata. Su questa materia, quindi, la nostra posizione è nota e non si tratta di avere disposizioni per questo o quel caso. Condannare a morte un individuo e peccato, sempre. Nella Chiesa tutti lo devono sapere. Compresi, ovviamente, anche i nunzi. Ma già il cardinale Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio di Giustizia e pace, subito dopo la sentenza ha chiesto che la condanna a morte non venga eseguita. E' la nostra posizione".
Ma ci sarà, allora, qualche suo intervento diretto sulle autorità irachene per far almeno tramutare la pena capitale di Saddam in una pena più accettabile dalpunto di vista dei diritti dell'uomo?
"Su questo aspetto il riserbo, per ora, è comprensibile. Posso solo anticipare che, comunque, i cristiani di Bagdad non staranno fermi, a partire dai venti vescovi cattolici iracheni ai quali è stato demandato il compito di studiare tempi e modi per un intervento presso le autorità competenti in difesa della vita di Saddam. Nei prossimi giorni, saranno i vescovi iracheni a farlo sapere e a compiere i passi dovuti".
Eccellenza, si aspettava che una condanna così dura l'ex dittatore iracheno?
"Su questo aspetto il riserbo, per ora, è comprensibile. Posso solo anticipare che, comunque, i cristiani di Bagdad non staranno fermi, a partire dai venti vescovi cattolici iracheni ai quali è stato demandato il compito di studiare tempi e modi per un intervento presso le autorità competenti in difesa della vita di Saddam. Nei prossimi giorni, saranno i vescovi iracheni a farlo sapere e a compiere i passi dovuti".
Eccellenza, si aspettava che una condanna così dura l'ex dittatore iracheno?
"Purtroppo, un provvedimento così drastico era nell'aria. Ma non voglio entrare nel merito della sentenza perché, mi preme sottolineare, noi rispettiamo la decisione del tribunale di Bagdad, però nello stesso tempo chiediamo il rispetto per la vita. Quello che non posso accettare come uomo e come vescovo è la pena di morte. E' un provvedimento che viola la sacralità della vita e che va contro la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, una carta, e bene ricordarlo, sottoscritta anche dagli Usa e dall'Iraq. Diritti contenuti anche nella Dichiarazione dei diritti islamici, dove è sancito che la vita appartiene solo a Dio, non agli uomini e, per questo, va sempre rispettata".
Se Saddam Hussein salirà sul patibolo cosa succederà all'lraq?"
"Va tutto visto nel contesto nazional-iracheno. E temo che non sarà un bel momento. L'Iraq non ha bisogno di altro sangue, ma di segni di pace, di distensione, di dialogo. E' bene che tutto venga ponderato con oculatezza perché non credo che l'esecuzione della condanna potrà contribuire alla ricostruzione del tessuto sociale di questo martoriato paese. Ma, al di là di qualsiasi calcolo socio-politico, non va mai dimenticato che la vita umana e sacra, sempre, e che va sempre salvaguardata. E' questa la nostra posizione".
17 novembre 2006
Chi salverà i cristiani iracheni?
Che Sarkis Aghajan Mamendu, Ministro delle Finanze del Governo Regionale del Kurdistan, sia stato di grande aiuto ai cristiani iracheni – lui stesso è un fedele della Chiesa Assira dell’Est – è dimostrato dalle onorificenze religiose a lui concesse nello spazio di soli tre mesi.
In una sorta di corsa contro il tempo le tre chiese più rappresentative dell’Iraq gli hanno infatti riconosciuto il merito di avere aiutato i cristiani come nessun altro aveva fatto prima.
Nuovi villaggi costruiti per loro nella zona curda – e pazienza se molte voci accusano lo stesso governo curdo di aver nello stesso tempo “pulito” altri villaggi dalla presenza cristiana - e nuove chiese – e pazienza se sempre le stesse voci fanno notare che di ben altro aiuto, meno spirituale, avrebbero bisogno i cristiani costretti a lasciare le proprie case – sono stati i motivi che hanno giustificato queste “investiture” ufficiali....
Nuovi villaggi costruiti per loro nella zona curda – e pazienza se molte voci accusano lo stesso governo curdo di aver nello stesso tempo “pulito” altri villaggi dalla presenza cristiana - e nuove chiese – e pazienza se sempre le stesse voci fanno notare che di ben altro aiuto, meno spirituale, avrebbero bisogno i cristiani costretti a lasciare le proprie case – sono stati i motivi che hanno giustificato queste “investiture” ufficiali....
by Baghdadhope
A cominciare, ad agosto, è stata la Chiesa Cattolica Caldea, seguita ad ottobre da quella Siro Ortodossa e da quella Assira dell’Est. Ben tre patriarchi, rispettivamente Mar Emmanuel III Delly, Moran Mor Ignatius Zakka I Iwas e Mar Dinkha IV, hanno sancito la definitiva affermazione di Aghajan a guida politica della intera comunità cristiana con parole altisonanti: “Le generazioni future, i nostri testi, i nostri luoghi di culto, e le nostre associazioni ricorderanno la sua generosità ed il suo nome, che rimarrà scolpito nei cuori della comunità cristiana” (Mar Delly) “Tutti, da est ad ovest, lodano la sua infinità generosità nel servire la cristianità. Come disse San Paolo 'Colui che dona con gioia è benedetto da Dio' Lei è un esempio di qualità bibliche ed umane e noi invitiamo tutti a seguire le sue orme” (Mor Zakka) “La onoriamo con la Croce di Gesù Cristo che la proteggerà da tutti i mali… per la sua fede ed il suo amore verso la chiesa, il paese e la gente” (Mar Dinkha)
Eppure c’è chi, magari riconoscendo alcuni meriti ad Aghajan, ritiene che queste investiture abbiamo creato e creeranno non pochi problemi. La costruzione di nuove chiese, ad esempio, secondo l’opinione di alcuni fedeli, ma anche di alcuni sacerdoti, non ha fatto altro che attirare l’attenzione di chi, politicamente o religiosamente motivato o meno, ha visto in essa una disponibilità finanziaria da sfruttare.
