"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

29 aprile 2022

In Iraq, a new Catholic school of hope and recovery opens its doors

John Pontifex

Iraq's christians were set to pass a momentous milestone May 1 on the way towards recovery from genocide, when a community of Sisters officially open their long-awaited school.
With capacity for 625 students, Al-Tahira Secondary School is located in Qaraqosh (Baghdeda), the largest of the 13 majority Christian towns and villages on the iconic Nineveh Plains.
Unlike most structural projects which involve restoring buildings damaged by ISIS during its occupation of the Nineveh Plains, the coed school has been built from scratch in what was the playground of Al-Tahira Primary School, which was also run by the Dominican Sisters of St Catherine of Siena.
Al-Tahira Secondary School, which admitted its first students in February, comprises state-of-the-art facilities spread over three floors, including three science laboratories, a computer center, a large conference hall, library and chapel.
Five years in the making, the school is one of the single biggest projects in Iraq supported by Aid to the Church in Need (ACN).
Dr. Thomas Heine-Geldern, the executive president of ACN International, who will be participating in the opening ceremony along with other CAN staff from the charity, said: “ACN was involved right from the start of the initiative, and it has been a privilege to work with so many committed individuals and organizations to bring this project to fruition, including the Austrian bishops’ conference, supported by the Austrian government.”
ACN was involved in securing more than 80 percent of the US$2.1 million needed to build the school.
Thanking benefactors for their tireless support for Iraq, he went on: “I would like to pay tribute to Sister Clara Nas, the other Dominican Sisters and all those who have worked tirelessly to make this dream a reality.”
He added: “Back in the darkest days of the ISIS occupation of the region, who would have thought that just a few years later we would be celebrating the opening of a brand-new school?”
Showing an ACN delegation around the school last month, Dominican Sister Huda said the school is about helping to secure a future for Christians in a country where the community’s numbers have fallen from more than one million before 2003 to perhaps 150,000 today.
She said: “We are building the character of the students to be leaders in society, taking responsibility and developing a plan to remain in this country. The presence of the Sisters here, the presence of the school here are both signs of hope, giving people a reason to stay.”
Student Rameel Rabu Wadi, aged 16, told ACN: “With buildings like this and a chance to study well, we feel we have a big future here. Thank you so much for supporting us.”

28 aprile 2022

I caldei di Egitto si sono riuniti per la prima volta

Andrea Gagliarducci

Incredibile ma vero, c’è una piccola comunità di cristiani caldei in Egitto. Conta 1000 battezzati, 3 parrocchie, due religiosi e 4 sacerdoti, di cui due secolari e due regolari. E l’attuale amministratore apostolico, Philip J. Naim* ha voluto riunirli tutti, dando corpo a un progetto che aveva cominciato a sviluppare all’inizio del 2019 perché fosse concretizzato nell’anno giubilare dell’eparchia.
L’eparchia del Cairo dei Caldei è stata eretta, infatti, il 23 aprile del 1980. Motto di quell’incontro sarebbe stato “Gloria a Lui per il suo amore indescrivibile”.
L’incontro, però, ebbe luogo solo online, per via della pandemia.
Il nuovo incontro si è tenuto, invece, lo scorso 8 aprile. L’incontro ha riunito i rappresentanti delle famiglie caldee in Egitto, in particolare nel Grande Cairo e ad Alessandria.
L'incontro si è aperto con un discorso di benvenuto e poi una spiegazione della storia dei Caldei in Egitto dal VII e VIII secolo fino ai giorni nostri. L'incontro si è concluso con un pranzo conviviale.
I caldei arrivarono in Egitto nella seconda metà del XIX secolo, quando circa 150 famiglie giunsero dall’Iraq, dall’Iran e dall’Anatolia. La loro cura pastorale fu inizialmente affidata alla Chiesa Latina, e solo nel 1890 fu eretto un vicariato parrocchiale.
Al 1896, c’erano 200 fedeli caldei, mentre nel 1914 erano 400. La costruzione di una chiesa caldea iniziò già nel 1891, grazie alla donazione di una benefattrice iraniana. Dedicata a Sant’Antonio Abate, la chiesa fu inaugurata nel 1893, mentre solo nel 1941 viene posta la pietra per una nuova chiesa dedicata a Nostra Signora di Fatima.
Il 23 aprile 1980 il vicariato patriarcale fu elevato al rango di eparchia con giurisdizione su tutto l'Egitto, e la chiesa di Nostra Signora di Fatima divenne cattedrale della nuova diocesi. Un'altra parrocchia è stata aperta ad Alessandria. L’eparchia è vacante dal 2010 ed è amministrata da vicari patriarcali.

 * L'attuale amministratore patriarcale in Egitto non è il Corepiscopo Mons. Philip Najim, ormai da anni incardinato nella diocesi caldea di San Pietro in California, ma Padre Paulus Sati  nominato al suo posto il 29 agosto 2018. 
Nota di Baghdadhope

