di Luca Attanasio
A Erbil, capitale curda dell'Iraq con la più grande comunità cristiana del paese, da qualche anno è sorto un ambulatorio gestito da medici cristiani, una delle pochissime realtà di volontariato autoctono del paese.
Il centro è intitolato alla memoria di Ragheed Ganni, il sacerdote 35enne ucciso a Mosul il 3 giugno del 2007 assieme a tre suddiaconi nei pressi della sua parrocchia.
La visita dei ventidue medici iracheni alla comunità di Sant'Egidio e ad altre realtà sanitarie d'Italia è l'occasione per parlare della clinica, ma anche della situazione attuale dell'Iraq, del Kurdistan teatro di nuove tensioni, della condizione dei cristiani tra proposte di mini-Stati e minacce continue e del futuro del nuovo Iraq.
Basman Marqus, medico di base, Erbil
Faiq Braimok Basa, neurologo, Erbil
Omar Salim Peter, otorinolaringoiatra, Baghdad
Nadeen Janed Ibrahim, dentista, Baghdad
Fadi Basheer Zakko, otorinolaringoiatra, Mosul
LIMES Come e quando nasce la vostra esperienza?
Basman: Neanche quattro mesi dopo l’assassinio di padre Ragheed Ganni, un prete a lui molto vicino, padre Rayan Atto, ha voluto dare vita a un’iniziativa benefica in suo nome. Visti i problemi sanitari ed economici di tanta gente – in particolare di chi ha lasciato le città del sud dell’Iraq e Mosul, per trovare rifugio in Kurdistan – ha contattato un piccolo gruppo di medici. In breve siamo diventati ventidue. Le comunità cristiane della diaspora in Europa ci inviano costantemente farmaci che noi raccogliamo e distribuiamo senza chiedere alcun compenso. Offriamo anche visite specialistiche: chi può lascia una donazione, gli altri, la gran parte, sono visitati gratuitamente.
Che tipo di patologie affrontate in genere?
Omar: Molte patologie croniche. In più, poiché le persone che vengono al nostro centro sono in maggioranza profughi interni, sono in aumento le patologie di tipo psicologico, depressioni, stress post-traumatici. Per le patologie croniche, come il cancro ad esempio, le percentuali tra la popolazione del sud dell’Iraq sembrerebbero essere più alte della media, forse a causa delle radiazioni e di una maggiore fragilità immunologica da stress.
Il centro è aperto a tutti?
Fadi: Assolutamente sì. Vorrei sottolineare il carattere universale del nostro centro. In un paese in cui l’etnicità, anche tra i cristiani, è esaltata, in cui sui documenti viene segnalata l’appartenenza religiosa, noi vogliamo essere un esempio di unità: i medici sono caldei, siro-ortodossi, siro-cattolici e tra i nostri pazienti, oltre a tutte le confessioni cristiane, ci sono molti musulmani.
Quali sono i problemi sociali di una società post-bellica che ancora sperimenta grossissime tensioni?
Basman: Sul concetto di post-bellico avrei qualcosa da osservare. Sì, è vero, la guerra tra forze alleate ed esercito iracheno è finita. Per come la vedo io però siamo in guerra permanente dal 1958, anno in cui da regno siamo divenuti una repubblica. Non vediamo la luce alla fine del tunnel.
Omar: Un grosso problema è poi l’immensa corruzione che esiste a ogni livello di amministrazione. La situazione economica, specie nel Kurdistan, è l’unico segnale leggermente positivo, poiché ci sono maggiori opportunità di lavoro.
Nadeen: Temo che quello che dice Omar non sia più vero adesso: fino a uno o due anni fa lo era, ma ora il lavoro comincia a scarseggiare anche in Kurdistan a causa dell'enorme afflusso di profughi.
Basman: La guerra e la violenza sono diminuite, ma le conseguenze sono ancora visibili. Abbiamo vissuto per decenni in perfetto isolamento, non conosciamo neanche il significato di concetti come diritti umani e civili. Abbiamo conosciuto solo dittatura e guerra non sapendo cosa succedeva al di fuori. Ora speriamo finalmente di avere la possibilità di uscire e conoscere altre realtà (molti dei ventidue medici sono per la prima volta in Europa, n.d.r.).