In un paese dove i rapimenti arrivano a coinvolgere centinaia di vittime nello stesso episodio la minaccia del crimine è efficace quanto il crimine stesso. Così un sacerdote della Chiesa Assira dell’Est è stato costretto la scorsa settimana ad abbandonare Mosul ed a rifugiarsi nel nord dell’Iraq per porre fine alle vessazioni cui era sottoposto da tempo: donare “volontariamente” ingenti somme di denaro alle forze dei Mujahideen islamici per proteggere i fedeli della sua chiesa da rapimenti ed uccisioni. Le stesse ragioni che hanno obbligato un sacerdote dell’Antica Chiesa Assira dell’Est a lasciare la cittadina di Telkaif ed a trasferirsi nell’estrema provincia settentrionale di Dohuk.
Questi episodi, come quello riportato da ASIA NEWS, di un ordigno che ha danneggiato l’ottocentesca Dominican Clock Church di Mosul il primo di novembre, (http://www.asianews.it/view.php?l=it&art=7767) dimostrano come la violenza verso la comunità cristiana irachena sia mirata a diffondere il terrore al suo interno per spingerla a “lasciare” il territorio.
A cominciare, ad agosto, è stata la Chiesa Cattolica Caldea, seguita ad ottobre da quella Siro Ortodossa e da quella Assira dell’Est. Ben tre patriarchi, rispettivamente Mar Emmanuel III Delly, Moran Mor Ignatius Zakka I Iwas e Mar Dinkha IV, hanno sancito la definitiva affermazione di Aghajan a guida politica della intera comunità cristiana con parole altisonanti: “Le generazioni future, i nostri testi, i nostri luoghi di culto, e le nostre associazioni ricorderanno la sua generosità ed il suo nome, che rimarrà scolpito nei cuori della comunità cristiana” (Mar Delly) “Tutti, da est ad ovest, lodano la sua infinità generosità nel servire la cristianità. Come disse San Paolo 'Colui che dona con gioia è benedetto da Dio' Lei è un esempio di qualità bibliche ed umane e noi invitiamo tutti a seguire le sue orme” (Mor Zakka) “La onoriamo con la Croce di Gesù Cristo che la proteggerà da tutti i mali… per la sua fede ed il suo amore verso la chiesa, il paese e la gente” (Mar Dinkha)
Eppure c’è chi, magari riconoscendo alcuni meriti ad Aghajan, ritiene che queste investiture abbiamo creato e creeranno non pochi problemi. La costruzione di nuove chiese, ad esempio, secondo l’opinione di alcuni fedeli, ma anche di alcuni sacerdoti, non ha fatto altro che attirare l’attenzione di chi, politicamente o religiosamente motivato o meno, ha visto in essa una disponibilità finanziaria da sfruttare.
In un paese dove i rapimenti arrivano a coinvolgere centinaia di vittime nello stesso episodio la minaccia del crimine è efficace quanto il crimine stesso. Così un sacerdote della Chiesa Assira dell’Est è stato costretto la scorsa settimana ad abbandonare Mosul ed a rifugiarsi nel nord dell’Iraq per porre fine alle vessazioni cui era sottoposto da tempo: donare “volontariamente” ingenti somme di denaro alle forze dei Mujahideen islamici per proteggere i fedeli della sua chiesa da rapimenti ed uccisioni. Le stesse ragioni che hanno obbligato un sacerdote dell’Antica Chiesa Assira dell’Est a lasciare la cittadina di Telkaif ed a trasferirsi nell’estrema provincia settentrionale di Dohuk.
Questi episodi, come quello riportato da ASIA NEWS, di un ordigno che ha danneggiato l’ottocentesca Dominican Clock Church di Mosul il primo di novembre, (http://www.asianews.it/view.php?l=it&art=7767) dimostrano come la violenza verso la comunità cristiana irachena sia mirata a diffondere il terrore al suo interno per spingerla a “lasciare” il territorio.
Così è già stato ad esempio per il quartiere di Dora, nella parte meridionale di Baghdad, dove due terzi delle famiglie cristiane che vi abitavano sono fuggite, e dove cinque chiese, un monastero, un seminario e l’unica facoltà teologica in Iraq, il Babel College, hanno interrotto le proprie attività, (http://baghdadhope.blogspot.com/2006/10/milizie-irachene-stanno-conducendo-una.html) e così pare stia accadendo a Mosul, le cui istituzioni cristiane sono state oggetto di violenza già in passato, ma che sta assistendo ad un incremento della stessa che difficilmente si può pensare sia occasionale, e che ha avuto la sua massima espressione nella barbara uccisione di Padre Paul Iskandar, sacerdote della Chiesa Siro Ortodossa rapito il 10 ottobre scorso e ritrovato cadavere il giorno dopo, la testa e gli arti spiccati dal tronco. Un rapimento che ha scosso l’intera comunità cristiana.
Padre Paul Iskandar non è stato il primo sacerdote rapito, un vescovo siro-cattolico, due monaci e tre sacerdoti cattolici caldei erano stati infatti già sequestrati, ma è stato il primo ad essere ucciso, e senza motivazioni apparenti visto che delle due richieste fatte dai rapitori: che la chiesa siro-ortodossa si dichiarasse pubblicamente contro le parole pronunciate da Papa Benedetto XVI a Ratisbona a settembre e considerate offensive per l’Islam, e che venisse pagato un riscatto per la sua liberazione, la prima fu subito soddisfatta, mentre non fu neanche dato il tempo di farlo per la seconda.
Mosul quindi è ora diventata una zona “che scotta” per i cristiani che vi abitano o che vi si sono rifugiati per sfuggire alle violenze incontrollate di Baghdad. Una zona da cui - è prevedibile se la situazione non dovesse migliorare - essi fuggiranno verso l’estero o verso l’estremo nord, quel Kurdistan dove Sarkis Aghajan Mamendu li sta aspettando a braccia aperte ma che niente assicura possa davvero rappresentare per loro un porto sicuro.