La guerra in Ucraina svuota le tavole degli iracheni


Gli effetti della guerra della Russia in Ucraina si ripercuotono non solo in Europa, dove cresce il rischio di una crisi energetica col taglio delle forniture da Mosca o l'embargo Ue sulle importazioni russe, ma anche in altre aree del mondo fra cui l’Iraq, dove tiene banco l’emergenza alimentare innescata dall’aumento dei prezzi. In questi giorni il governo di Baghdad sta cercando di correre ai ripari, stanziando fondo aggiuntivi per garantire la stabilizzazione della catena di approvvigionamento delle materie prime. Tuttavia, si tratta in molti casi di provvedimenti tampone che non potranno essere sostenuti nel tempo e, per questo, sono allo studio politiche di lungo periodo.
Il conflitto lanciato da Mosca contro Kiev, due fra i principali Paesi al mondo produttori di grano, ha innescato un aumento dei prezzi nella nazione araba, i cui vertici hanno lanciato una campagna interna volta al monitoraggio dei mercati e dei costi dei prodotti. Come riferisce al-Monitor, alcuni alimenti hanno registrato aumenti del 20% soprattutto fra i preparati derivati dal grano - come pasta e dolci - oltre all’olio da cucina.
In risposta, il governo ha deciso di riconoscere un 30% in più agli agricoltori iracheni per la vendita del loro grano. Un sostegno alla produzione interna e per garantire la distribuzione di tutte le risorse di uso domestico, unita a prestiti agli imprenditori del settore mediante tassi agevolati dalla Banca agricola e da altri istituti di credito nazionali. Inoltre, Baghdad intende concedere alle famiglie più povere 100mila dinari (circa 64 euro) e ha aperto per tre mesi alle importazioni di tutti i prodotti senza eccezioni, per garantirne la disponibilità sui mercati.
A questo si aggiunto un progetto di legge allo studio focalizzato sulla sicurezza alimentare e lo sviluppo della produzione, con una prima lettura in Parlamento il 28 marzo scorso. Il ministero delle Finanze intende creare un fondo chiamato “Sostegno alla sicurezza alimentare e allo sviluppo, alla prevenzione finanziaria e alla riduzione della povertà” che dovrà intervenire nelle situazioni critiche. Tuttavia, la norma ha già incontrato l’opposizione di alcuni parlamentari per i quali sarà fonte ulteriore di corruzione, in una nazione già segnata da ruberie e malaffare nel pubblico.
L’attuale sistema di sostegno alle famiglie povere attraverso buoni statali copre 10 materie prime: riso, zucchero, tè, olio, farina, lenticchie, fagioli, mais giallo, concentrato di pomodoro e alcuni oggetti per la pulizia come il sapone. La norma vorrebbe garantire maggiori fondi per la spesa e l’acquisto di prodotti da inserire nel paniere alimentare, da distribuire ai più bisognosi. Un sistema già in uso in passato - introdotto su larga scala nel 1990 dall’allora raìs Saddam Hussein -, per favorire l’acquisto di beni ritenuti essenziali ad un prezzo calmierato.
Secondo Jawad Amir, professore di chimica Baghdad, i provvedimenti del governo non sono sufficienti ad aiutare e sostenere le fasce più fragili della popolazione irachena. “I cittadini - spiega - sono direttamente interessati dagli aumenti dei prezzi. Al contempo, stipendi e fondi sociali rimangono gli stessi. Ciò mostra che le autorità non hanno alcun controllo sul mercato interno e questo è fonte di preoccupazione per le persone”. 
Oggi il tasso di povertà in Iraq ha raggiunto il 23% del totale della popolazione e il dato relativo alla disoccupazione ha raggiunto quota 14%, con livelli più alti nei governatorati centrali e meridionali. Al contempo, aumentano i casi di suicidio fra la popolazione, perché molti non sono più in grado di provvedere alle esigenze della famiglia in un quadro politico nazionale che resta instabile.
 In questa situazione sociale così difficile AsiaNews continua la sua campagna Adotta un cristiano di Mosullanciata nel 2014 per sostenere i cristiani fuggiti in seguito all’ascesa dello Stato islamico. La nostra iniziativa prosegue ancora oggi per sostenere le famiglie bisognose e contribuire ai progetti di ricostruzione: qui tutte le informazioni per aderire.

Iraq grapples with rising food costs as a result of Ukraine war

26 aprile 2022

Da Erbil a Baghdad, la difficile riunificazione fra Chiese dell’Est


Un primo passo di un percorso lungo e difficile, ma che potrebbe rappresentare una tappa decisiva in un’ottica di riconciliazione - e riunificazione - dopo decenni di divisioni e contrapposizioni figlie dello scisma consumato nella seconda metà del secolo scorso. Come riporta il sito Baghdadhope, il 9 maggio prossimo a Chicago, negli Stati Uniti, è in programma un incontro ai “massimi livelli” fra delegazioni della Chiesa Assira dell’Est e dell’Antica Chiesa dell’Est. Ad annunciarlo, in una nota congiunta, i rispettivi leader delle due Chiese: il patriarca Mar Awa II e il metropolita (e patriarca vicario) Mar Yako Daniel che cercano di ricucire lo strappo che si è consumato nel 1968.
Una personalità assira ad AsiaNews, dietro anonimato, riferisce che “per un cammino di unità bisogna prima preparare i cuori, con molta umiltà”, poi vanno affrontate tutte le questioni pratiche, dottrinali e pastorali. “Dalla denominazione assira alla data della Pasqua, che secondo alcuni dovrebbe coincidere non con i cattolici ma con gli ortodossi copti, armeni secondo il calendario giuliano, dall’integrazione di sacerdoti e vescovi alla nomina del patriarca, sono molti i punti aperti” osserva la fonte. “Vi è un percorso complesso da fare - aggiunge - che non si può fondare sul sentimentalismo, ma tocca anche il piano politico”.
Entrambe le denominazioni discendono dall’unica Chiesa dell’Est. Nel 1933 l’allora patriarca Mar Eshai Shimun XXIII viene costretto all’esilio dall’Iraq a Cipro, poi negli Stati Uniti. Il flusso crescente di migranti dal Medio oriente verso Occidente spinge il patriarca nel 1964 ad adottare il calendario gregoriano rispetto a quello giuliano per le festività del Natale e della Pasqua, ben più diffuso dell’originario nelle nazioni della diaspora.
Quattro anni più tardi si consuma lo scisma, dietro il quale vi sono diversi fattori: al cambio del calendario si somma il desiderio dei fedeli rimasti in patria di avere la sede patriarcale a Baghdad, oltre alla contestazione della pratica del “Natar Kursi”, il passaggio del titolo patriarcale da zio a nipote come successo anche nel caso di Mar Eshai Shimun XXIII. L’allora metropolita di Trichur (India) della Chiesa dell’Est, Mar Thoma Darmo, si trasferisce nella capitale irachena e nomina tre vescovi, che a loro volta lo eleggono patriarca della Antica Chiesa dell’Est, carica che esercita solo un anno a causa della sua morte l’anno successivo.
Da allora i rapporti fra le due Chiese vivono di alti e bassi, anche se è col nuovo millennio che inizia un lento percorso di distensione e miglioramento complessivo delle relazioni. Ciononostante, superare le divisioni e ripristinare l’antica unità richiede tempo. Sul tavolo vi è anche il tema della successione del patriarca Mar Addai II, deceduto l’11 febbraio scorso. Il futuro patriarca sarà il tema chiave del sinodo dell’Antica Chiesa dell’Est, che inizierà sempre a Chicago il 30 maggio, quindi è lecito pensare che non vi saranno grandi cambiamenti fino alla scelta della futura guida. Inoltre andrà risolta la questione della eventuale supremazia di una delle due sull’altra, oltre alla scelta della sede che oggi è a Baghdad per l’Antica Chiesa dell’Est e a Erbil per la Chiesa Assira dell’Est, dove di recente sono iniziati i lavori per la futura cattedrale.
Le risposte a queste domande, conclude l’analisi di Baghdadhope, “non sono facili”. Del resto “nulla lo è per gli iracheni di fede cristiana, pochi e divisi tra diverse Chiese la cui unione, formale ma anche solo nelle azioni, è però l'unico sistema per far fronte comune al pericolo della lenta ma inesorabile sparizione che da decenni incombe su di loro”.