A livello politico, quali sono le questioni aperte?
Fadi: Siamo molto preoccupati per le grosse tensioni che al momento vi sono tra il governo centrale e quello del Kurdistan. Ultimamente si registra l'ascesa dell’islam radicale anche in Kurdistan, con aumento dei consensi dei partiti confessionali. Ci sono state violenze a Zakho e a Dohok (nel dicembre scorso a Zakho e in seguito a Dohok, gruppi estremisti islamici sotto la spinta di un imam locale, hanno distrutto alcune attività dei cristiani nella zona; gli attacchi hanno causato l’incendio di decine di negozi e almeno 30 feriti, n.d.r.). Ma anche a Erbil hanno distrutto negozi e bar che vendevano alcool o articoli contrari alla fede islamica.
Omar: Sta aumentando l’estremismo, lo capisci anche dalle semplici conversazioni al lavoro con i colleghi. Tutti sanno poi che i motivi di conflitto tra regione e regione, specie per la distribuzione dei proventi del petrolio, sono moltissimi. Tutto è diviso, frazionato a seconda delle appartenenze. Un paese bloccato senza speranza di ascesa sociale: se non appartieni a certi gruppi non ti muovi.
Che influenze ha avuto sul vostro paese la primavera araba?
Basman: Io personalmente non la chiamo primavera araba ma islamica.
Siete d’accordo anche voi?
Tutti: Certamente…
Basman: È un movimento portato avanti perlopiù da islamici e temo che non avrà sbocchi molto democratici. In ogni caso, a seguito della primavera islamica la situazione attorno all’Iraq si è fatta ancora più calda e ciò crea ulteriori pressioni sulle minoranze, non solo sui cristiani. La situazione è molto tesa.
Tutti voi siete nati e cresciuti nell’era di Saddam: come cristiani e semplici cittadini, quali sono oggi i maggiori cambiamenti?
Faiq: Direi che le principali differenze sono due: sotto Saddam c’era maggiore sicurezza. Per i cristiani ad esempio, la protezione era maggiore al centro e al sud - non al nord. Dal punto di vista economico e quello delle opportunità di impiego oggi va meglio, i salari sono un po’ più alti. La sicurezza però, lo ribadisco, è quasi nulla. Per questo tutti noi - e decine di migliaia come noi - abbiamo dovuto rifugiarci in Kurdistan.
Basman: Per me non è cambiato molto, la democrazia per noi era e resta un concetto astratto, il nostro unico diritto è che ci lasciano pregare.
Omar: Se lo Stato non separa una volta per tutte politica e religione, non vedo futuro per il nostro paese. Spero che altra gente come noi possa visitare l’Europa e altre aree per uscire dall’isolamento e scoprire altre vie possibili, altre culture. Noi siamo una generazione di “isolati” ed è difficile che possa scaturire qualcosa di buono da gente che ha conosciuto solo guerra, chiusura, pensiero unico.
Tempo fa si parlava della costituzione di un’enclave cristiana nella zona della piana di Ninive, a ridosso di Mosul. È ancora una pista percorribile? Voi che ne pensate?
Fadi: È chiaro che dopo anni di attentati, minacce, uccisioni anche di massa di membri della comunità cristiana irachena, si siano esplorate nuove possibilità, tra queste anche quella di un mini-Stato. In realtà il progetto piana di Ninive è completamente sepolto per vari motivi. La zona attorno a Mosul è al 95% sunnita, l’ala più dura dell’Islam iracheno, inoltre esistono in quell’area altre minoranze, non vedo come potremmo costituire uno Stato cristiano. Ma poi se il problema è essere continuamente sotto il mirino, concentrarci tutti in un’area sarebbe un invito a chi ci perseguita. Di recente si è cominciato a discutere dell’istituzione di una provincia cristiana con un margine di autonomia e maggiore protezione.