Il Kurdistan pacificato di oggi, che l’America presenta come prova, seppur parziale, del successo della “democratizzazione forzata” del paese, altro non è che il prodotto della realpolitik della classe politica curda che ha deciso di capitalizzare gli eventi degli ultimi anni ad essa favorevoli, che l’hanno di fatto resa semi-indipendente dal governo di Baghdad, cancellando anni di lotte intestine che hanno fatto migliaia di morti e che hanno diviso in due la regione curda solo apparentemente unificata a maggio del 2006. (Fino a maggio 2007 i quattro ministeri chiave delle Finanze, dei Peshmerga, della Giustizia e degli Interni, saranno ancora doppi)
Una riunificazione che però potrebbe vacillare e trasformare di nuovo il “pacificato” Kurdistan in una regione pericolosa se gli antichi contrasti dovessero riaffiorare e se, per ipotesi, l’obiettivo di “riportare Kirkuk nella regione del Kurdistan” (Kurdistan Regional Government Unification Agreement, 21 gennaio 2006) venisse avversato con la forza dal governo centrale desideroso di non rinunciare ai ricchissimi giacimenti petroliferi della zona, il cui presidente, è bene ricordare, è quel Jalal Talabani, leader del Patriotic Union of Kurdistan (PUK) che per decenni fu nemico giurato di Masoud Barzani, presidente del Kurdistan Democratic Party (KDP) nonchè zio dell’attuale primo ministro del Kurdistan Regional Government (KRG) Nechirvan Idris Barzani. Se ciò dovesse accadere i cristiani della regione o quelli che vi avessero trovato rifugio si troverebbero di nuovo tra due fuochi, ed in quel caso neanche il pluridecorato Sarkis Aghajan potrebbe salvarli.
15 novembre 2006
Antoine Audo, Vescovo Caldeo di Aleppo prega per la pace in Terra Santa ed in Iraq
Fonte: ZENIT
“Preghiamo insieme per i 25.000 rifugiati dell’Iraq ora fra noi”, ha affermato il Vescovo cattolico Antoine Audo di Aleppo, in Siria, nel corso di una Messa nel quartier generale di “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS) a Königstein. L’assistente ecclesiastico internazionale, Fr Joaquín Alliende-Luco, ha dato il benvenuto al Vescovo nel corso di una preghiera congiunta per la pace in Terra Santa, in Iraq e in altri Paesi arabi, così come per le intenzioni del Papa, alla vigilia del suo viaggio in Turchia.
“Dopo aver letto alcuni estratti del libro del vostro fondatore ‘Fighter for Peace’, ho notato l’importanza che padre Werenfried ha dato alla preghiera e alla comunione come parti integranti della vostra carità, che hanno la precedenza sulla raccolta di fondi”, ha detto il Vescovo. Chiedendo una nuova politica in tutto il Medio Oriente, il presule sessantenne ha sottolineato: “Abbiamo bisogno di pace a Gerusalemme, in Libano e in tutto il Medio Oriente. La guerra e la violenza distruggono il futuro di tutte le persone coinvolte”.
“Anche i cristiani hanno molta paura per il loro futuro. Molti dei 25.000 cattolici caldei, che si sono spostati dall’Iraq alla Siria si sono stabiliti lì temporaneamente sperando di potersi poi recare in un altro Paese”, ha poi aggiunto.
In Siria, su 19 milioni di abitanti islamici, 160.000 sono cristiani, 40.000 dei quali cattolici di vari riti, inclusi i rifugiati
12 novembre 2006
"Nella trappola irachena"
Fonte: Famiglia Cristiana
Il settimanale cattolico pubblica oggi un'intervista a Monsignor Jean Benjamin Sleiman, Arcivescovo cattolico di Baghdad di cui l'anno prossimo verrà pubblicato in italiano il libro edito per ora in Francia Dans le piège irakien. (Nella trappola irachena)
Leggi l'intervista collegandoti al sito di Famiglia Cristiana: http://www.stpauls.it/fc/0646fc/0646fc64.htm
Inaugurato seminario siro cattolico nel nord dell'Iraq
Fonte e foto Ankawa.com
Nella cittadina di Bakhdida (Qaraqosh) è stato inuagurato il seminario siro-cattolico di Mar Ephrem che sarà diretto da Padre Faris Tamas ed avrà come padre spirituale Padre Boutrous Moshe. Alla cerimonia di inaugurazione erano presenti Mor Gregorius Saliba Shamoun, (a destra nella foto) Vescovo Siro Ortodosso di Mosul, Monsignor Faraji P. Rahho, (a sinistra) Vescovo Cattolico Caldeo di Mosul e, naturalmente Monsignor George Qas Musa, (al centro) Vescovo Siro Cattolico di Mosul.
Nella cittadina di Bakhdida (Qaraqosh) è stato inuagurato il seminario siro-cattolico di Mar Ephrem che sarà diretto da Padre Faris Tamas ed avrà come padre spirituale Padre Boutrous Moshe. Alla cerimonia di inaugurazione erano presenti Mor Gregorius Saliba Shamoun, (a destra nella foto) Vescovo Siro Ortodosso di Mosul, Monsignor Faraji P. Rahho, (a sinistra) Vescovo Cattolico Caldeo di Mosul e, naturalmente Monsignor George Qas Musa, (al centro) Vescovo Siro Cattolico di Mosul.
11 novembre 2006
Ai Caldei, agli Assiri ed ai Siriaci iracheni devono essere garantiti i pieni diritti civili.
Il Medio Oriente, ed in particolare l’Iraq, sta vivendo un tragico periodo di fermento. In Iraq i musulmani uccidono altri musulmani in un deplorevole ciclo di vendette, ma i cristiani, sebbene non abbiano mai ucciso dei musulmani, ogni giorno ed in ogni città vengono uccisi, derubati e fatti oggetto di violenza da parte di alcuni dei loro vicini e compatrioti arabi musulmani.
Eppure alcune considerazioni storiche dovrebbero imporre il rispetto per i cristiani dell’Iraq:
a: Etnicamente e culturalmente la Terra tra i Due Fiumi fu patria degli Assiri e dei Caldei già migliaia di anni prima che gli arabi musulmani conquistassero la Mesopotamia.
b: Dal punto di vista religioso la cristianità penetrò in Mesopotamia dai suoi albori conquistando il cuore della maggior parte dei suoi abitanti, sei secoli prima dell’invasione islamica.
c: A dispetto delle difficoltà che i cristiani sopportarono durante il dominio musulmano in Iraq essi furono sempre leali verso il loro paese e verso lo stato.
