"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

28 aprile 2017

Iraqi priest: "We must even forgive those who guided ISIS to our homes"

By Rome Reports


They Were Screaming In Fear Of Being Left Without Food For Easter

By Huffington Post
Nuri Kino

People fled their homes head over heels. Some of them barefoot, other in their pyjamas. They were given three choices; convert to Islam, pay extortion money (a so called religion tax) or die. They created a fourth option for themselves, fleeing. During the escape they were stopped and searched. Anything on them of value, was seized and stolen from them.
I am in Beirut, meeting people who have fled Iraq and Syria, most of them coming here to Lebanon. When having reached their destination another struggle begins, the one for survival. They get no financial support from the Lebanese government and the aid from the UN has dried up. They need to support themselves somehow.
There are almost two million refugees in Lebanon. Every fourth person is a refugee. Inflation has sky rocketed and living expenses are very high. Many live in sublet apartments. The average rent for an apartment in the Beirut slum is around 500 USD per month, money that relatives and friends send to the refugees. But for how long will relatives in countries like Sweden be able to support them, sending money every month? The very few who are lucky enough to find employment make 350 USD, at the most.
Some have contacted NGO:s for help with the bare necessities. One of these organisations is the Syriac League, an organisation that we in A Demand For Action (ADFA) cooperate with.
300 of the neediest families had been contacted to receive a bag of groceries so as to be able to cook Easter food. We handed out the bags in a church hall in Beirut. 
The family names were called up in a microphone and they came up to collect their grocery bags.  
When the supplies were beginning to dwindle a hundred people rushed at us, screaming in desperation and fear of being left without. I took a picture and posted it on Facebook. A few minutes later an American called up Siham, one of the Syriac League leaders. He told her that he wanted to give 50 USD to every family who did not get a grocery bag. We took their names. But they wanted more, they wanted help. Help with getting out of the Middle East. 
They belong to Assyrian/Chaldean/Syriac and other minorities and have lost all faith in peace in Iraq and Syria. The latest terrorist attacks against the Copts in Egypt had them queuing outside of embassies and consulates here in Beirut, they are looking for a way out.
Some of them showed us their war injuries, other held up their sick children. They also told us of what they owned before they had to flee. Many of them were doctors, engineers, lawyers or business owners in their home countries. Now they are penniless refugees.
An hour later we cleaned out the church and had prepared seating arrangements for 300 children who were invited for an Easter party with entertainment, a magician and a small circus were there. We handed out sweets and something to drink. Towards the end of the party, all the children received gifts. It only took a few minutes before we lost control, many other children came to the venue after the rumour had spread that refugee children were receiving gifts. About half of the children were left without a present.
Gebran, one of our volunteers became ashen in his face, started sweating and told us that his left arm hurt. He got a heart attack due to the stress.
The day after we served Easter lunch to 300 other refugees, a lunch we prepared ourselves. When I posted about this on Facebook, one of the comments from Sweden said; “All this while our old people here get crappy food! Nobody cooks food like this for them.”
I understand the thought behind a comment like that. My friends an I ran an assisted living service for two years. A big part of our business was managed through voluntary work, time we put in that we did not get paid for from the municipal. But we put those extra hours in gladly. I also feel for the poorest Swedish pensioners, and I have cooked for many of them in the past as well.
But we need to think and act as fellow humans now, wherever the need is the greatest. We continue our work in Lebanon. Tomorrow we are going to visit the sick and continue to raise money through social media so as to be able to pay for hospital bills for those that need it. And to those that think that elderly Swedes, Germans or Americans should also be invited to a party, I agree. But, please, take some initiative and make it happen. 

*Babilona Khosravi from Sweden and Evette Haddad from Canada also contributed to this report

27 aprile 2017

Papa in Egitto. Patriarca Sako, “la visita sarà un intenso appello alla pace. Tutti uniti contro il terrorismo, sciiti, sunniti e cristiani”

By SIR
Daniele Rocchi

In procinto di partire per l'Egitto, dove parteciperà alla conferenza internazionale di pace di al-Azhar per poi seguire Papa Francesco nella sua visita apostolica al Cairo (28 e 29 aprile), il patriarca della Chiesa caldea, Louis Raphael I Sako, ribadisce l'importanza del dialogo islamo-cristiano quale barriera contro il fondamentalismo e il terrorismo, la necessità di separare Religione e Stato, dando priorità alla tema della cittadinanza e dei pieni diritti per tutti i cittadini, a prescindere dalla fede professata. L'urgenza della riconciliazione tra Sciiti e Sunniti.