25 aprile 2022

Iraqi Christians celebrate first Easter 'Holy Fire'


With joyous ululations, thousands of Iraqis have celebrated for the first time the arrival of the "Holy Fire" brought from Christianity's holiest site in Jerusalem to mark Orthodox Easter.
With chanting and prayers, excited crowds gathered Saturday night to greet the flame's arrival at the Syriac Christian Orthodox Mar Matta monastery of Saint Matthew, about 28 kilometres (17 miles) from the war-ravaged city of Mosul in northern Iraq.
"It is a message of peace and love for all... a message of resurrection for this bruised country, so that it can regain its strength, its security and its peace," Bishop Timathos Moussa Shamani, of the Mar Matta monastery, told AFP.
The flame was carried from Jerusalem's Church of the Holy Sepulchre -- where Christian tradition says Jesus was crucified, buried and resurrected -- in a special lantern to Jordan and then flown to Iraq.
"For the first time in the history of Iraq we managed, through coordination with the Iraqi central government, to transport the holy fire (to Iraq) through Amman," said Boulos Matta Ephrem, a priest at the Mart Shmoni Syriac Orthodox church in Bashiqa.
According to believers, the fire descends from heaven on the eve of Easter, and is a symbol of Christ's Resurrection.
To calls of "hallelujah" and the clanging of cymbals, the lantern arrived carried by a bishop into the church at the monastery.
The hashtag "the dream has come true" was shared widely by Christian Iraqis online.
Celebrating crowds packed the courtyard and monastery church, where worshippers, monks and priests leaned forward to kiss the lantern and receive the blessing they believe the fire grants them.
The crowds then lit candles from the flickering flame, filling the church with light.
"It's a historic day," said Saad Youssef, a 60-year-old teacher.
The region is home to one of the world's oldest Christian communities, but believers were hit hard under the onslaught of the Islamic State group (IS), who forced hundreds of thousands of Christians to flee.
Nineveh province, surrounding Mosul, was left in ruins after three years of jihadist occupation which ended in 2017 when an Iraqi force backed by US-led coalition air strikes pushed them out.
Iraq's Christian population has shrunk to fewer than 400,000 from around 1.5 million before the US-led invasion of 2003 that toppled dictator Saddam Hussein.
But monasteries and churches are being slowly restored, and Pope Francis made a historic visit to the region last year.
"What I feel is the best emotion in the whole universe", said one of the faithful, a housewife in her 50s who gave her name as Ferial.

20 aprile 2022

La Chiesa Assira dell'Est e l'Antica Chiesa dell'Est ci riprovano. Inizio di nuovi colloqui per la riunificazione.

By Baghdadhope*

Il patriarca della Chiesa Assira dell’Est, Mar Awa III, ed il patriarca vicario della Antica Chiesa dell'Est, il Metropolita Mar Yako Daniel, hanno annunciato che il prossimo 9 maggio a Chicago (USA) si terrà un incontro ai massimi livelli delle due chiese per discuterne la riunificazione dopo lo scisma del 1968.
Le due chiese discendono infatti dall’unica Chiesa dell’Est il cui patriarca Mar Eshai Shimun XXIII nel 1933 fu costretto all’esilio dall’Iraq prima a Cipro e poi negli Stati Uniti d’America. L’aumento dell’emigrazione dei cristiani iracheni verso l’occidente spinse nel 1964 il patriarca ad adottare per le festività natalizie e pasquali al posto del calendario giuliano quello gregoriano più diffuso nei paesi della diaspora.
Questo cambiamento, unito al desiderio dei fedeli rimasti in patria di avere la sede patriarcale a Baghdad ed alla contestazione della pratica del "Natar Kursi", l’ereditarietà del titolo patriarcale che passava da zio a nipote come era successo anche nel caso di Mar Eshai Shimun XXIII, portarono nel 1968 allo scisma.
Mar Thoma Darmo, il Metropolita di Trichur (India) della Chiesa dell’Est si trasferì a Baghdad dove nominò tre vescovi che a loro volta lo elessero patriarca della Antica Chiesa dell’Est, carica che poté esercitare però per un solo anno vista la sua morte l’anno successivo.
Da quel lontano 1968 i rapporti tra le due chiese sono stati altalenanti anche se quasi all’inizio del nuovo millennio si sono intensificati e sono genericamente migliorati. La riunione di due chiese, per quanto sorelle, presenta però degli ostacoli non facili da superare e che sono emersi ogni qualvolta se ne sia parlato.
Perché, ad esempio, annunciare per il 9 di maggio l’inizio della discussione sulla possibile riunificazione delle due chiese quando il 3 di marzo Mar Gewargis Younan, Segretario del Sinodo dell’Antica Chiesa dell’Est e vescovo degli Stati Uniti d'America Orientali e d'Europa ha annunciato che la scelta del successore del patriarca Mar Addai II (morto l’11 febbraio scorso) sarà il tema del prossimo sinodo che inizierà sempre a Chicago ma il 30 di maggio?
Una domanda che ne suggerisce un’altra: in un’ipotetica nuova chiesa unita come potrebbero convivere due patriarchi? Quale tra le due chiese riconoscerebbe la superiorità dell’altra rinunciando a tutto ciò che da essa la distingue?
Se per decenni le due chiese sono state geograficamente divise avendo una la sede patriarcale a Chicago (Chiesa Assira dell’Est) e l’altra a Baghdad (Antica Chiesa dell’Est) ora che entrambe hanno sede in Iraq in un processo di riunificazione quale sede sarebbe la prescelta? Baghdad, dal 1968 sede patriarcale dell’Antica Chiesa dell’Est, perché rappresenta la continuità con la terra ancestrale ma che di anno in anno perde fedeli ed importanza, o Erbil dove è “tornata” la sede patriarcale della Chiesa Assira dell’Est dopo l’esilio americano e che per la massiccia emigrazione dei cristiani da ogni parte del paese a seguito della guerra, delle violenze e del periodo di controllo del nord da parte dell’ISIS è diventata ormai la capitale cristiana in Iraq?
E che ne sarebbe dei vescovi delle due chiese che ora hanno giurisdizione sugli stessi territori come ad esempio i due metropoliti dell’Australia e della Nuova Zelanda, Mar Yako Daniel (sempre che non sia lui il nuovo patriarca prescelto dell’Antica Chiesa dell’Est) e Mar Meelis Zaia?
E se, una volta prescelto il nuovo patriarca dell’Antica Chiesa dell’Est, nel corso delle discussioni per la riunificazione che di certo non saranno brevi,  uno dei due patriarchi dovesse mancare i vescovi della sua chiesa accetterebbero di buon grado l’autorità dell’altro o si sentirebbero svantaggiati al punto di fermare il processo di riunificazione?
Le risposte a queste domande non sono facili, ma d'altra parte nulla lo è per gli iracheni di fede cristiana, pochi e divisi tra diverse chiese la cui unione, formale ma anche solo nelle azioni, è però l'unico sistema per far fronte comune al pericolo della lenta ma inesorabile sparizione che da decenni incombe su di loro.
   