Nonostante tutto ciò i cristiani iracheni, così come quelli di altri paesi a maggioranza musulmana furono e sono trattati come cittadini di seconda classe, e solo in casi eccezionali alcuni di loro sono arrivati a ricoprire cariche di rilevanza nazionale per il bisogno del governante di turno dei loro servigi. Una tale situazione di degrado civile può continuare sotto gli occhi del mondo civilizzato?
Se l’Iraq diventerà uno stato islamico, magari diviso in una regione sunnita ed una sciita entrambe regolate da una costituzione islamica, è nostro dovere, come società civile, appellarci ad ogni istituzione perché prenda una posizione ed agisca per dare giustizia ed un futuro sicuro ai cristiani in Iraq. Se i musulmani iracheni non saranno disposti a riconoscere l’uguaglianza di diritti civili ai loro compatrioti cristiani la questione dovrà superare i confini del paese ed interessare la coscienza umana nella sua interezza, e l’intervento delle istituzioni internazionali dovrà essere necessario.
Considerando gli eventi presenti gli Stati Uniti sono particolarmente responsabili a questo riguardo e dovrebbero affrontare seriamente la questione nei termini seguenti:
1: I cristiani iracheni hanno diritto, come ogni altro gruppo etnico, culturale e religioso in Iraq, ad una regione autonoma auto-amministrata nella Piana di Ninive, la loro terra ancestrale, che oggi ospita una considerevole parte della popolazione.
2: Negli antichi villaggi cristiani della Piana di Ninive e del Kurdistan sottoposti a politiche di arabizzazione ed islamizzazione il carattere etnico, culturale e religioso originario dovrebbe essere ripristinato ed ad essi dovrebbero essere garantite le risorse necessarie per rifiorire.
3: Alle città e le istituzioni cristiane in Iraq dovrebbe essere assicurata una giusta parte della ricchezza naturale della terra dei loro padri.
4: Gli Stati Uniti dovrebbero riconoscere lo status dei rifugiati e garantire visti di ingresso, in giusto numero e velocemente, ai cristiani iracheni che sono stati costretti a lasciare l’Iraq negli ultimi anni.
5: L’amministrazione americana dovrebbe assicurarsi che una giusta parte dei fondi provenienti dall’Economic Reconstruction Aid Program sia destinata al sostegno delle città e delle istituzioni cristiane in Iraq.
Eppure alcune considerazioni storiche dovrebbero imporre il rispetto per i cristiani dell’Iraq:
a: Etnicamente e culturalmente la Terra tra i Due Fiumi fu patria degli Assiri e dei Caldei già migliaia di anni prima che gli arabi musulmani conquistassero la Mesopotamia.
b: Dal punto di vista religioso la cristianità penetrò in Mesopotamia dai suoi albori conquistando il cuore della maggior parte dei suoi abitanti, sei secoli prima dell’invasione islamica.
c: A dispetto delle difficoltà che i cristiani sopportarono durante il dominio musulmano in Iraq essi furono sempre leali verso il loro paese e verso lo stato.
Nonostante tutto ciò i cristiani iracheni, così come quelli di altri paesi a maggioranza musulmana furono e sono trattati come cittadini di seconda classe, e solo in casi eccezionali alcuni di loro sono arrivati a ricoprire cariche di rilevanza nazionale per il bisogno del governante di turno dei loro servigi. Una tale situazione di degrado civile può continuare sotto gli occhi del mondo civilizzato?
Se l’Iraq diventerà uno stato islamico, magari diviso in una regione sunnita ed una sciita entrambe regolate da una costituzione islamica, è nostro dovere, come società civile, appellarci ad ogni istituzione perché prenda una posizione ed agisca per dare giustizia ed un futuro sicuro ai cristiani in Iraq. Se i musulmani iracheni non saranno disposti a riconoscere l’uguaglianza di diritti civili ai loro compatrioti cristiani la questione dovrà superare i confini del paese ed interessare la coscienza umana nella sua interezza, e l’intervento delle istituzioni internazionali dovrà essere necessario.
Considerando gli eventi presenti gli Stati Uniti sono particolarmente responsabili a questo riguardo e dovrebbero affrontare seriamente la questione nei termini seguenti:
1: I cristiani iracheni hanno diritto, come ogni altro gruppo etnico, culturale e religioso in Iraq, ad una regione autonoma auto-amministrata nella Piana di Ninive, la loro terra ancestrale, che oggi ospita una considerevole parte della popolazione.
2: Negli antichi villaggi cristiani della Piana di Ninive e del Kurdistan sottoposti a politiche di arabizzazione ed islamizzazione il carattere etnico, culturale e religioso originario dovrebbe essere ripristinato ed ad essi dovrebbero essere garantite le risorse necessarie per rifiorire.
3: Alle città e le istituzioni cristiane in Iraq dovrebbe essere assicurata una giusta parte della ricchezza naturale della terra dei loro padri.
4: Gli Stati Uniti dovrebbero riconoscere lo status dei rifugiati e garantire visti di ingresso, in giusto numero e velocemente, ai cristiani iracheni che sono stati costretti a lasciare l’Iraq negli ultimi anni.
5: L’amministrazione americana dovrebbe assicurarsi che una giusta parte dei fondi provenienti dall’Economic Reconstruction Aid Program sia destinata al sostegno delle città e delle istituzioni cristiane in Iraq.
Monsignor Sarhad Y. Jammo
Eparchia caldea di San Pietro Apostolo (San Diego) USA
Tradotto ed adattato dall'inglese da Baghdahope.
8 novembre 2006
Appello del Vescovo Caldeo di Kirkuk: "Cristiani d'Iraq, uniamoci!"
Fonte: Asia News
Vescovo iracheno chiama a raccolta i cristiani: uniti per contare di più ed avere sicurezza
Appello ai leader religiosi e politici iracheni: incontrarsi per tracciare una posizione comune sulla condizione dell’Iraq, affrontare la piaga dell’emigrazione e giocare un ruolo più attivo nella ricostruzione del Paese. Il testo dell’appello di Monsignor Luis Sako, Vescovo di Kirkuk.