Seguirà il Papa nella sua visita in Egitto, parteciperà alla conferenza internazionale di pace di al-Azhar e pregherà con altri patriarchi al “Muro dei martiri” nella chiesa di san Pietro, attaccata dall’Isis lo scorso dicembre. “Anche noi abbiamo martiri nella nostra chiesa. Sono 14 anni che soffriamo, piangiamo fedeli, sacerdoti, un vescovo. Portiamo i nostri martiri nel cuore”. Il patriarca della Chiesa caldea, Louis Raphael I Sako, è in partenza per l’Egitto, dove parlerà alla conferenza per la pace (28 aprile) di al-Azhar, che vedrà anche l’intervento di Papa Francesco, in una delle tappe del suo viaggio apostolico (28 e 29 aprile) al Cairo.
Beatitudine, la pace è il tema della conferenza di al-Azhar come anche del viaggio papale, “Il Papa della pace nell’Egitto della pace”. Lei parteciperà al convegno, cosa dirà nel suo intervento?
Ribadirò che le autorità religiose devono fare tutto il possibile per la pace, riconoscendo l’altro, rispettando i diritti dell’uomo, promuovendo la separazione tra religione e Stato e dando priorità alla cittadinanza e non alla religione che resta una scelta personale. Uno Stato in cui tutti i cittadini sono uguali e hanno gli stessi diritti.
È necessario sconfiggere l’ideologia fondamentalista, una vera epidemia, attraverso un insegnamento aggiornato, aperto, parlare delle altre fedi e religioni con rispetto e positività e non cercare di evidenziarne le differenze.
Tutti sono fedeli. Non solo i musulmani. Non fare degli altri credenti un obiettivo. Questa mentalità va cambiata.
Sin da quando era arcivescovo di Kirkuk ha sempre ricercato il dialogo e l’incontro con l’Islam. È solo questa la strada da seguire?
Non c’è altra soluzione che il dialogo. Le armi producono violenza, morte, distruzione, rifugiati, sfollati. Dialogando, invece, si poss
ono intravvedere delle soluzioni. Dal dialogo e dalla conoscenza possono scaturire perdono e riconciliazione. Ma serve la collaborazione di tutti.
Vivere nel passato, nelle vecchie ferite, covando vendetta non serve a nulla. Per costruire un futuro di pace serve anche il perdono reciproco.
Al-Azhar sembra aver intrapreso questo cammino come testimoniano la prossima conferenza di pace e il congresso islamo-cristiano del febbraio scorso, cui lei ha partecipato insieme al patriarca maronita, card. Bechara Boutros Rai, sul tema “Libertà e cittadinanza: differenze e integrazione”…
Sì, ma ci vuole coraggio. Senza coraggio non esiste futuro. Oggi non si può più parlare in termini di maggioranza e minoranza ma di cittadini con eguali diritti e doveri.
Credo che il mondo islamico stia prendendo coscienza che senza i cristiani non può fare molto perché l’esperienza cristiana in Medio Oriente produce apertura.
In occasione del congresso del febbraio scorso, con il card. Boutros Rai, abbiamo incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi che ha ribadito che non si può più parlare di copti e musulmani, di maggioranza e minoranza, ma solo di egiziani. Per arrivare a questo traguardo occorre fronteggiare il fondamentalismo, brodo di coltura del terrorismo che minaccia cristiani e musulmani. Dobbiamo essere uniti contro questa ideologia. La comunità internazionale cerchi chi finanzia i terroristi.
Ma come evitare che una religione possa radicalizzarsi diventando un’ideologia da imporre con il terrore?
Lo ripeto. Va proposto un insegnamento moderato della religione, cercando di evidenziare i punti in comune con altre fedi, non erigere muri, barriere tra gli uomini. Le religioni vanno accettate.
    L’Islam è chiamato al suo interno a una esegesi del testo, dei versetti,  contestualizzandoli. Insegnamenti aperti, positivi e rispettosi.

Che senso ha oggi parlare male di ebrei e cristiani, che pericolo rappresentano? Forse potevano esserlo al tempo di Maometto. Ma oggi? I cristiani in Iraq sono meno di 500mila che pericolo rappresentano per i musulmani? Siamo persone pacifiche.
Nel videomessaggio per la sua visita in Egitto, Papa Francesco ha affermato di venire “come amico e come messaggero di pace”. E poi ancora: “Desidero che la mia visita sia un abbraccio di consolazione e di incoraggiamento a tutti i cristiani del Medio Oriente”.
Papa Francesco viene per abbracciare anche i musulmani per un nuovo rapporto amichevole e fraterno. Non viene solo per i cristiani. Vuole parlare di riconciliazione, di conversione del cuore, di apertura. La sua vicinanza a questa Chiesa perseguitata è enorme ma lo è anche per i musulmani.
La visita sarà un intenso appello alla pace, alla sicurezza e alla stabilità del Paese.
Stabilità e sicurezza sono urgenze anche in Siria e Iraq, paesi in guerra dove il terrorismo è dilagante. Come risolvere queste crisi?
Prima di tutto occorrono governi forti che sappiano garantire sicurezza a tutti i suoi cittadini e ordine al suo interno. Poi mettere fine ai discorsi di quegli Imam che incitano alla violenza. Alla sconfitta militare dei terroristi deve corrispondere anche la loro sconfitta sul piano religioso e culturale. La sfida più grande dell’Islam è porre fine all’ideologia terrorista. I musulmani devono confrontarsi con questa mentalità come anche il mondo intero. Anche gli sciiti devono fare la loro parte.
Sciiti e Sunniti devono essere uniti, riconciliarsi e collaborare con tutti per il bene dei loro Paesi.
Quali riflessi potrà avere questo viaggio in Egitto per il Medio Oriente?
Papa Francesco è un sacerdote profeta. Sa pregare e indicare le giuste azioni da intraprendere per costruire la persona umana, per aprire l’orizzonte verso un futuro migliore. Porta consolazione e sostegno morale, umano e spirituale come solo un Papa sa fare. Riesce a dare senso a tutto, scopre e legge i segni dei tempi e aiuta a interpretarli. Ciò che dice esce dal suo cuore che è quello di un profeta di oggi.

