By Daniele Rocchi
Erano 1 milione e mezzo durante il regime di Saddam Hussein, 400mila oggi. In 4 anni sono state distrutte 50 chiese, uccisi tre sacerdoti, sono stati cacciati da posti pubblici. Molti costretti a cedere terreni e abitazioni, pena la morte, obbligati a lasciare città e villaggi di origine, a trovare rifugio in Giordania, Siria, Libano e nel Kurdistan iracheno. Queste cifre dipingono la drammatica condizione in cui versano le comunità cristiane nell'Iraq di oggi. Ne abbiamo parlato con l'arcivescovo di Baghdad dei Latini, mons. Jean B.Sleiman.
Si parla di una diminuzione della violenza a Baghdad. È vero o è solo propaganda?
"L'impressione è quella di una violenza attenuata. Ma potrebbe trattarsi anche di un inganno perché la violenza si trasforma, i protagonisti cambiano e con essi anche i modi. Non c'è ancora una soluzione in vista e fino a quando non verrà trovata non si può parlare di futuro per l'Iraq. Il sogno di emigrare è grande anche tra chi, oggi, vive al sicuro. Nessuno può garantire il domani".
Nemmeno il governo?"
"La parola futuro in Iraq fa rima con miracolo. I problemi dell'Iraq sono complessi e credo che fino ad oggi non si è lavorato per risolverli. Ogni fazione, ogni attore nello scacchiere interno al Paese ha i suoi interessi e non pensa al futuro del Paese. L'Iraq, il Paese del petrolio, non ha benzina per il suo popolo. L'Iraq è ancora all'abbandono".
Tutta questa violenza era, in qualche modo, prevedibile?
"La società irachena durante il regime di Saddam Hussein era congelata. Una volta caduto Saddam sono esplosi conflitti politici, etnici e confessionali che covavano ma che non erano mai stati risolti. La dittatura con la violenza aveva obbligato tutti a tacere. Ora le antiche ferite si riaprono. È il tempo della resa dei conti".
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Il Governo parla di riconciliazione e a riguardo ha anche emanato una legge che reintegra funzionari di secondo livello dell'ex partito Baath di Saddam Hussein...
"Si parla di riconciliazione politica ma è solo compromesso: tu prendi 2 ministri, a un altro se ne garantiscono 3 e via dicendo. La legge che reintegra funzionari del partito Baath promulgata per riconciliare sciiti e sunniti può aiutare ma bisognerà vedere come verrà applicata. Torneranno delle figure baathiste e con esse dei sentimenti di vendetta. È opportuno ricordare che molti erano nel partito per obbligo e non per scelta e non tutti si sono macchiati di crimini. Una punizione collettiva per gli ex baathisti è ingiusta".
La violenza generata dallo scontro tra sciiti e sunniti e dalla mancanza di sicurezza colpisce anche i cristiani. Le sofferenze dei cristiani sono uguali a quelle dei musulmani?
"Quando esplode un'autobomba la morte non fa distinzione. Tra sciiti e sunniti ci sono scontri e pulizie etniche. I cristiani non hanno mai sequestrato una persona, non hanno mai fatto del male, subiscono solo. È una differenza importante. I cristiani, in quanto minoranza, sono deboli e non protetti dalle forze dell'ordine. Non vogliamo distinguere tra chi soffre di più e di meno ma il dolore inflitto alle minoranze è gratuito".
È corretto allora parlare di persecuzione?
"In certi casi è giusto parlare di persecuzione, in altri di pressione. Non si può dire che esistano dei piani organizzati per perseguitare i cristiani ma in certe situazioni serve parlare di persecuzione come per il quartiere cristiano di Dora, a Baghdad, dove intere famiglie cristiane sono state costrette alla fuga per non cedere le proprie figlie a fondamentalisti islamici, per non convertirsi a forza all'islam, per non pagare la tassa sulla protezione, per non essere uccise. Fortunatamente non è così dappertutto".
Per fronteggiare la violenza contro le comunità cristiane era stata proposta la creazione di un'enclave cristiana nella Piana di Ninive. È d'accordo?
"No. È un progetto fatto per i cristiani ma non per il loro interesse. I cristiani a Ninive formerebbero una comunità assediata, priva di mezzi per sopravvivere. Ogni isolamento è grave, tanto più per i cristiani chiamati ad essere aperti agli altri. Sarebbero un cuscinetto tra sciiti, sunniti e curdi".
L'esodo dei cristiani dall'Iraq nei Paesi vicini potrebbe favorire un riposizionamento delle comunità cristiane in Medio Oriente?
"Rispondo con un esempio: il Libano un tempo era una meta ambita dei cristiani che emigravano oggi non più. Lo spettacolo che offre il Libano è quello di un Paese in preda ad una crisi politica che genera anche violenza. Non credo, quindi, a un riposizionamento in Medio Oriente quanto piuttosto a una emorragia fuori della regione".
A suo avviso, allora, è fondato il rischio della sparizione dei cristiani dall'Iraq?
"Nei cristiani iracheni c'è la forte paura del domani. Vivono una tragedia che termina con un auto-esilio. Il rischio è fondato. Qualcuno prova a rientrare ma sono pochi. C'è una sofferenza psicologica poiché tornare significa non aver realizzato niente. Molti per partire hanno venduto tutto, lasciato il lavoro ed è difficile ritrovarlo. Il sentimento più diffuso tra i rifugiati cristiani è quello di aver perso legami con la patria, con la sua cultura. Molti arrivano a dire: questa non è più la mia terra".