Christian family in Duhok plan to migrate due to Turkey-PKK clashes


A Christian family from a Duhok village has decided to migrate to Australia due to ongoing clashes between Turkish army and the Kurdistan Workers’ Party (PKK) at home.
Amirnisan Gorgis is from the Christian village of Sharansh in Duhok’s Zakho city. He and his family have fled their village due to Turkish bombardment four years ago. They live in a rental house in the Bersiv region in the same province. He told Rudaw’s Yusuf Musa on Tuesday that he plans to migrate to Australia in July when the current academic year ends.
“I have turned 62 and I have built several houses but have been displaced five times. I have spent most of my age in displacement,” he said, adding that he wants to join his son in Australia.
Turkey has intensified its military activities in Zakho in the last few years, leading to the displacement of a large number of people.
Out of 20 Christian villages in Zakho, nine have been evacuated, according to local authorities.
Turkey launched a fresh military offensive against the PKK in Duhok province late Sunday, creating more fear among villagers. No material damage or civilian casualties have been reported so far.
Jony Dawoud Hana is the priest of Bersiv Church. He used to be the priest of 85 families in Sharansh five years ago. The village has been evacuated and he has been displaced due to Turkey-PKK clashes.
“Most of the villages which are located in mountainous areas have been emptied and the churches have been closed. We call on the Turkish government, the Kurdistan Regional Government and the Iraqi government to reverse this because churches should not be closed, God’s home should not be closed,” he told Rudaw.
The affected families have not been compensated.

19 aprile 2022

Ankawa, la Pasqua dei cristiani che parlano la lingua di Gesù

Alessandra De Poli
16 aprile 2022

Non esiste su Google Maps, non appare in nessun risultato di ricerca di internet, e anche una volta arrivati sul posto non è facile intuire che cosa si celi dietro agli alti muri bianchi contrassegnati da uno stemma blu e verde con un tau in campo giallo al centro. 
Ma una volta varcato l’ingresso principale, il monastero di Gabriel Danbo si presenta maestoso, placido, geometrico: le forme squadrate degli edifici principali dialogano con la fontana circolare che si trova davanti alla chiesa.
In questa Pasqua - con il suo paziente lavoro di recupero della storia di questa antichissima comunità cristiana, è un piccolo segno della speranza che tra tante fatiche prova a rinasce ad Ankawa, il quartiere cristiano di Erbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno divenuto negli anni dell'Isis il rifugio per migliaia di cristiani di Mosul e della piana di Ninive.
Il complesso - inaugurato l'anno scorso - sorge al limite di Ankawa e ospita cinque confratelli dell'Ordine antoniano di Sant'Ormisda dei caldei. Il loro monastero originario, quello di Rabban Hormizd ad al-Qosh, era stato abbandonato decenni fa. Ma ora qui il patrimonio di manoscritti siriaci che possedevano (alcuni provenienti anche dal monastero siriaco ortodosso di Mar Mattai sul monte Maqlub, dove nel 2014 l’Isis era a soli 3 km di distanza nella valle sottostante) sta venendo catalogato e digitalizzato dai padri e da un gruppo di studenti.
“Questi ragazzi parlano il sureth, l’aramaico moderno”, spiega ad AsiaNews il superiore generale dell’ordine di Sant’Ormisda, p. Samer Yohanna. “È come se tu leggessi il latino: qualcosa capisci, ma devi studiare per padroneggiare la lingua. È quello che facciamo con questi ragazzi”, aggiunge il sacerdote, professore alla facoltà di siriaco dell’Università Salahaddin di Erbil.
L’aramaico parlato oggi da alcune comunità cristiane in Medio Oriente (si stima siano in tutto 400mila persone), è una versione moderna della lingua di Gesù. La liturgia invece utilizza ancora il siriaco classico e l’arabo. Ma i cristiani di questa regione non si considerano arabi, neanche quelli che al posto del sureth parlano appunto l’arabo, come ad al-Qosh, città contesa tra il governo regionale del Kurdistan e l’Iraq federale. “Sei curdo o arabo?”. A questa domanda i cristiani si sentono quasi offesi: aggrottano le sopracciglia, indietreggiano, il sorriso scompare dal loro volto: “No, sono cristiano”.
In questo pot-pourri di popoli, dove tanti sono già scomparsi (il quartiere ebraico di Erbil è disabitato, mentre a Baghdad restano solo sei ebrei) i cristiani dal punto di vista etnico si dicono assiri, diretti discendenti dei babilonesi. E infatti ad Ankawa si vedono murales che ritraggono la famosa porta blu di Babilonia circondata da una coppia di lamassu, le divinità mitologiche con testa d’uomo, corpo di toro e possenti ali d’angelo.
Anche se i cristiani di rito caldeo dell’Iraq non si sentono più in pericolo come tra il 2014 e il 2017 - gli anni dell’Isis, quando migliaia di famiglie erano scappate dai loro villaggi di origine per rifugiarsi a Hawler (il nome curdo di Erbil) - il loro numero continua a ridursi.
“Più o meno dovrebbero esserci 8mila famiglie cristiane qui”, afferma il vescovo Bashar Warda. “Negli anni scorsi ne sono arrivate almeno 2mila da Mosul e dalla piana di Ninive. E sono quasi tutte rimaste”. Ma allargando lo sguardo all’intero l’Iraq, dal 2003 un terzo dei cristiani è emigrato all’estero. La sfida è quella di mantenere nel Paese i giovani, che, come in Libano o in Siria, appena ne hanno la possibilità se ne vanno, soprattutto se hanno studiato.
“Cerchiamo di lavorare nelle aree in cui vediamo che c’è possibilità di prosperare, come a Erbil, dove abbiamo creato più di 400 posti di lavoro”, racconta mons. Warda. “Il governo del Kurdistan ci ha sostenuti e incoraggiati, ma dal 2010 stiamo cercando non solo di mantenere la nostra presenza qui come cristiani, ma anche di avere voce in capitolo nella società, e lo facciamo soprattutto attraverso l’istruzione e la sanità”.
“Ma è il governo di Baghdad a dover capire che è necessario attuare leggi e regolamenti per proteggere le minoranze e le popolazioni indigene di questo Paese”, prosegue il presule. Se scomparissero, si perderebbe una fetta importante della storia dell’Iraq. Oltre ai manoscritti, si stanno digitalizzando anche tutti i reperti del Syriac Heritage Museum grazie a un finanziamento di due anni da parte di Usaid, agenzia di cooperazione statunitense.
“Ma p. Samer aveva quest’idea da molto tempo”, continua mons. Warda, “da prima che arrivasse l’Isis”.
A Erbil ora ci sono quattro scuole cattoliche e un ospedale, il Maryamana, voluto dal vescovo. “Per me è incredibile vedere che c’è un ospedale dedicato a Maria, con un nome cristiano, nella mia città”, racconta Onell Nael, uno studente di siriaco di p. Yohanna che ora ha in parte abbandonato il lavoro di catalogazione al monastero per fare l’interprete per i soldati americani stanziati a Erbil. “Cristiani e musulmani escono insieme e si rispettano. In questo periodo di Ramadan per esempio non fumo e non mangio davanti ai miei colleghi che digiunano”, racconta il giovane, che nel tempo libero collabora con il museo. “Ma se chiedessi la mano di una ragazza musulmana la sua famiglia mi ammazzerebbe”.
Le divisioni settarie sono più difficili da superare in politica piuttosto che nella vita di tutti i giorni. Le proteste scoppiate nell’ottobre 2019 chiedevano la fine del sistema politico iracheno post-2003, che assegna a sunniti, sciiti e curdi uno specifico ruolo nel governo: “Deve tornare al centro l’idea di cittadino iracheno in quanto tale”, sostiene p. Samer. “Basta con queste divisioni confessionali”.
“La democrazia è un processo che richiede decenni”, sintetizza mons. Warda. “C’è un sacco di sospetto e di sfiducia ancora tra le varie comunità, bisogna aspettare che le cose migliorino con il tempo. Ma con il numero di cristiani che diminuisce di anno in anno, temo che avere pazienza non giocherà a nostro favore”.