Displaced Iraqi Christians open sweet factory in Erbil

By WorldWatch Monitor


In his new factory, surrounded by sesame seeds, pistachios and sugar, Rabeea dips his spatula into a large vat of honey-coloured syrup. He’s checking its consistency to see if it’s ready for the next step in the production of traditional Iraqi sweets, like sorjuq or halqoum.
“We deliver our products to shops all over the country,” he says. “But most of the sweets go to Suleymaniyah, Zakho and Shaklawa [towns across north-eastern Iraq]. We even have requests from abroad, but for now, with the current situation in our country, that is impossible.”
Rabeea, 38, opened the factory in March to provide a living to families like his own, who sought refuge in Erbil in August 2014 when Islamic State forced many Christians to flee their towns in the Nineveh plains.
Although the Church in Erbil welcomed them as guests, they wanted to earn their own income and be less reliant on aid provided to internally displaced people.
Rabeea is a good choice to manage the factory – he ran a similar one in his home city of Qaraqosh, and his face still lights up when he talks about it, although he describes life in Iraq now as “very difficult”.
Christian charity Open Doors helped Rabeea set up his business, which is now flourishing, with plans to add to the current workforce of four other displaced Christians.
The factory is on the first floor of a rented building on the main street in Erbil’s Christian neighbourhood of Ankawa.
“We produce all kinds of sweets that are common in our country, but for now we have a limited variety because we don’t have the machines. We could do more, but this is a good start,” Rabeea says.
Close to the big windows that fill one whole side of the room, three men wearing blue hygiene caps over their hair, work at a stainless steel table covered in flour. One takes out a slab of halqoum from a large metal baking sheet, puts it on the floured work surface and cuts it into quarters. He pushes each piece to the next man, who, using a long, curved knife, cuts the quarters into strips a few centimeters wide. The final man in the chain rolls the strips in flour and cuts them into cubes. The sweets are then ready to be packed in small plastic boxes.
The room also stores their raw ingredients: sacks of sugar piled high, buckets of walnuts and sesame seeds. There are enough ingredients to produce many sweets.
The finished products sit on a large table in the middle of the factory floor – hundreds of sesame and honey cookies. Another table is full of boxed sweets made with coconut, pistachios or almonds.
The worker who cut the halqoum into quarters says: “I am from Qaraqosh. I have been displaced since 6 August 2014 because of Islamic State. When I came here with my family, we had nothing. I am so happy with this work. I am thankful to the organisation that employed us.”
Like his colleagues in the factory, he is now able to provide an income for his family and to start saving money to one day restore their damaged house in Qaraqosh.
Rabeea hopes to return too; the machinery and tables in the factory could easily be moved to another location.
“One day we might be back in our places again; we can continue there,” he says.

26 aprile 2017

Iraq: patriarca Sako, “siamo un piccolo gregge, ma siamo dinamici”

By SIR
24 aprile 2017

“Nella Piana di Ninive, l’Isis ha occupato tutta la regione e ha cacciato via i cristiani e altri. Ora la maggior parte della zona è stata liberata. Io sono stato lì 4 volte per dire: ‘Questa terra è nostra, non dev’essere occupata da un altro’. Abbiamo incoraggiato la gente a tornare, e ora a Teleskuf, per esempio, ci sono 400 famiglie che con il loro parroco hanno celebrato la Pasqua nel loro villaggio. Questo è successo anche a Baqofa e a Batnaya, mentre a Mosul ci sono 5 famiglie”.
È la testimonianza che questo pomeriggio il patriarca caldeo di Baghdad, Louis Raphaël I Sako, ha voluto condividere durante la celebrazione eucaristica che ha concluso la terza giornata della 40ª Convocazione nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo in svolgimento a Rimini. “Oggi qui ho sentito gioia e libertà, atmosfera familiare, spontaneità e pace”, ha ammesso Sako, riconoscendo che “tutto questo ci manca in Medio Oriente”.
“La Chiesa e i cristiani sono invitati a denunciare ingiustizia, ignoranza, povertà, malattie, disoccupazione e rispetto della libertà e della dignità delle persone. Questo deve capire il nostro mondo, soprattutto quello mediorientale”, ha ammonito il patriarca. “Torno in Iraq con tanto coraggio e tanta speranza. Siamo un piccolo gregge, ma siamo dinamici”. “Siamo molto apprezzati – ha spiegato il patriarca – perché abbiamo una missione verso i nostri fratelli concittadini musulmani che non sono fanatici. Sono gente molto brava, che ha sofferto come noi per l’Isis”.

21 aprile 2017

Sacerdote caldeo: il 24 aprile data “simbolica” della ricostruzione della piana di Ninive