Tracciare una “linea comune” sulla condizione e le problematiche dei cristiani in Iraq, “unire le richieste” su diritti e doveri politici e civili, studiare “progetti di sviluppo” per i villaggi in modo da contenere la crescente emigrazione. Sono i punti all’ordine del giorno di una riunione di tutti i leader politici e religiosi della comunità cristiana irachena chiamata dall’arcivescovo di Kirkuk, Mons. Louis Sako.
Il presule spiega ad AsiaNews l’urgenza di un tale incontro soprattutto alla luce della “difficile e rischiosa” ipotesti di creare una “zona sicura per i cristiani” in Iraq. È infatti sempre più discussa - e di recente ha trovato il sostegno anche della Chiesa statunitense - la possibilità di creare una nuova “regione amministrativa”, intorno alla provincia settentrionale di Ninive e direttamente collegata al governo centrale di Baghdad, per offrire ai cristiani maggiore sicurezza e controllo delle proprie attività.
Mons. Sako ha lanciato il suo appello dalle colonne del sito web in lingua araba ankawa.com.
Vescovo iracheno chiama a raccolta i cristiani: uniti per contare di più ed avere sicurezza
Appello ai leader religiosi e politici iracheni: incontrarsi per tracciare una posizione comune sulla condizione dell’Iraq, affrontare la piaga dell’emigrazione e giocare un ruolo più attivo nella ricostruzione del Paese. Il testo dell’appello di Monsignor Luis Sako, Vescovo di Kirkuk.
Tracciare una “linea comune” sulla condizione e le problematiche dei cristiani in Iraq, “unire le richieste” su diritti e doveri politici e civili, studiare “progetti di sviluppo” per i villaggi in modo da contenere la crescente emigrazione. Sono i punti all’ordine del giorno di una riunione di tutti i leader politici e religiosi della comunità cristiana irachena chiamata dall’arcivescovo di Kirkuk, Mons. Louis Sako.
Il presule spiega ad AsiaNews l’urgenza di un tale incontro soprattutto alla luce della “difficile e rischiosa” ipotesti di creare una “zona sicura per i cristiani” in Iraq. È infatti sempre più discussa - e di recente ha trovato il sostegno anche della Chiesa statunitense - la possibilità di creare una nuova “regione amministrativa”, intorno alla provincia settentrionale di Ninive e direttamente collegata al governo centrale di Baghdad, per offrire ai cristiani maggiore sicurezza e controllo delle proprie attività.
Mons. Sako ha lanciato il suo appello dalle colonne del sito web in lingua araba ankawa.com.
Ad AsiaNews lo stesso presule ha inviato la traduzione del testo che riportiamo di seguito.
Appello per un Convegno sullo stato dei cristiani in Iraq!
L’attuale situazione drammatica dei cristiani iracheni esige organizzare un Convegno generale in cui partecipino tutte le parti: i leader dei partiti cristiani (almeno 8), i capi religiosi (il loro ruolo consiste nell’orientare e nel conservare i valori umani, cristiani e nazionali e non fare la politica), gli intellettuali ed esperti. Alcuni esperti possono essere musulmani, per poter studiare la situazione irachena in generale e quella cristiana in modo particolare. Al termine dell’incontro è necessario stilare un documento ufficiale sulla situazione irachena e la posizione dei cristiani a riguardo.
Il raduno deve essere preparato in modo serio, prudente, globale e col consenso di tutti i partecipanti. Punti da discutere:
1. Scegliere un nome che unisca tutti i cristiani iracheni. Per esempio: assiro-caldei, caldei, siri, assiri, armeni. Oppure cristiani, comprendente tutti. La loro forza sta nella loro unità e nel loro peso culturale ed economico: la divisione conduce alla perdita dei loro diritti e del loro ruolo nazionale nella costruzione del Paese.
2. Chiarire una visione oggettiva ed integrale dell’avvenire dei cristiani in Iraq. Essi, infatti, si dimostrano emarginati e deboli. Ma la colpa è loro, perché sono divisi.
3. Unire le richieste per quanto riguarda i loro diritti e doveri in quanto cittadini, sia rispetto alla Costituzione irachena che a quella del Kurdistan, in modo che entrambi i testi soddisfino tutti.
4. Accordarsi su un piano per sviluppare i villaggi cristiani, dove la maggioranza della popolazione si trova senza lavoro e con cari affitti. Il progetto deve valutare aspetti quali: alloggi, agricoltura, scuole, università private, centri culturali e sociali. Così si può risolvere il problema dell’emigrazione con tutte quelle perdite delle capacita delle persone che esso richiede. Gli istituti religiosi europei possono aiutare ed aprire missioni almeno nella zona sicura.
5. Formare un comitato (una sorta di Lega) che unisca le diverse attività cristiane e che possa diventare il porta voce dei cristiani iracheni pur rispettando le peculiarità di ciascun partito e chiesa, senza intervenire nei dettagli.
Lo scopo è redigere un documento ufficiale chiaro, in cui si sottolinea la storia dei cristiani in Iraq e il loro contributo alla cultura: araba, curda, islamica e in cui si dimostra loro posizione verso l’ attuale situazione .
+ Louis Sako
Arcivescovo di Kirkuk
"Monsignor Najim, gli iracheni stanno rimpiangendo Saddam Hussein?"
Lunedi 6 novembre è andata in onda su Rai Uno una puntata di Porta a Porta dedicata alla sentenza di condanna emessa il giorno prima contro Saddam Hussein, accusato di aver ordinato nel 1982 la distruzione del villaggio di Dujail, nel sud Iraq, come ritorsione per un attentato alla sua persona ivi compiuto, e di aver causato così la morte violenta di 148 cittadini iracheni di fede sciita.
