Nella Baghdad di prima della guerra del 2003 c’era una strada che era diventata famosa: A’arasat al Indiya. In centro, e raggiungibile anche a piedi dai maggiori alberghi della capitale, in essa si era concentrato il lusso che in un paese sotto embargo era riservato solo a quella piccola parte della popolazione che con esso si era arricchito a dismisura, a differenza della maggioranza che di embargo, invece, moriva.
In A’rasat c’erano saloni di bellezza, e manifesti di algide bellezze nordiche impeccabilmente pettinate, boutiques, ed abiti da gran sera luccicanti di paillettes, profumerie, e fragranze francesi ed italiane, negozi di mobili, ed enormi lampadari le cui mille e mille gocce di cristallo riflettevano le luci della strada. In A’rasat sfilavano lente nello struscio notturno scintillanti macchine di lusso difficili da vedere anche sulle nostre strade, e dai cui finestrini aperti rimbombava la musica rock occidentale e si intravedevano gli occupanti, sempre uomini, sempre giovani, che con fare spavaldo scrutavano silenziosi i passanti, specialmente le donne.
In A’rasat c’erano alcuni dei ristoranti meglio frequentati della città dove era d’uso per le donne indossare l’abito lungo a cena. C’era il Castello, sì, proprio il Castello, in italiano. Un’improbabile ricostruzione in piccolo di un castello medioevale, le cui mura e le cui torrette erano ornate da una fila ininterrotta di lucine. Il Latakyia, di proprietà di un libanese, nel cui giardino una grande vasca ospitava le lente carpe del Tigri che, dopo essere state scelte dal cliente, sarebbero state cucinate secondo il metodo con il quale erano conosciute, il masgouf, e che consisteva nel poggiare il pesce, praticamente impalato da uno spiedo, sulle pareti di un forno circolare scavato nel pavimento ed al cui centro brillava un fuoco alimentato a legna. C’era il ristorante all’aperto su più livelli, al cui centro spiccava una vasta quanto inutile piscina, la cui sola illuminazione veniva da piccoli lumini posti sui tavoli ed i cui dondoli a due posti, strategicamente piazzati negli angoli più bui, ninnavano gli amori di adolescenti in jeans e t-shirt che parlottavano fitto, le mani intrecciate.
C’era il bar a tre piani con l’orchestrina dal vivo, un incredibile menu di gelati che malgrado le diverse forme e colori avevano tutti lo stesso sapore dolciastro e la stessa consistenza appiccicosa, e dove era possibile avere come vicini di tavolo gruppetti di ragazze truccatissime ed eleganti che, da sole, si godevano il fresco sorseggiando bibite gelate, fumando, e rispondendo con sguardi falsamente sprezzanti alle mute avances dei giovani conquistatori in macchina.
In A’rasat c’era anche Allan Melody, un negozio di musica molto conosciuto e dove, nonostante l’embargo si poteva trovare di tutto, dalla musica araba classica a quella moderna, da quella sinfonica tedesca al rock inglese, ma soprattutto gli ultimi successi made in USA. Non erano CD originali, questo sia chiaro, ma rispettabili copie che riuscivano però a soddisfare le richieste di quei clienti che criticavano la politica degli Stati Uniti d’America ma che ne ammiravano le stelle della musica.
Quel negozio ora non c’è più. Il proprietario lo chiuse dopo essere stato minacciato di morte, e dopo che una granata, che fortunatamente rimase inesplosa, fu gettata all’interno del locale. Anche il proprietario ora non c’è più. E’ morto a gennaio del 2006, ucciso dagli uomini che non miravano a lui ma che a tutti i costi volevano rapire colei che lui accompagnava, una giornalista americana, un ghiotto boccone da chi nel marasma iracheno cerca di trarre vantaggi politici od economici da queste azioni. Il nome di lei lo conosciamo, Jill Carroll, giornalista del Christian Science Monitor di Boston, rapita il 7 gennaio e liberata il 30 di marzo; quello del vecchio proprietario del negozio di dischi che di Jill era diventato l’interprete, è invece sconosciuto ai più. Il troppo orrore quotidiano dell’Iraq, e di Baghdad in particolare, nasconde i nomi dei morti, dei feriti, dei disperati iracheni non “eccellenti” ed il loro ricordo si perde nel dolore dei familiari e degli amici.
Così è per Allan Enwiya, ex venditore di musica, ex interprete, e poi ex figlio, marito, padre. Figlio unico, Allan aveva una moglie, un bambino di pochi mesi, Martin, ed una bimba di cinque anni, Mary Ann.
Allan, Martin, Mary Ann nomi inusuali per degli iracheni, ma non tanto a sapere che Allan era un cristiano e che come molti suoi correligionari portava, e dava ai figli, nomi non legati alla tradizione araba, quanto piuttosto a quella anglosassone, non per ricordare il periodo della dominazione britannica del paese, quanto piuttosto per ribadire coraggiosamente un’identità “altra,” diversa da quella della maggioranza islamica.