Il 24 aprile è “la data simbolica” che segnerà l’inizio dei lavori di “ricostruzione” di case e chiese dei villaggi e delle cittadine della piana di Ninive, devastate in questi anni dai miliziani dello Stato islamico (SI). È quanto racconta ad AsiaNews don Paolo Thabit Mekko, 41enne sacerdote caldeo di Mosul, secondo cui è “importante” iniziare i lavori e realizzarli “rapidamente” per impedire la fuga di altre famiglie cristiane dalla regione.
Secondo una prima valutazione confermata dal sacerdote, per sistemare “oltre 12mila case” distrutte o danneggiate in modo più o meno grave; serviranno “almeno 200 milioni di dollari”, aggiunge, anche se la cifra potrebbe aumentare in futuro.
“Abbiamo i documenti - spiega don Paolo - che attestano i danni e i fabbisogni per la ricostruzione. Sono dati riferiti alle devastazioni occorse in ciascun villaggio”. In ogni località, prosegue, “vi è un ufficio per la ricostruzione e ogni villaggio riceve dei fondi. Il denaro ricevuto viene distribuito in percentuale secondo il fabbisogno”.
Don Paolo è responsabile del campo profughi “Occhi di Erbil”, alla periferia della capitale del Kurdistan irakeno, dove nel tempo hanno trovato rifugio centinaia di migliaia di cristiani (insieme a musulmani e yazidi) in seguito all’ascesa dello SI. La struttura ospita ancora oggi 140 famiglie, circa 700 persone in tutto, con 46 mini-appartamenti e un’area per la raccolta e la distribuzione di aiuti. A questo si sono aggiunti un asilo nido per i più piccoli, oltre che una scuola materna e una secondaria. Molti di questi profughi arrivano proprio da Karamles, dove la domenica delle Palme si è celebrata la prima messa nella chiesa devastata dai jihadisti di Daesh [acronimo arabo per lo SI].
Ancora oggi a Erbil e nel Kurdistan irakeno vivino migliaia di famiglie di sfollati, fino a 14mila (pari a 90mila persone) secondo alcune fonti. La gran parte di queste famiglie, circa 4/5 dipendono dagli aiuti per la sopravvivenza quotidiana, per questo diventa ancora più urgente il lavoro di ricostruzione e il rientro degli sfollati.
In occasione della Settimana Santa lo stesso don Paolo aveva lanciato un appello alle parrocchie e ai fedeli sparsi nel mondo, perché ciascuna comunità cristiana “adotti” la sistemazione o la ricostruzione di un’abitazione della piana di Ninive. “Per maggio abbiamo in programma la pubblicazione della stima dei lavori - afferma il sacerdote caldeo - con i fondi attualmente a disposizione”.
Il 24 aprile, il giorno seguente la festa di san Giorgio, viene presentato come “data simbolica di inizio dei lavori di ricostruzione”. In quell’occasione, racconta don Paolo, “celebreremo una messa proprio nella chiesa di san Giorgio a Karamles. In questo momento, grazie al contributo di alcuni volontari, stiamo ultimando i lavori di pulizia del luogo di culto, come fatto in precedenza per la chiesa di Mar Addai, per poter celebrare la funzione eucaristica insieme alla comunità”.
La ricostruzione riguarderà alcuni fra i più importanti centri cristiani della piana: Qaraqosh, Bartella, Karamles, a lungo nelle mani delle milizie jihadiste che all’intero hanno compiuto orrori e devastazioni. “Abbiamo chiesto aiuto anche agli stessi sfollati - prosegue il sacerdote - rivolgendoci a muratori, idraulici, geometri, elettricisti. L’opera di ciascuno sarà essenziale per la rinascita di questa terra”. Inoltre, partecipando ai lavori “gli stessi sfollati potranno beneficiare di uno stipendio per poter sostenere i bisogni delle rispettive famiglie”.
Ad oggi il patriarcato caldeo ha messo a disposizione un fondo, cui si aggiungeranno [questa la speranza di don Paolo] donazioni e contributi di fondazioni, enti e associazioni che partecipano ai lavori. “Saranno i profughi stessi a mettersi in gioco per la ricostruzione - aggiunge - e questo è elemento di doppia soddisfazione. La piana sta cambiando volto dopo l’Isis, ci vorrà del tempo per ricostruire ma bisogna fare in fretta. Molto dipenderà dai soldi che arriveranno, ma il tempo stringe; l’inizio dei lavori è un messaggio importante per i profughi della piana, è un invito a rimanere per ricostruire, quando ancora oggi molti pensano alla fuga, all’esodo, all’estero”. “È importante restare qui - conclude don Paolo - come cristiani e come comunità irakena. Siamo il popolo che parla ancora la lingua di Gesù, se andiamo via tutto sarà cancellato. La zona ormai è quasi del tutto messa in sicurezza, in alcuni terreni si nascondono ancora mine ma i lavori procedono. Bisogna proseguire senza sosta e con un rinnovato entusiasmo”.

18 aprile 2017

Resolute Iraqi refugees in Turkey take part in Holy Week

Cécile Massie,


Iraqi priests traveled the length and breadth of the historical region of Cappadocia in Turkey during Holy Week in an effort to meet the 1,200 Iraqi Christians who have taken refuge there.
Fr Jacques Mourad, a member of the Deir Mar Moussa community who is based in Syria was responding to an invitation from the vicar apostolic of Anatolia, Bishop Paolo Bizzeti.  Fr Mourad is well known for having escaped from an ISIS jail in October 2015 after four months of captivity.
In the five cities that they visited together, they were able to meet many families who have been living in Turkey for more than two and a half years after fleeing the ISIS advance in Iraq.
All have submitted immigration requests to the UNHCR and they are now waiting for the results. Yet would they consider staying in Turkey? Youssef, who has been set up in Kirsehir does not think so.
“We suffer too much discrimination on a daily basis,” he said. “Finding work is very complicated both as an Iraqi and as a Christian. Those who manage to do so are underpaid.”
The Holy Week ceremonies were arranged according to the various needs and the possibilities available. Several masses were even organized overnight. Some local churches were unable to be used after being closed down, transformed into cafes or even on the way to becoming museums.
So the masses were sometimes celebrated in improbable party rooms illuminated with mirror balls or even sometimes in family homes.
At Nevsehir, 34 people originally from Bartella, Baghdad or Mosul joined in for their first mass since Christmas, pressed together in a narrow lounge room with curtains drawn.
Their eagerness to welcome the two priests and to talk with them revealed the solitude many had experienced in exile. The testimony of Fr Mourad, who now lives in Iraqi Kurdistan, created a bond while his strength and message of peace brought comfort.
At each stage of their journey, the priests visited the sick. Lahib came from Mosul where he was operated on nine months ago for brain cancer. He cried and thanked God for being able to start walking again. The two priests came to celebrate mass with him.
“During the last Supper, Jesus expressed his desire to share the Paschal feast with his disciples,” Fr Mourad told him. “Through communion today and the opportunity to celebrate mass with you, it is not my desire but Christ’s that is being realized. He wants to be with you and to bring you hope.
Lahib smiled and thanked him again.
On Holy Thursday, Bishop Bizzeti addressed a gathering of 250 Christians meeting in an overdecorated marriage hall.
“The genuine church is not built of cathedrals but of a community assembled in spite of everything,” he said.
After mass, people had to leave rapidly because the hall had only been rented for two hours. Outside it was raining and everyone quickly dispersed.
And so Youssef welcomed the two priests to his own home for the evening. It was an opportunity to discuss the difficulties of the community.
Theological issues also emerged and, through them, the desire to be able to justify their faith to the Muslim community, with the issue of the Holy Trinity at the forefront of their concerns.
Meanwhile, delicately but firmly, Bishop Bizzeti attempted to bring the families around to a more realistic appreciation of their chances of obtaining a visa. Privately, he also returned to the issue of exile.
“I have great admiration for these men and women who have maintained their deep faith in such difficult times,” he explained.
“However, they need to understand that only a minority will be able to leave and that they need to find a means to establish themselves now in this country,” he said.
The only room that really serves as a church is at Kayseri is a third-floor office in a building in the center of town. The local Protestant community has arranged space there and obtained approval for it from local authorities.
It was here that the Easter services were celebrated on Saturday afternoon in order to allow some people to come from the cities previously visited – sometimes after a long bus trip.
The Easter service took place without a cross or a procession. At the end of each mass and even more so on Saturday, joy and gratitude were visible on the faces of many.
“These people are here because they are conscious of their right to life and they have a solid faith,” concluded Fr Mourad as he prepared to leave Turkey. “The celebration of the resurrection strengthens the hope they have in their hearts.”