14 aprile 2022

Mosul’s song of rebirth

 
In a room at the old Mosul Museum, a young Moslawi singer closes his eyes in a moment of rapture. Singing next to the museum’s modernist 1974 incarnation still being restored after ISIS’s pillage of its treasures, his voice lifts the hearts of listeners.
32-year-old Walid Said’s plaintive cries, carried on a melody by the Sufi icon Mullah Othman al-Mawsili, seem to embody both the pain and the pride of a city rising from the ashes. While ISIS may have destroyed al-Mawsili’s statue, the renowned poet and maqam composer’s songs still ring forth from admirers like Walid.
“Tela’at ya mahla noorha” (“[The sun] has risen with its beautiful light”), he intones, as the audience sways and sings along in unison. Such lyrics celebrating a new dawn fit the occasion of the concert, the museum’s first since the siege of ISIS in 2014, which brought with it a prohibition on music.
Amid unrepaired infrastructure, mounds of rubble, and high unemployment, there is still a sense that the soul of the city is slowly being revived. The concert, part of a traditional music festival organized by the NGO Action for Hope in conjunction with UNESCO’s Revive the Spirit of Mosul (RSM) program and the European Union, is a formal, invitation-only affair with officials from the UN and the EU sitting front and center. Although the festival’s program promised iconic outdoor venues like the al-Tahera Church — currently being restored by UNESCO and visited by Pope Francis last year — performances are largely confined to the heavily guarded indoor museum space. But the enthusiastic audience of mostly male Iraqi attendees clapping and humming along captures this newly reenchanted Mosul more succinctly than NGO-speak ever could. Once known not as a war zone but as a cultural crossroads on the Silk Road, the city is experiencing a kind of artistic reawakening.
In the spirit of the Silk Road, today’s concert in Mosul — a city of bridges whose name means “junction” in Arabic — features performances by international groups, including a trio of lovely Frenchwomen regaling the audience with world music, a group playing southern Italian tunes, and a Hispano-Arabic ensemble.
The concert also features genuinely moving voice and violin maqam solos by Layth Sidiq, a Mosul native who left as a baby and is now returning for the first time. Before performing a violin solo by Adam Haddad, an important Iraqi composer from the mid-century Fine Arts Quartet, Sidiq exalts the power of music to save the city of his birth.
“I’m so grateful to be back in Iraq for the first time and to receive such a warm welcome from the audience — especially after what has happened to the city and to the country as a whole — and to know that as artists we have the chance to rebuild through music. We are social activists who can create positive change.”
Outside of the rarified realm of internationally funded music festivals, it would appear that Moslawis are simply getting on with it. After centuries of harmonious co-existence between Muslims, Christians, Arabs, Kurds, Turkmen, Shabaks, Yazidis, Armenians, Sabeans, and Mandaeans, as well as a history of foreign invasions and interventions, they don’t need instruction in how to get along, however well-intentioned or funded.
The revival of the city’s central bazaar began when a single merchant rebuilt his stall. His endeavor evolved into a kind of local competition that led to the restoration of Mosul’s commercial and social heart with assistance from local notables such as the Jalili family, who have also helped to restore prominent city mosques, just as their ancestors — rulers of the city from 1726 to 1934 — had done in centuries prior. The Mosul library — burned and razed by ISIS — recently reopened, as did the city’s only theater at the University of Mosul, with a triumphant evening of orchestral music.
And happily, a wooded area by the river overlooking the old city known as the “jungle” has sprung back to life, with cafes and restaurants and new “wedding halls” abuzz with celebrations on weekends. A 1980s Saddam-era behemoth called the “Tourist Village” has reopened, charging upwards of $80 a night for accommodation. Foreign tourists have started to trickle back in, spurred by both improved security and a new visa available on arrival to dozens of nationalities.
While homegrown initiatives have proved successful, it’s impossible to deny the impact of UNESCO’s RSM project launched in 2018 by Audrey Auzoulay. The project has made a splash with a $50.4 million U.S.-UAE-funded reconstruction of the al-Nouri Mosque and the nearby al-Tahera and Our Lady of the Hour churches, and a $22.9 million EU-funded restoration of old-city houses, an elementary school, and the al-Aghawat Mosque. RSM’s mission statement melds social and architectural restoration, boldly stating: “Reviving Mosul is not only about reconstructing heritage sites, it is about empowering the population as agents of change involved in the process of rebuilding their city through culture and education.”