Gli invitati a discutere il tema erano: dalla parte dei sostenitori di un’eventuale condanna a morte dell’ex raiss, Carlo Panella, giornalista de “Il Foglio” ed autore de “Il libro nero dei paesi islamici,” Roberto Castelli della Lega Nord e Margherita Boniver di Forza Italia, rispettivamente Ministro della Giustizia e Sottosegretario agli Esteri durante il governo Berlusconi, ed Edward Luttwak del Centro di studi strategici di Washington; dalla parte di chi, invece, ricusa la sentenza emessa a Baghdad, Lilli Gruber, eurodeputato dell’Ulivo, Marco Rizzo, eurodeputato Comunisti Italiani e Monsignor Philippe Najim, Procuratore della Chiesa Caldea in Vaticano.
Il titolo del post “Monsignor Najim, gli iracheni stanno rimpiangendo Saddam Hussein?”si riferisce ad una delle domande che sono state poste al prelato iracheno. Per leggere la trascrizione dei suoi interventi clicca qui sotto “Leggi tutto.”
Per motivi di spazio il contesto in cui sono state poste le domande e date le risposte è stato riassunto, così per motivi di scorrevolezza nella lettura le risposte sono state adattate nella forma [], l’intera puntata originale è però visionabile sul sito di RaiClick indicato nel campo link.
Bruno Vespa: “Cosa pensa, [Monsignor Najim] come cittadino iracheno, del processo, della condanna e della possibilità che Saddam venga impiccato?
Philippe Najim: “[Rispondo] come cittadino iracheno e come sacerdote. Un sacerdote cattolico rifiuta sempre la pena di morte perché i principi della chiesa cattolica rispettano l’essere umano. La vita è un dono di Dio ed [in quanto tale] va rispettata [per] la sua sacralità; [in questo senso quindi] la condanna è criticata e rifiutata dalla chiesa.”
Bruno Vespa: “Ma la condanna, indipendentemente dalla pena di morte, alla quale quasi tutti sono contrari, secondo Lei è giusta?”
Philippe Najim: “La condanna deve per prima cosa essere emessa da un tribunale ufficiale, nato da un governo che goda di potestà e sovranità sul popolo iracheno. Io non so[se] questo tribunale… anche i giudici dicono che questo tribunale è stato [creato] dal primo consiglio nazionale portato [in Iraq] dagli americani. Io non so determinare quale sia la legittimità di questo tribunale [ma] secondo il diritto internazionale in periodo di occupazione nessuno può costituire un tribunale.
Carlo Panella parla delle elezioni che si sono svolte in Iraq da lui definite “libere.”
Philippe Najim: “L’Iraq non è libero, come si fa considerare le elezioni libere? Non si possono tenere elezioni sotto occupazione, anche tutti gli uomini politici ed i partiti che esistono oggi in Iraq sono stati portati da fuori, dall’America. Nessun esponente politico oggi in Iraq è iracheno, [nel senso che] stava in Iraq.”
Carlo Panella: “Erano in esilio…”
Philippe Najim: “ No, non erano in esilio, si va in esilio quando si è espulsi dal governo, ma non era il loro caso. Non c’era un’opposizione interna che si è trasferita all’estero, ma solo un’opposizione nata all’estero. Non sono stati espulsi da Saddam Hussein o dal governo, [si tratta di] gente che lavorava per il governo e poi è andata all’estero.”
Bruno Vespa: Carlo Panella ha detto che nel governo [iracheno] sono rappresentate tutte le forza che per 30 anni hanno lottato contro Saddam Hussein. Secondo Lei questo è vero o falso?”
Philippe Najim: “Io ho vissuto per 30 anni fuori dall’Iraq e di conseguenza queste forze [di opposizione] le conoscevo perché erano a Londra, in Europa, America ed altrove. Noi iracheni che vivevamo all’estero non abbiamo mai visto un’opposizione, [un’opposizione] che combattesse contro un governo..
Bruno Vespa: “Non c’era opposizione a Saddam Hussein?”
Philippe Najim: “No, non c’era, io [stesso] ho vissuto con Ayad Allawi (ex premier del governo provvisorio iracheno, nota di Baghdadhope) a Londra. Sto parlando dell’opposizione all’estero, nata all’estero…
Carlo Panella: “Anche Bakir Al Hakim? Anche lo SCIRI? Anche Al DA’WAH?” (Panella si riferisce a politici e partiti che erano in Iraq durante il periodo di Saddam, - Bakir Al Hakim in effetti lasciò il paese nel 1980 e vi tornò nel 2003 - che gli si opponevano e che per questa ragione sono stati perseguitati, ad un’opposizione interna, quindi. Nota di Baghdadhope)
Philippe Najim: “Questi sono religiosi. Non possiamo mescolare la religione con la politica, l’errore fatto di mescolare religione e politica ha messo in imbarazzo il popolo iracheno.”
Bruno Vespa: “[Secondo lei] Saddam Hussein può essere detenuto in Iraq, come sarebbe giusto, senza che questo possa provocare di nuovo scontri armati e disordini tra quelli che lo vogliono liberare, un incremento, cioè, della guerra civile e quindi il contrario del processo di pacificazione?
Philippe Najim: “Da anni parlano di Saddam Hussein, della sua cattura, della sua condanna, del tribunale, eccetera, perché praticamente il tribunale ha emesso la sua condanna sulla questione di Dujail, [sul fatto] che lui ha ammazzato 180 persone. (la sentenza in realtà riguarda l’uccisione di 148 persone, nota di Baghdadhope) Noi sappiamo [però] che ogni giorno muoiono in Iraq più di 100 persone, [che] metà di Baghdad è caduta e non è nelle mani né del governo iracheno né degli americani. Prendiamo ad esempio Al Dora, [dove] abbiamo tre parrocchie chiuse e dove abbiamo chiuso anche il seminario perché nessuno può attraversare quella zona che è chiamata “la zona della morte.”
Bruno Vespa: “Ma da chi è controllata quella zona?”
Philippe Najim:”Da nessuno…”
Bruno Vespa: “Chi spara?”