In Iraq in marcia per la pace

Luca Attanasio

«Stavo riflettendo da tempo su una iniziativa simbolica per educare la gente alla pace e al dialogo, così, d’accordo con i miei collaboratori e una donna tedesca di origini greche che ha già esportato nel mondo progetti simili, ho pensato di lanciare la Marcia Interreligiosa della Pace». Il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphaël I Sako, spiega così a Vatican Insider la genesi della originale manifestazione voluta dal suo patriarcato per dimostrare unità e desiderio di convivenza al di là di guerre e divisioni etnico-religiose: un cammino interconfessionale tra i villaggi della Piana di Ninive che «unisse idealmente tutti i popoli della terra nell’attesa della resurrezione dell’Iraq»La scorsa Domenica delle Palme, al termine della liturgia di apertura della Settimana Santa, 40 pellegrini di varie nazionalità, religioni e confessioni - divenuti un centinaio lungo i circa 150 chilometri di percorso - sono partiti da Erbil alla volta di Alqosh, armati di rami di ulivo, zaini e la speranza di trascorrere una Pasqua finalmente di pace. Nel corso di tutta la settimana santa, hanno attraversato a piedi la martoriata area del nord dell’Iraq, fermandosi in varie tappe e arrivando a lambire Mosul, l’antica Ninive, zona di presenza cristiana da millenni.
 
Secondo la tradizione, infatti, da queste parti si è spinto San Tommaso che con un ristretto gruppo di discepoli, fondò la prima comunità in Assiria. Nell’antichissima chiesa omonima - Mar Toma - sono conservate le sue reliquie.  Dalla caduta di Saddam Hussein, la storica, pacifica convivenza tra le popolazioni locali che annoverano etnie diverse e seguaci di varie fedi – curdi, arabi, islamici, yazidi, mandei – ha segnato una brusca interruzione. Prima che i villaggi finissero definitivamente nelle mani dello Stato Islamico, i cristiani e le minoranze dell’area hanno subìto massacri, durissime repressioni, violenze di ogni genere uniti a continue pressioni ad allontanarsi. 
«È stata un’occasione meravigliosa per diffondere un senso di pace e unità e ritrovare quello spirito di coabitazione che mancava da tempo - dichiara soddisfatto mar Sako -. Penso che la Marcia sia stata un simbolo e che avrà un impatto molto forte su tutto l’Iraq. Tanti pellegrini hanno camminato per 150 chilometri insieme, tra essi molti cristiani caldei, cristiani occidentali, siriaci, musulmani e yazidi. Nel corso della marcia, hanno incontrato uomini e donne di ogni confessione religiosa, in maggioranza islamici, e tutti sono stati accolti come fratelli e sorelle il cui unico desiderio è la pace in Iraq».
Nella giornata di giovedì 13 aprile, il  patriarca ha raggiunto i pellegrini e ha  celebrato la messa in Coena Domini nel villaggio di Mella Baruan dove negli ultimi mesi hanno cominciato a far ritorno un centinaio di famiglie. In questo luogo che sta ritrovando la forza di ricostruire e ripartire, Sako ha lavato i piedi a dodici persone, tra cui islamici e yazidi, e colto l’occasione per richiamare tutti all’incontro sincero: «Nell’omelia ho detto che oltre a sminare i villaggi (la zona è disseminata di mine anti-uomo, ndr), bisogna sminare il cuore e la mente. Bisogna uscire tutti definitivamente dalla logica di Daesh, secondo cui il seguace di un’altra religione o confessione è un infedele. Ecco, diciamo basta una volta per tutte alla logica dell’infedele».
L’ultima tappa della marcia si è svolta a Telleskof, nei pressi di Alqosh, un villaggio preso dall'Isis e liberato due anni fa senza che però vi si potesse fare ritorno a causa della prossimità delle truppe jiahdiste. «Solo due mesi fa – spiega padre Thabet Yousif Mekko, parroco di Karemles, una cittadina a poca distanza da Mosul – hanno potuto finalmente tornare a Telleskof oltre 300 famiglie, un segno di grande speranza. Le case erano distrutte ma la Chiesa caldea ha provveduto alla ricostruzione. L'esercito iracheno ora è presente nell’area ed è stato siglato un accordo per iniziare la ricostruzione a partire dal 24 aprile anche in città come Bashiqa o Bartella. Il 24, se almeno sarà stata allacciata la corrente elettrica, spero di poter celebrare la prima messa da anni nella chiesa di San Giorgio». 
«Noi cristiani – conclude il patriarca abbiamo sofferto moltissimo negli ultimi anni, ma dobbiamo evitare di esagerare le dimensioni di questa sofferenza. Ci sono gruppi come gli yazidi che sono stati sterminati, le violenze sulle loro donne sono state terribili. A Mosul, poi, ci sono stati 4mila morti e 10mila case distrutte, e i cristiani, a confronto di altri gruppi, hanno certamente subìto meno danni. Se poi andiamo a valutare i 4 milioni di rifugiati nei campi profughi, i cristiani sono pochissimi. Non voglio certo fare una classifica della sofferenza, dico questo per evitare strumentalizzazioni che non avrebbero altro risultato che peggiorare la situazione già molto grave».