13 aprile 2022

Holy Week in Iraq a sign that Christians are slowly returning to their homes

By Crux
Inés San Martín

Holy Week celebrations this year represent a return to some semblance of normalcy in many places around the world, but in the Nineveh Plains in Iraq, occupied by Daesh (also known as the Islamic State) between 2014-2017, Palm Sunday had special significance.
Thousands of people took part in Sunday’s procession through the streets of Qaraqosh, the largest of the Christian towns in the region that was a victim of the anti-Christian genocide committed by ISIS. Similar crowds are expected throughout the Holy Week celebrations, including the Liturgy of the Passion of the Lord, the Via Crucis, and the Easter Vigil on Saturday.
Iraqi Father Naim Shoshandy said that “Christians in Iraq are full of hope, joy, excitement, because in the past years, many could not celebrate Holy Week.”
“We started this major week of Christian life in the street, professing our faith in Jesus Christ, with thousands, thousands of people publicly celebrating Palm Sunday,” he told Crux.
In addition to the thousands who have moved back to the city after Daesh was defeated, he said that 50 families returned to Qaraqosh this week, to visit with their families and keep their traditions alive.
Shoshandy is among those who had to flee the country during the worst of the terrorist-led campaign: On March 23, 2014, ISIS murdered his 27-year-old brother for being a Christian. Yet his heart is still in his birthplace. He was supposed to be there this week, but for bureaucratic reasons, he ended up stuck in Spain, his adoptive country.
“To tell the truth, I did not expect that we could experience a Palm Sunday like the one we did,” he said. “I carry suffering in my heart, I was born in war. But I thank God because what we saw on Sunday shows us that Christianity is alive in Iraq, and not only in Qaraqosh, but in the whole Nineveh Plain, in Mosul, in Baghdad.”
“And it gives one joy to be able to serve wholeheartedly these people who live their faith in Jesus Christ and can profess it publicly in the street,” he said. “I really did not think it would be possible to see the images we have seen these days.”
Among those taking part in Sunday’s celebration was Patriarch Raphael Sako, head of the Chaldean Catholic Church.
“We started this major week of Christian life in the street, professing our faith in Jesus Christ, with thousands, thousands of people publicly celebrating Palm Sunday,” Shoshandy said.
The situation in Mosul, once the second largest city in Iraq, is “very different,” the priest said.
“Many Christians have not yet been able to return: The city is still completely destroyed, and the houses of the Christians are being rebuilt little by little,” he said. “We do not have, as we would usually have, churches that are full. But we have again the great gift of being able to ring the bells, announcing that in our churches the faith is celebrated, something that we could not do for a long time because of Daesh.”
Reflecting on Pope Francis’s historic visit to Iraq in March 2021, Shoshandy said that it has “given a lot of encouragement to the Christians of Iraq. We continue to work so that this martyred church continues to be present, and the visit gave a lot of encouragement to the people, who want to, and for now also can, stay in this country, and give testimony of the faith in Jesus Christ to the whole world.”
He argued that since the pontiff’s visit, many things have changed in the life of Christians in the country, including their relationship with peoples of other faiths – particularly Muslims.
“It was not easy for Christians to go back to their homes, to live in the same place where their own neighbor burned and looted their home,” he said. “I believe that the visit of Pope Francis has helped us heal the huge wound that the violence had left in our hearts. I believe that his visit left something in each one of us, and for this we thank God.”
That is not to say that things being better means it is all fixed: “We are also waiting for the state to change some things, for example, to accept Christians as part of the country and not as foreigners.”
Lastly, he also said that despite the moving images from Sunday, Christians in Iraq are still not safe, despite the police presence in the ceremonies.
“Security is never guaranteed for Christians in this country. But we have the grace of God, as we say, the Lord is with us, he will save us, so we cannot be afraid,” Shoshandy said.
“Instead, we have to live with our trust in the Lord, giving a testimony as Christians, living a life full of peace and love, aware that, as the pope told us so many times, we are all brothers. And we need to be able to live as followers of Jesus, accompanied by the Virgin Mary.”

Il Patriarca caldeo Sako: la luce della Pasqua di Cristo illumini le tenebre di questi tempi di guerra

By Fides - Patriarcato caldeo

Nel tempo di Pasqua, che quest’anno coincide in parte con il Ramadan (mese di digiuno e preghiera del calendario islamico), “Ogni credente in Dio, e in particolare i cristiani, deve rifiutare la logica mortifera della guerra”. 
Il richiamo viene dal Cardinale Louis Raphael Sako, Patriarca della Chiesa caldea, che nel messaggio diffuso per l’imminente solennità cristiana invita a guardare la resurrezione di Cristo come l’unica luce che può rischiarare le tenebre del tempo presente, segnato dai presagi di “una devastante guerra mondiale”.
Riferendosi esplicitamente alle guerre che dilaniano il mondo, il Patriarca caldeo invita “tutti i credenti, cristiani e musulmani, che attualmente digiunano per il Ramadan, e anche gli ebrei, a guardare alla tragedia in Ucraina e nei Paesi del Medio Oriente, alla loro umiliazione e allo smantellamento del loro bellissimo mosaico”. Oggi più che mai – fa notare il Cardinale iracheno - la celebrazione della Pasqua rappresenta un’occasione propizia per riconoscere anche in questo tempo “l'amore di Dio per gli uomini, la sua vicinanza e la sua infinita misericordia verso tutti”, che si manifesta “attraverso la risurrezione di Cristo”, avvenuta “per la salvezza dell'umanità”.
La risurrezione di Cristo “viene per risplendere su coloro che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”, ricorda il Cardinale iracheno, ripetendo le parole del Cantico evangelico di Zaccaria, padre di Giovanni il Battista. E’ la resurrezione di Cristo che fa fiorire gesti gratuiti di carità verso i fratelli, e raccoglie gli uni accanto agli altri, come avvenne ai discepoli di Gesù, “che furono uniti quando Lui è risorto, e hanno condiviso con amore tutto ciò che possedevano”.
Nella sua riflessione pasquale, il Patriarca caldeo si domanda come mai i valori spirituali cristiani siano scomparsi nella maggior parte delle attuali società, a cominciare da quelle occidentali: “Che cosa abbiamo fatto dell'insegnamento di Cristo, che ci ha chiamato ad amare tutti, compresi i nostri nemici?” 
La Chiesa – prosegue il Cardinale Sako - è chiamata a guardare l’attualità che plasma la vita delle nostre società alla luce del Vangelo. Quando ciò non accade, quando non si fa tesoro di quella luce, anche l’agitarsi in tante iniziative ecclesiastiche finisce per essere “infecondo”.
Presidenti, autorità religiose e comunità sociali – aggiunge il Patriarca riferendosi al sanguinoso conflitto apertosi nel cuore dell’Europa – “dovrebbero lavorare per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina, per risolvere il conflitto con gli strumenti della diplomazia, invece che con le armi. Basta guerre, vittime, dolore, distruzione, migrazione, povertà e malattie. Dovrebbe esserci fine alla produzione di armi letali dovunque”, e “ogni persona onesta deve rifiutare questo inferno”.
Rivolgendo anche un pensiero alla paralisi politico-istituzionale creatasi in Iraq dopo le elezioni di ottobre, il Patriarca Sako auspica che le forze politiche si assumano le proprie responsabilità davanti al destino della nazione, e adottino “il linguaggio del dialogo e della comprensione reciproca, che è l'unico modo per uscire dal preoccupante blocco politico e per formare un governo nazionale” in grado di por mano con urgenza e saggezza alle riforme necessarie per salvaguardare la tenuta economica e la coesione sociale del Paese.