Philippe Najim: “E’ controllata da sunniti, da sciiti, da terroristi, da banditi, da tutti…perché l’Iraq oggi ha di tutto. Per questa ragione, invece di parlare della condanna, [del fatto] che lui ha ammazzato 180 [persone] , o non [le] ha ammazzate, [perché non] condanniamo gli altri che hanno trasformato l’Iraq in quello che è oggi? Ma, [aggiungo,] in tutto questo il popolo iracheno dov’è? E’ stato sottoposto a 13 anni di embargo, un embargo totale su tutta la popolazione; l’Iraq praticamente è rimasto fuori dalla comunità internazionale, con nessuna connessione [con il resto] del mondo…
Bruno Vespa: “Nel 1990 c’è stata l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Le Nazioni Unite intervengono, lui molla il Kuwait, dopodiché si decide di non andare a Baghdad, di non cacciare Saddam Hussein…. A quel punto cosa avrebbe dovuto fare la comunità internazionale? Dire “Abbiamo scherzato?” Che cosa avrebbero dovuto fare?”
Philippe Najim: “Secondo me gli stati Uniti avevano degli interessi in Iraq perciò lo hanno mantenuto [l’embargo] per 13 anni, 13 anno in cui 5 milioni di persone sono emigrate, in cui sono morti 500.000 bambini secondo le statistiche delle Nazioni Unite. Perciò tutta la sofferenza è stata pagata dal popolo iracheno…
Roberto Castelli: “Le sanzioni sono state decise dalle Nazioni Unite, non dagli Stati Uniti….
Philippe Najim: “Ma gli Stati Uniti fanno parte del Consiglio di Sicurezza…”
Roberto Castelli: “Sono parte, [ma a decidere l’embargo] sono state le Nazioni Unite, c’è una bella differenza…”
Philippe Najim: “E come mai il Consiglio di Sicurezza, di cui fanno parte gli Stati Uniti, impone un embargo di 13 anni, e come mai da tre anni [lo stesso] popolo iracheno muore ogni giorno, e come mai i cervelli, dottori, ingegneri, ecc, sono stati uccisi? L’individuo iracheno non può usufruire del suo petrolio, della sua libertà, non può neanche uscire di casa. L’Iraq sta vivendo nel caos.
Roberto Castelli a proposito del fatto che il nord dell’Iraq, a gestione curda, è pacificato rispetto al resto del paese. “Sappiamo che l’Iraq è diviso in tre zone…”
Philippe Najim: “Chi ha diviso l’Iraq in tre zone?…”
Roberto Castelli: “Io sono federalista e sono quindi contento che i curdi non siano più perseguitati da Saddam Hussein…”
Philippe Najim: “E chi perseguita oggi gli iracheni? Cosa dice del genocidio del popolo iracheno?”
Roberto Castelli: “E’ un genocidio fatto dagli iracheni…”
Philippe Najim: “No, è stato portato dall’estero”
Roberto Castelli: “Monsignore, Lei può confermare che i cristiani stanno fuggendo tutti nella zona curda perché lì trovano rifugio, è vero o non è vero?”
Phlippe Najim: “No, non è vero. Ci sono dei villaggi cristiani ma al massimo le famiglie che sono andate nel nord dell’Iraq sono 500. I cristiani stanno fuggendo in Siria, in Giordania, in Grecia…”
Roberto Castelli: “Ed anche nel nord…”
Philippe Najim: “Solo 500 famiglie…”
Carlo Panella a proposito della violenza interetnica ed interreligiosa, ciò che egli definisce un problema interno alle società arabe in cui la componente fondamentalista è pericolosa. “In Iraq la guerra civile è sul punto di scoppiare ma è una guerra di iracheni contro iracheni, tanto è vero che il 90% delle vittime sono irachene…”
Philippe Najim: “Il popolo iracheno sta morendo a causa dei terroristi che avete portato voi. Voi avete trasformato l’Iraq in una piazza per i terroristi che prima non c’erano… non c’era mai stato conflitto tra musulmani e cristiani… era un popolo compatto…”
Carlo Panella: “20.000 cristiani ammazzati nel 1930 dai sunniti Padre….”
Philippe Najim: “Voi che avete invaso l’Iraq, voi!”
Roberto Castelli: “L’Italia non ha invaso l’Iraq e Lei dovrebbe chiedere scusa all’Italia, il paese che La ospita…”
Philippe Najim: “Questa è la Sua democrazia? La democrazia che vuole trasportare su di me? [impormi?] Questa è la vostra democrazia? Non posso esprimere la mia opinione? I soldati italiani che cosa facevano in Iraq? Chi deve essere condannato?
La discussione si anima e si incentra sul ruolo avuto dalle truppe italiane in Iraq
Philippe Najim: “L’ultima volta che sono stato a Baghdad, una settimana dopo la caduta di Saddam Hussein, ho visto l’ospedale italiano ed i medici che volevano aiutare il popolo iracheno, ma io parlo della sofferenza di un intero popolo. Chi è responsabile di questo? Chi deve essere condannato oggi?”
Carlo Panella: “22 soldati italiani sono morti per permettere agli iracheni di votare…”
Philippe Najim: “E gli iracheni muoiono per colpa di chi…?
Carlo Panella: “Per colpa di altri iracheni, di arabi...”
Philippe Najim: “Lasciate l’Iraq, andate via!”
Bruno Vespa a proposito della situazione di caos in Iraq. “Gli iracheni stanno rimpiangendo Saddam Hussein?”
Philippe Najim: “ Gli iracheni vogliono una vita dignitosa, vogliono essere rispettati, capiti…”
Bruno Vespa: “Gli iracheni stanno rimpiangendo Saddam Hussein?”
Philippe Najim: “Non lo so!”
Roberto Castelli: “Non ha detto di no però…”
Philippe Najim: “Ma Lei vuole provocarmi? Io non sono un uomo politico, sono solo un sacerdote che difende il popolo iracheno.”