14 aprile 2017

Felice Pasqua!
Happy Easter! 
Museo del Louvre 
Resurrezione di Cristo. Annibale Carracci
 

By Baghdadhope*

Iraq. Patriarca Sako alla marcia della pace: sminare menti e cuori

By Radiovaticana

Arriverà domani nella città irachena di Alqosh la marcia interreligiosa partita da Erbil domenica scorsa. Oltre 140 chilometri percorsi a piedi attraverso la martoriata Piana di Ninive per lanciare un messaggio di pace per il Paese e tutto il Medio Oriente. Ieri il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphaël I Sako, ha celebrato la Messa in Coena Domini presso il villaggio di Mella Baruan. Massimiliano Menichetti lo ha intervistato:

Mella Baruan è un villaggio dove si trovano 100 famiglie venute da Mosul. Il loro villaggio era stato distrutto durante la guerra: ora sono tornate, hanno restaurato le loro case e hanno anche ricostruito una bella Chiesa. Lì ho celebrato la Messa e ho lavato i piedi a dodici persone: alcuni del gruppo della marcia, tra cui un francese, uno yazida e un musulmano e all’assistente del rappresentante del segretario generale dell’Onu a Baghdad. In questo villaggio c’erano cristiani, musulmani, yazidi, dei rifugiati, ma anche persone provenienti dall’Occidente, e il rappresentante dell’Onu. E io ho detto: “Qui, simbolicamente c’è quasi tutta l’umanità”. Ho ribadito che senza il dialogo e senza la pace non c’è futuro.
Tutti adesso dicono che bisogna sminare i villaggi, i campi, ma io ho detto che bisogna sminare anche la mente e il cuore.
Per quale motivo? C’è odio?
Sì, c’è questa ideologia fondamentalista che è come un cancro, che è diffuso un po’ ovunque: in Iraq, in Siria, in Occidente… Questa gente è cieca! Io penso che sono i musulmani a dover affrontare questo problema, ma con l’aiuto di tutti. Prima di tutto bisogna combattere questo sedicente Stato Islamico, questi gruppi, ma bisogna anche cambiare tutto il sistema dell’educazione religiosa e nazionale; presentare un messaggio religioso moderato, moderno, comprensibile, che dia un senso alla vita. E bisogna poi accettare gli altri, che sono diversi da noi: l’altro, il diverso, non è un obiettivo, è un fratello. Ho detto anche questo.
La marcia in Iraq lancia un segnale forte, ma tutto intorno, e non solo, ci sono guerre e tensioni: come far arrivare questo messaggio di pace al mondo?
Questo messaggio deve essere compreso prima di tutto dai leader politici e religiosi. Le persone sono le vittime. La politica deve essere positiva: deve aiutare a realizzare la pace, la convivenza, il progresso, la prosperità: rendere la gente felice, renderla fratelli e sorelle, tutti. Coloro che creano le guerre cercano di perseguire solo interessi economici: questo è un peccato mortale. Il mondo intero deve muoversi contro queste guerre e questi attacchi.
Quale la testimonianza che viene dall’Iraq?
Noi abbiamo sperimentato la guerra, la morte, la distruzione, l’emigrazione. Aspettiamo la Risurrezione! La Risurrezione è possibile quando c’è una conversione della mente e del cuore verso il bene e verso l’altro che è un fratello.
Lei personalmente, per questa Pasqua, cosa vuole augurare?
La pace in Iraq, in Siria, in Libia… nel Medio Oriente. Per me è cruciale. Dobbiamo tutti collaborare per realizzare questa pace che sarà una vera redenzione di questo mondo orientale e di questa povera gente: sono come Cristo, muoiono ogni giorno.

13 aprile 2017


Felice Pasqua!
Happy Easter!