Allan Enwiya non è morto perché cristiano, storie simili alla sua ce ne sono migliaia in Iraq, e purtroppo riguardano tutte le diverse componenti del paese, i musulmani ed i cristiani, gli sciiti ed i sunniti, gli arabi ed i curdi, i turcomanni e gli assiri.
Allan Enwiya è morto però “anche” perché cristiano, anche se non direttamente.
Nell’Iraq di prima del 2003 i cristiani, tranne poche e famose eccezioni, non partecipavano alla vita politica e militare del paese. A livello politico la loro partecipazione era irrilevante anche se ufficialmente bilanciata dalla figura di Tareq Aziz, il cui stesso cambio di nome, originariamente Michael Yohanna, ben dimostra lo scarso attaccamento da egli dimostrato nei confronti dei suoi fratelli cristiani, e soprattutto la necessità di adeguamento totale, anche identitario, con la maggioranza per poter fare politica. Ed allora i cristiani si davano ad altre professioni. Come tutte le minoranze essi riconoscevano l’importanza dell’istruzione e molti quindi, erano in possesso di una laurea. Anche Allan era laureato, in ingegneria, ma la stagnazione dell’economia irachena sotto embargo lo aveva costretto a cambiare il corso della sua vita ed a diventare “DJAllan” come era conosciuto tra gli appassionati di musica di Baghdad.
La maggiore padronanza dell’inglese, e la disponibilità dei suoi parenti emigrati negli USA a mandargli le copie originali degli ultimi successi musicali che lui poi avrebbe doppiato, gli avevano consentito di gestire con successo il suo negozio. Poi però la scure dell’estremismo islamico che vorrebbe riportare il paese indietro nel tempo negandogli tutto ciò che è troppo “occidentale” e quindi “corruttivo” lo aveva costretto a cambiare mestiere ed era diventato interprete per i giornalisti americani, un lavoro rischioso, svolto prevalentemente dai cristiani le cui tipiche attività commerciali (saloni di bellezza, negozi di barbiere e parrucchiere per donna, produzione e vendita di alcolici, tra le altre) non hanno posto nel nuovo Iraq “democratizzato” dai mullah. Anche i bambini di Baghdad sanno che lavorare per gli americani è pericoloso, se non si è uccisi proprio perché “collaborazionisti,” lo si può essere negli attacchi che essi subiscono, ma a volte non ci sono alternative, e se non altro i cristiani non sono soggetti a ritorsioni da parte della loro stessa comunità, come accadrebbe invece per i musulmani che volessero fare il loro stesso mestiere.
Così Allan è morto per un colpo di pistola in testa il 7 gennaio. Così ora suo padre, sua madre, sua moglie ed i suoi due bambini sono fuggiti all’estero in attesa di un visto per gli USA, e di una nuova vita lontana dalla violenza di Baghdad.
Per la famiglia di Allan c’è stata una mobilitazione internazionale, il Christian Science Monitor, il quotidiano americano per cui lavora Jill Carroll, gli ha dedicato un tributo ripreso da molti altri organi di stampa, ed ha organizzato una raccolta fondi a favore della vedova e degli orfani, ma in Italia il suo nome è sconosciuto.
Perché dovrebbe essere altrimenti? Allan non era famoso, e soprattutto era iracheno, due caratteristiche che lo inseriscono di diritto nella lista dei morti dimenticati e mai conosciuti di questa assurda guerra senza fine.
Se io ne scrivo è solo perché con Allan io ci ho parlato, una volta. Non l’ho conosciuto, perché non si “conosce” una persona con la quale si scambiano solo poche parole, ma ricordo il suo negozio in A’arasat al Indiya, dove gli amici iracheni ci avevano portato in una calda serata di settembre assicurandoci che solo lì avremmo trovato tutto ciò che di musica stavamo cercando. Ricordo che a differenza di altri negozi analoghi in quartieri più popolari il volume della musica nel suo non ti spaccava i timpani, che tutto era ordinato e pulito, che lì comprai un DVD di Kadem el-Saher, il più popolare cantante iracheno, che uno schermo TV non visibile dalla strada mandava in onda filmati di poco vestite ballerine di danza del ventre - libanesi come ci dissero –
Devo aver parlato con Allan, sicuramente gli ho chiesto il conto, sicuramente l’ho ringraziato e salutato con il “Mah’-salama” di rito, ma i miei ricordi non vanno oltre.
Allan Enwiya è una delle centinaia di persone con cui ho scambiato almeno un saluto o un sorriso in Iraq, solo che di lui ora conosco il nome, la storia e la fine.
Chissà cosa ne è stato degli altri…