Edward Luttwack: “Bisogna ricordare che in Iraq ci sono sunniti, sciiti e curdi, ma ci sono anche i turcomanni, i cristiani nestoriana, gli yezidi, e poi ci sono i cristiani cattolici di rito orientale, la chiesa cui appartiene Monsignor Najim. Questa chiesa era molto favorita da Saddam Hussein e mentre il regime massacrava i curdi e maltrattava i nestoriana favoriva la Chiesa Caldea, infatti Tareq Aziz, prima ministro degli esteri e poi vicepresidente aveva fatto costruire palazzi per sé e per i suoi figli. Non mi sorprende quindi che Monsignor Najim parli in questi termini…”
Bruno Vespa: “Edward Luttwak ha detto che la Chiesa Caldea era protetta da Saddam Hussein…
Philippe Najim: “Non era protetta da Saddam Hussein, [la chiesa caldea] viveva come tutti gli altri cristiani in Iraq solo che i caldei erano il 3% della popolazione e gli assiri (quelli che Luttwak chiama nestoriani, nota di Baghdadhope) erano solo l’1% perciò (?) la Chiesa Caldea non si è mai dedicata alla politica ma solo all’insegnamento ed alle libere professioni contribuendo allo sviluppo scientifico del paese. Non interveniva nella politica, né in quella di Saddam Hussein né in quella di prima (dei precedenti governi, nota di Baghdadhope) perciò era magari favorita dal governo in quel periodo.
Roberto Castelli a proposito del fatto che secondo lui gli italiani hanno contribuito allo sviluppo di Nassiryia e che sono proprio gli abitanti di quella provincia che stanno chiedendo agli italiani di rimanere ed aiutarli, e questo “forse non fa piacere a Monsignore…”
Philippe Najim: “Forse Lei non mi ha capito. L’ospedale italiano ha fatto del bene al popolo iracheno che non lo dimenticherà….”
Roberto Castelli: “ Quello di Baghdad o quello di Nassiriya?”
Philippe Najim: “Quello di Baghdad!”
2 novembre 2006
«L’Iraq è nel caos» Ma va? Non se ne era accorto nessuno......
Fonte: La Stampa
RECORD DI MORTI AMERICANI A OTTOBRE: 104, MENTRE RUMSFELD ACCETTA LA RICHIESTA DI MANDARE NUOVE TRUPPE PER FERMARE LA GUERRA CIVILE
Il Pentagono: «L’Iraq è nel caos»
Un giornale britannico: tutte le strade per la capitale bloccate dai ribelli di Maurizio Molinari
Baghdad è assediata dalla guerriglia, le condizioni di sicurezza continuano a peggiorare e ottobre si è concluso con la morte di 104 soldati americani: le brutte notizie in arrivo dall'Iraq segnano la campagna elettorale americana e mettono in crescente difficoltà i repubblicani ma provocano anche una gaffe di John Kerry che crea imbarazzo in casa democratica. A descrivere l'«assedio di Baghdad» da parte dei gruppi della guerriglia sunnita è un reportage pubblicato ieri dal quotidiano britannico «The Independent» nel quale si descrive come le strade che collegano la capitale al resto del Paese siano state bloccate dalle bande armate, che riescono così a condizionare l'arrivo di ogni tipo di rifornimenti per la popolazione. Secondo la ricostruzione del giornale inglese i guerriglieri sunniti gestirebbero in particolare dei posti di blocco sull'autostrada che collega Baghdad alla Giordania, ostruendo quella che è la principale via di comunicazione terrestre anche per le forze americane. Ad avvalorare questa descrizione della realtà sarebbe anche un grafico redatto da analisti del Pentagono, e reso noto dal «New York Times», che descrive la situazione assai più vicina al «caos» che alla «pace». Sono questi i motivi che hanno spinto Donald Rumsfeld, capo del Pentagono, a rompere gli indugi ed accettare la richiesta dei comandi militare di inviare più truppe in tempi brevi: potrebbe trattarsi di almeno 30 mila uomini con un costo iniziale aggiuntivo previsto di almeno 1 miliardo di dollari. Alcuni analisti neoconservatori, come Fred Kagan, da tempo invocavano una simile decisione ma finora Rumsfeld si era sempre opposto: il fattore di cambiamento sarebbe l'oramai chiara difficoltà delle nuove forze irachene nel gestire la sicurezza. Proprio una parte consistente - almeno il 4 per cento - delle armi leggere consegnate dagli Stati Uniti alle unità irachene sarebbe finito nelle mani della guerriglia grazie alla collaborazione di agenti e soldati che si sono dileguati dopo essere stati addestrati proprio dagli americani. Se a ciٍ si unisce il fatto che il mese di ottobre si è concluso con un bilancio di 104 vittime per l'esercito americano - il quarto mese più insanguinato dall'inizio della guerra nel 2003 - non è difficile comprendere perché, secondo un sondaggio di Nbc-Wall Street Journal, la guerra in Iraq è il tema che più gli americani hanno a cuore durante la campagna elettorale che si concluderà con il voto del 7 novembre per il rinnovo del Congresso. Lo scontento sulla guerra spiega il vantaggio di 15 punti che i democratici hanno maturato sui repubblicani a livello nazionale: un dato condizionato dalla sfiducia nei confronti della Casa Bianca a dispetto delle buone notizie arrivate dal fronte dell'economia, tanto sui record di Wall Street che sul calo del prezzo della benzina. Al fine di aumentare la pressione sui repubblicani Hillary Clinton ha puntato l'indice sul presidente George W. Bush come «maggior responsabile degli errori compiuti assieme al premier iracheno Al Maliki». Ma a scivolare sull'Iraq è stato anche John Kerry, il senatore democratico del Massachussetts ex candidato presidenziale nel 2004. Tutto è nato da una frase pronunciata durante un comizio in California nella quale ha suggerito ai giovani di «essere bene istruiti» per «evitare di rimanere incastrati in Iraq». La Casa Bianca, e lo stesso Bush, hanno rimproverato a Kerry di aver «offeso le truppe» lasciando intendere che chi veste la divisa è una persona poco istruita. I democratici temono il rischio di un boomerang elettorale e lo dimostra la decisone di alcuni candidati in Iowa e Pennsylvania di cancellare all'ultimora previste apparizioni pubbliche a fianco di Kerry. Nel tentativo di rimediare alla gaffe il presidente del democratici, Hoard Dean, ha parlato di «battuta infelice» ma non è bastato perché il tam tam dei blogger conservatori aveva già inondato il web del filmato galeotto. Da qui l'affondo di Hillary contro la «battuta infelice» e la marcia indietro di Kerry con un pubblico mea culpa, nel tentativo di chiudere il caso, non rovinare la corsa dei democratici verso il Congresso e non pregiudicare anche ciò che resta delle sue aspirazioni ad una candidatura nel 2008.
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