Museo d'Arte di San Paolo
Resurrezione di Cristo. Raffaello Sanzio

By Baghdadhope*

The Cross ISIS couldn’t destroy

By Catholic Herald
Fr Benedict Kiely

Returning to England after a few days in Iraq, it is the sound of broken glass and rubble, crunching underfoot in one of the many destroyed churches, that lingers in my mind. Just a few weeks ago, on my fourth visit to that beleaguered Christian community since the genocide began in the summer of 2014, I was taken, along with Catholic journalist Edward Pentin, to visit the Christian towns on the Nineveh Plains, liberated from ISIS.
It is easy to use the phrase “ghost towns”, yet in the case of Karemlash it is not a phrase but a reality. Before ISIS swept into the area, in August 2014, Karemlash had been a mainly Chaldean Christian town of nearly 10,000 residents.
The monastery of St Barbara, formerly a place of pilgrimage for many Iraqi Christians, is at the entrance to the town. We were accompanied by Fr Thabet, the parish priest. He showed us the ruined home of his parents and grandparents, bombed by coalition forces because it was used as an ISIS outpost. Sitting in what had been the family garden was a large bomb.
The rectory, like many of the empty houses, had ISIS graffiti sprayed on the outside wall – for the priest’s house it said “the Cross will be broken”. Luckily for Fr Thabet, his house was still standing and, unlike many of the houses, had not been burned out. ISIS fighters had left him a little gift on their departure: a booby trap by his office door.
Many of the houses in the town are booby-trapped, burned out or destroyed, and there is no water or electricity. As we walked around the empty streets some birds were singing, but the only other sound was the distant thump of bombing in Mosul, nine miles away.
As we entered the Church of St Addai, the full hatred for the “followers of the Cross” was revealed. The Islamists had attempted to burn the church. A smashed statue of Our Lady was on the ground. The altar had bullet holes in it. Everywhere – in that church and the others we visited – the Cross was defaced, destroyed or in some way vandalised.
Even if a wooden door had a Cross on it, at least one arm would be broken. Fr Thabet’s large rosary lay on the floor, with the central beam of the Cross removed. It was as though a black cloud of hatred for the Cross and all it symbolises had swept through the town.
All across the Nineveh Plains, the home of Christians for almost 2,000 years, the same thing has happened: Islamists cannot bear the imagery of the Cross.
Suddenly, Steve Rasche, an American who works for the Archdiocese of Erbil and was coordinating our visit, knelt in the rubble and picked up a Cross. Brushing off the rubble and dirt, he saw it was unbroken – the corpus had been removed, but the Cross was intact. Then Rasche, whom I later christened “the Crossfinder”, told us the story of the miraculous Cross of Baqofah – which ended up on display during the weeks of Lent in, of all places, Westminster Cathedral.
Just a few months before, doing exactly what we had been doing in Karemlash, Steve and Fr Salar, the vicar-general of the Diocese of Alqosh, had been wandering through the newly liberated town of Baqofah. Outside the Church of St George, ISIS had blown up the church shop, which made, among other things, crosses for the faithful to buy.
Everywhere, as in Karemlash, the Cross was broken and vandalised. Yet in the rubble Steve found a completely intact Cross, with the body of Christ still attached. Only when you have seen that central image of Christianity so desecrated can you understand how miraculous this discovery was – and what it meant to the Christians of Iraq.
As a symbol of hope, the Baqofah Cross was sent from Iraq to be part of a recent exhibition called Building Bridges with Wood, organised by the curator Lucien de Guise, in St Joseph’s Chapel in Westminster Cathedral.
The Cross will return to Baqofah after being blessed by Cardinal Vincent Nichols, to be, as Rasche says, “a sign of hope for the rebirth and renewal of the Church in Iraq”.
With the most important days in the life of the Church upon us, when the symbolism of the Cross is so central – both as the supreme sign of God’s love for humanity and the true cost of sin, this simple story of the Cross of Iraq can serve as a powerful reminder of the truth of our faith. Even when it is hated and defaced, attacked and broken, the Cross will rise, like Christ, unbroken.

Fr Benedict Kiely is the founder of Nasarean.org, which helps the persecuted Christians of the Middle East