Easter Message 2022: Resurrection of Christ means a bright future for humanity if it proceeds according to His teaching

By Chaldean Patriarchate
Patriarch Louis Raphael Card. Sako

Easter celebration this year reminds us, more than any other time, of God’s love for mankind, His closeness and His vast mercy to all, through the resurrection of Christ, which is an affirmation for brighter future and salvation of humanity, as long as it proceeds according to His teaching. His resurrection comes “to shine from heaven on all those who live in the dark shadow of death, to guide our steps into the path of peace” (luke 1/79).
Jesus’ resurrection is a consolation and a hope for us. Moreover, it is a “deposit” for the resurrection of all those who believe in Him. Ultimately His Gospel is a message of hope, reminding us of important things in our lives. Jesus’ passion is a new birth, a glorious resurrection. and establishment of a new congregation (the Church).
Resurrection is an invitation to enter into a new era, and a new covenant, in which we love each other sincerely, and cooperate enthusiastically with impartiality, to be always present next to each other, following the example Jesus’ disciples, whose love brought them together when He was risen and shared what they owned freely.
I wonder why the Christian spiritual values ​​disappeared in most of our societies. What have we done with the teaching of Christ, who called us to love everyone, including our enemies? What have we done with the values ​​of fraternity, peace, stability, respect and the common good? It is a shame that our spirituality is getting poor. Why did our societies, especially the Western ones, abandon Christian Values?
The Church must work hard to restore these values ​​so that our world may enjoy peace, security, justice in a spirit of love. The Church should reflect the light of the Gospel on the current affairs that shape the life of our societies. Otherwise, it will remain “idle – Out of order”.
Believers of all religions should communicate with every human being, regardless of his religion, sect or nationality, to reach an understanding and fraternal cooperation, fulfilling Christ’s statement “you are all brothers” which has been reflected in Pope Francis’ message “We are all brothers”, encouraging us to build a new world and a new civilization that defends human fraternity, human dignity and mutual respect.
Every believer in God, and Christians in particular, must reject the logic of war-death because it crosses with the logic of love, peace and life. Jesus is calling every one of us, as He manifests Himself to St. Thomas and called Mary Magdalene by her name. Thus, the only way for us to be good Christian is by following His example on daily basis to reach and live “resurrection”.
Presidents, religious authorities and the whole society should work hard to end the Russian – Ukrainian war by resolving problems through diplomatic means rather than fighting. Enough wars, casualties, grief, destruction, migration, poverty and diseases. There should be an end for the production of lethal weapons here and there. Isn’t “natural” that such evil act creates guilt conscience for the world’s political officials? Since every honest person would have reject this hell
We are going through the “dangerous moment” that may lead to a devastating world war (God forbid), which will have serious impact on the entire political process. Therefore, I invite all believers, Christians and Muslims (as they are currently fasting Ramadan) and Jews as well to look at the tragedy in Ukraine and Middle East countries, their humiliation, and the “harsh” dismantling of its beautiful mosaic.
Finally, as an Iraqi citizen and a Christian religious leader I cannot ignore seeing Iraqis extremely tired and exhausted due to the current situation. Hence, I call upon the Iraqi political forces to assume national responsibility by adopting the language of dialogue and mutual understanding, which is the only way to get out of the troubling “political blockage” in order to form a national government capable of real reform as soon as possible.
Hoping that the light emanating from Jesus tomb enlightens our minds and spirits, so we may rise with him, and let our human senses enjoy (once in our life time) freedom, solidarity and fraternity.