The destruction and liberation of Batnaya

By The Ferret
Billy Briggs

“For everyone to know that we are the soldiers of the Caliphate, and we are coming – God willing,” says Ben Balata.
Our Kurdish fixer is translating graffiti sprayed in black on a wall in Batnaya, near to the Iraqi city of Mosul.
This town has been decimated by war. The streets are in ruin, there are bombed buildings everywhere, and most homes have been reduced to piles of concrete rubble.
Batnaya is a ghost town.
Across from the bullet-marked wall where ISIS daubed its threat, sits the burned-out wreck of a car – rusting metal that was likely used in a suicide attack. A door of a home behind the grotesque vehicle is ajar.
It displays a white cross, signifying Batnaya’s Christian religious denomination, and as we walk through the carnage our armed guides, Kurdish fighters, talk about the battle to take back Batnaya from ISIS.
I was with three others in an American humvee when we attacked the town. We were among the first in. Snipers started firing at us. I saw a car driven towards us…and then it exploded,” says Captain Ayob of the Peshmerga (which means ‘those who face death’).
He suffered an eye injury in the suicide attack but remarkably all four soldiers survived the explosion, allowing them to help comrades to chase the Islamist terror group from Batnaya, who’d occupied the town for more than one year.
After taking control of Mosul in 2014 – where ISIS is currently battling Iraqi forces – the terror group swept across an area to the north and east of the city called the Nineveh Plains, taking over dozens of rural towns and villages – Christian, Yazidi, Muslim and some of mixed religious denomination.
Tens of thousands of people fled terrified. The invasion chimed with ISIS’s massacre of at least 5000 Yazidis in Sinjar, where they also raped and abducted hundreds of Yazidi women. Most Christians fled to Iraqi Kurdistan, the self-autonomous region of Iraq controlled by the Kurds.
The Yazidis were targeted because of their faith, as was Batnaya, a peaceful Christian town almost razed to the ground.
The destruction wreaked by ISIS is jaw dropping. Around 80 per cent of the town has been wrecked and no-one has been able to return their homes.
Much of the devastation happened during the day-long Battle of Batnaya – between ISIS and the Peshmerga, backed by the Iraqis – but the terror group enacted a policy of scorched earth before retreating to Mosul, the self-proclaimed capital of its so-called Caliphate.
We obtained permission to visit Batnaya from the Peshmerga, who’ve controlled the town since defeating ISIS on the 20th October last year.
At the Peshmerga’s makeshift HQ in the town, we meet with the Kurdish Colonel now in charge, Kareem Farho, who says his forces routed ISIS from Batnaya in just one day.
“We could have advanced all the way to Mosul but our order was to stay here,” he adds.
Colonel Farho – who has 26 years service in the military – says that ISIS took control of Batnaya on the 3rd August 2014. During that period they invaded at least another 10 places in this locality. Before then, around 5000 people lived in Batnaya but the whole population escaped before ISIS arrived.
The battle to liberate Batnaya chimed with the offensive to rid Mosul of ISIS last October, in collaboration with Iraqi forces. There were more than 100 ISIS fighters in the town. Around 60 were killed by the Peshmerga, who lost eight “martyrs” during the fight.
More than 50 other Peshmerga suffered injuries, many during the battle but some in the weeks afterwards due to booby traps left behind. Colonel Farho said his soldiers liberated another five villages.
The clear up operation has been on-going since. The first priority was demine the town and clear it of booby traps and unexploded bombs. This involved bringing in three specialised teams – Canadian, French and American – who, along with the Peshmerga, have now cleared about 90 per cent of the area.
Around 80 per cent of homes were destroyed. No reconstruction work has started yet so no residents have returned – and Colonel Farho has no idea how long it’ll be before the community can start rebuilding. It could be years, and the cost will be astronomical at a time when war continues to ruin the economy.
There remains the problem of tunnels which ISIS dug deep under people’s houses. They built a fairly extensive network – up to 10 homes had tunnels underneath – during the occupation.
Colonel Farho takes us to one house where the entrance to a tunnel involves a 10 metre climb down a metal ladder – into a system involving a main route and numerous branches, some of which extend hundreds of metres underground.
“ISIS forced its prisoners to build the tunnel network before executing them – so they couldn’t tell anyone ,” Colonel Farho says.
Afterwards, we’re taken to the town’s main church which is surrounded by destroyed family homes. From afar, the Catholic Church appears undamaged, its red domed roof and spire intact.
A tower at the back also remains standing. It was a vantage point used by ISIS snipers before the liberation, and where the Peshmerga later raised the cross of Christ in triumph.
The church was made with local stone and although mostly intact, the inside has suffered considerable damage, where the Islamists indulged in a violent rampage of vandalism.
There are bullet marks everywhere and the altar has been desecrated, a wine-red carpet leading down from where priests conducted services for hundreds of years, now strewn with broken concrete, wood and smashed marble.
A large iron cross removed from the top of the church, stands against a grey marble pillar. Graffiti has been sprayed over the altar and walls.
“That says ‘Allah’ and this says ‘Allahu Akbar’ which means God is great,” explains our fixer, Balata, translating writing scrawled on a marble pillar.
Pointing to behind the altar, Balata says that the Arabic graffiti sprayed there says: “No God, only one God – Allah”. Another sentence says: “Jesus is our prophet as well.”
The Peshmerga say that another church in the town was destroyed completely because ISIS used it as a weapons dump, which was blown up.
We walk outside to where the tower stands, passing a marble courtyard, once beautiful but now littered with the debris of war. When they liberated Batnaya, one of the Peshmerga’s first acts was to return the bell to the church and raise a wooden cross on the tower – to replace the sinister black flag of ISIS.
At the foot of the structure, we see blankets used by ISIS snipers who manned the vantage point 24 hours a day. There are also spent cartridge shells, a blackened Iraqi coin and the night lens from a high velocity rifle.
From the top of the tower, the Peshmerga’s Major Jaffer points to a cemetery about half a mile away, explaining it was desecrated. We descend and make our way there on foot.
As we walk through ruins there are visible remnants of ISIS rule. There’s black writing on an entrance to a home that, the Peshmerga say, indicates the HQ of ISIS’s artillery during the battle.
Elsewhere, the Islamist terrorist group marked Christian houses with the Arabic equivalent of the letter “N” to denote the derogatory term ‘Nazarene’ – akin to the Nazis targeting Jewish homes back in the 1930s.
At one point, the Peshmerga point to a vacuum cleaner at the side of the road which had been boobied trapped.
“They would detonate some of these using mobile phone signals, while other booby traps were triggered using wires,” says Major Jaffer. “This one had a wire across the road with explosives inside it but there were also explosives stocked close-by to ensure a massive explosion – so big that it probably destroyed this whole area.”
He points to craters in the road and circular areas of ground blackened by fire. He says that ISIS would burn tyres, oil and diesel, to send black smoke into the sky to provide cover from drones and planes.
Further along, a family photo album lies in the dust, a couple on their wedding day, pictured smiling at a camera during happier times.
When we arrive at the cemetery the Peshmerga advise us to tread carefully – saying we must only step on large stones which they use as a makeshift concrete path into the graveyard. “There could still be booby traps here so be careful,” says Captain Ayob.
The cemetery is a mess. There’s been wanton violence with headstones and tombs smashed. Captain Ayob explains that ISIS opened tombs to steal gold from the dead.
We leave the cemetery and return to the Peshmerga’s headquarters in the town, where we offer thanks to Colonel Farho and his soldiers for their time. They’ve no idea how long they’ll remain in Batnaya – adding that they’re preparing for what may come next after ISIS is cleared from Mosul.
Batnaya is in disputed land, territory once under Iraqi rule but now controlled by the Kurds, so there’s the potential for conflict with Iraq’s Shia militias, among others. Once there’s no more unifying focus on destroying ISIS, there’s the real chance that Iraq could erupt into civil war.
What next for Batnaya after the “soldiers of the Caliphate”?