Wishing you all a blessed Easter and peace on earth

12 aprile 2022

Joyful Iraqi Christians return to Nineveh Plains to celebrate Holy Week

Bashar Jameel Hanna

After almost a decade of death and destruction, and one year after the historic visit of Pope Francis to Iraq, more than 25,000 Assyrian Christians in Qaraqosh chanted "Hosanna to the Son of David. Blessed is he who comes in the name of the Lord, Hosanna."
Qaraqosh, a majority-Christian Assyrian town located at the heart of the Nineveh Plains in northern Iraq, is less than 20 miles southeast of Mosul, the city that in 2014 was the de facto capital of the Islamic State (ISIS) in the region.
Two decades ago, Mosul, Qaraqosh, and other towns in the Nineveh Plains were the home of approximately 1.5 million Christians in northern Iraq. After the second U.S. invasion in 2004 and the ISIS uprising in 2014, only about 300,000 Christians remained.
But on Palm Sunday, April 10, the town became the Christian epicenter of Iraq during a procession and a Mass presided by His Beatitude Ignatius Ephrem Joseph III Younan and Patriarch of Antioch and all the East for the Syriac Catholic Church.
Accompanying them were Archbishop Mitja Lescovar, the apostolic nuncio to Iraq; Bishop Nathanael Nizar Samaan, metropolitan of the Syriac diocese of Hydiab-Erbil and the rest of the Kurdistan Region; Archbishop Ephrem Youssef Abba Mansour, of the Syriac Diocese of Baghdad, and Bishop Atanasius Firas Mundher Dardar, patriarchal vicar for the Syriac Catholics in Basra (Basorah) and the Arabian Gulf.
The multitude of the faithful surrounded and walked along with Patriarch Younan, who was carrying a cross adorned with olive branches.
The procession around the town set off from the Great Church of St. Mary at Al-Tahira, the largest church building of the Syriac Catholic Church, and the largest church in Iraq since its consecration in 1952. The church was desecrated and burned by ISIS, but thanks to the help of Catholic organizations in the West, such as Aid to the Church in Need, it was restored in time for Pope Francis’ visit in March 2021.
Walking through the streets of the city, praying the rosary in Arabic and Syriac, and singing Palm Sunday songs were Christians from surrounding villages, different regions of Iraq, and even Iraqi expatriates from Europe, the United States, and Australia.
Among the returnees was Sabah Yacoub, who was visiting from Germany.
“(Qaraqosh) lives in our blood because it is our rock. And all of Iraq lives in our blood, because it is our original land. We were forcibly displaced from it because of ISIS, who wanted to kill us, our families, our daughters, so we had to migrate from the country to a safe place,” Yacoub told ACI MENA, CNA’s Arabic-language sister news agency.
“I settled in Germany,” Yacoub continued, “but when we fall asleep it comes to our minds, so every year I come to Iraq on the holidays, in particular, and I consider it a pilgrimage to my country, and we wait for the day when we can find stability in (Qaraqosh) and our beloved Iraq.”
Qaraqosh has been only partially rebuilt and it is estimated that only half of its original Christian population is back. But the Catholic clergy, the first group to enter the town after ISIS’ defeat, continues to lead the reconstruction effort.
The Palm Sunday procession was decorated with palm fronds, roses, bright colors, and folkloric costumes characteristic of Holy Week and Easter.
As one of the six members of the Hana Qasha family told ACI MENA: “All people are rejoicing in the King of Kings and Lord of Lords. We welcome our Lord Jesus Christ with songs, hymns, chants, various folk costumes and bright colors, the colors of spring. This is (Qaraqosh's) wedding.”
The procession included the participation of the traditional confraternities of the Immaculate Conception and the Sacred Heart, and the catechumens who will be received into the Catholic Church on Easter.
“We are here to announce to the world that we are in this region as the children of hope, the children of love who want to live a life of dignity under the banner of the cross and the banner of the one Iraqi flag," Patriarch Younan said.
“Here we celebrate the occasion of the Lord’s entry into Jerusalem, as even the stones cry out, ‘Hosanna to the son of David,’ and the church that was burned down by the Islamic State, was restored to scream, as its stones cry out, 'Hosanna to the son of David,'” he said in closing.

6 aprile 2022

Quegli altri profughi senza attenzione. Chi si ricorda ormai di Erbil?

Maurizio Ambrosini

La guerra in Ucraina ha sprigionato una capacità di accoglienza nei confronti dei rifugiati di cui non credevamo neppure di essere capaci, dopo tante polemiche sul tema. Eppure nel mondo la cartografia delle guerre, delle persecuzioni, dei conflitti etnicoreligiosi, è assai più estesa e drammatica.
Civili in fuga, emergenze da fronteggiare, minori da proteggere, sono una delle sfide grandi e trascurate della politica internazionale. 82,4 milioni di rifugiati, diceva l’Unhcr nel suo rapporto 2021. Oggi senz’altro di più. Generosamente mobilitati per l’Ucraina, rischiamo di perdere di vista il quadro complessivo.
Erbil, Kurdistan iracheno, è uno dei punti dolenti ed emblematici della mappa internazionale dell’umanità sradicata e a rischio di abbandono.
La città ferve di cantieri e vede sorgere nuovi grattacieli e centri commerciali, grazie alla spinta del prezzo del petrolio e alla vittoria sul Daesh-Isis, peraltro ancora attivo ai confini con la Siria. Ogni tanto piove un missile, ma non sembra scoraggiare gli investimenti. Eppure i rifugiati siriani sono ancora qui, insediati in campi all’esterno della capitale, senza trasporti pubblici, con difficoltà di accesso al lavoro e ai diversi servizi : circa 250mila, dicono le stime.
Vivono da anni in prefabbricati destinati alla prima accoglienza, quasi tutti senza un lavoro regolare, dipendenti dall’assistenza umanitaria che si sta progressivamente riducendo. Ancora più numerosi gli sfollati interni (1.200.000 in tutto l’Iraq), provenienti dalle aree sconvolte dalla guerra con il 'califfato nero', e in gran parte concentrati in questa regione. Molti qui sono arrivati dalla zona di Mossul. Tra di loro anche vedove e bambini senza padre, discriminati perché etichettati come mogli e figli di militanti del Daesh. La pacificazione interna è ancora lontana, tra accuse, recriminazioni, ritorsioni tra le varie componenti etniche e religiose.
Ma anche i cinque milioni di sfollati fatti ritornare nei luoghi di origine sono tutt’altro che fuori pericolo, dovendo ricominciare a condurre una vita normale in città e villaggi distrutti, privi di infrastrutture e di opportunità economiche, spesso ancora circondati dalle mine. In questo panorama, risulta particolarmente penosa la situazione dei minori: pochi vanno a scuola regolarmente. Se sono siriani o provengono da altre regioni dell’Iraq, parlano arabo, ma a Erbil le scuole sono in curdo. Inoltre, se sono rimasti lontani dalla scuola per anni o non hanno documenti validi, non vengono ammessi. A tutto questo si aggiunge il problema economico: molti sono coinvolti in qualche lavoretto per aiutare le famiglie, girano per le strade cercando di vendere qualcosa o chiedono l’elemosina attorno ai mercati.
Fenomeni un tempo sconosciuti a Erbil. Il Covid ha accresciuto precarietà e incertezza. Diversi rifugiati cristiani provenienti dalla Siria hanno ottenuto un visto per l’Australia, ma sono bloccati in Kurdistan da due anni: impossibile progettare un futuro, da una parte o dall’altra.
E anche la speranza accesa dall’abbraccio fraterno che papa Francesco portò a tutti, cristiani e no, proprio a Erbil il 7 marzo di un anno fa rischia di spegnersi, come già hanno fatto da tempo i riflettori dei media internazionali. La presenza delle organizzazioni umanitarie sul posto è tuttora importante e necessaria, ma il vento dell’attenzione del mondo soffia ora in un’altra direzione. Se non cambia qualcosa, gli aiuti continueranno a scemare e i rifugiati nel Kurdistan iracheno si ritroveranno abbandonati a se stessi.
Qualcuno paventa nuovi conflitti, qualcuno provocatoriamente dice di sperarci, per riportare un po’ d’interesse su questa regione nevralgica dei fragili equilibri del pianeta.
Vorremmo credere che non ci sia bisogno di ancora più guerra.