"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

24 aprile 2015

Inizia lo sciopero della fame per chiedere il riconoscimento del Genocidio assiro

By Fides

I cristiani siri, assiri e caldei di Midyat, nella provincia turca di Mardin, hanno iniziato uno sciopero della fame con l'intento di dare pubblico risalto al centenario dei massacri che nell'Anatolia del 1915 decimarono anche le comunità cristiane sire, assire e caldee, oltre a quelle armene. In questo modo, le comunità cristiane orientali siriache chiedono che siano riconosciute, oltre al Genocidio armeno, anche le atrocità del cosiddetto Genocidio assiro, noto con l'espressione in lingua siriaca Seyfo (“spada”), che provocarono secondo accreditate ricerche storiche, diverse centinaia di migliaia di morti. Lo sciopero della fame continuerà fino alla fine di aprile e chi vi aderisce digiunerà 100 ore, per indicare i cento anni trascorsi da quei tragici avvenimenti.
Intanto, come riferiscono fonti turche consultate dall'Agenzia Fides, il Vicario patriarcale armeno Aram Ateshian, del Patriarcato armeno di Costantinopoli, ha espresso apprezzamento per il messaggio di condoglianze recentemente indirizzato dall'ufficio del Primo Ministro turco Ahmet Davutoglu ai discendenti degli armeni morti “durante la deportazione del 1915”.
A giudizio del Vicario patriarcale - incaricato di reggere il Patriarcato in vece del Patriarca Mesrob II, colpito da malattia incurabile – il messaggio inviato da Davutoglu è come “un ramoscello d'ulivo” offerto dalla leadership turca agli armeni. Il governo turco aveva già confermato la presenza di suoi rappresentanti alla Messa di suffragio delle vittime del “Grande Male” in programma oggi a Istanbul, presso la chiesa del Patriarcato armeno.

La solidarietà di Bartolomeo I a Mar Sako per i cristiani perseguitati in Iraq

By Asia News
Joseph Mahmoud


Nei giorni scorsi il patriarca Mar Louis Raphael I Sako ha compiuto una visita ufficiale in Turchia, incontrando fedeli e visitando luoghi di culto della tradizione caldea in terra ottomana. Fra i momenti salienti del viaggio il faccia a faccia con Bartolomeo I al Fanar, il quartiere greco di Istanbul dove sorge la cattedrale di San Giorgio. L’incontro è avvenuto lo scorso 22 aprile e ha confermato il legame di vicinanza e solidarietà fra Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e la Chiesa caldea, vittima da tempo di violenze e persecuzioni da parte delle frange islamiste e dei jihadisti in Iraq. 
Bartolomeo I ha accolto con tutti gli onori il patriarca Sako e la delegazione caldea, esprimendo “vicinanza” ai cristiani in Iraq, che vivono “circostanze difficili”. Il patriarca ecumenico ha sottolineato il desiderio che possa tornare a “regnare la pace nella regione”, usando le stesse espressioni utilizzate pochi mesi fa da papa Francesco nel suo viaggio apostolico in Turchia: “Non è possibile immaginare un Medio Oriente senza cristiani”. 
In risposta, Mar Sako ha ringraziato per l’accoglienza e per la preghiera e, in particolare, per la decisione del patriarcato ecumenico di aprire le porte agli immigrati che “possono così celebrare la messa”. Sua beatitudine ha anche sottolineato l’importanza “dell’unità dei cristiani”, perché “nell’unità è la nostra salvezza, la nostra forza”. I due leader cristiani hanno anche affrontato il tema della unificazione delle feste cristiane, come testimonianza di unità e fraternità. 
La cattedrale caldea di Diyarbakir
Ad accompagnare il patriarca Sako nel suo viaggio vi erano il vescovo ausiliare di Baghdad mons. Basilio Yaldo, il vescovo caldeo d’America mons. Francis Kalabat e mons. Francois Yakan, vicario patriarcale in Turchia. Prima di incontrare Bartolomeo I, la delegazione caldea nei giorni precedenti aveva visitato alcuni fra i luoghi più importanti della storia della chiesa caldea locale. Fra questo l’antica cattedrale caldea di Diyarbakir, sede del primo patriarca caldeo Sulaka nel 1553, dove sabato 18 aprile è stata celebrata una messa. 
Durante l’omelia mar Sako ha sottolineato l’importanza della storia e della sacralità del luogo, che “riporta alle fonti della nostra Chiesa, che ha molto sofferto”. “Anche se siete rimasti una minoranza - ha detto rivolgendosi ai fedeli - non importa perché voi siete il sale e la luce, con la vostra fede e la vostra testimonianza”. 
A seguire l’incontro con i giornalisti, durante il quale si sono affrontati diversi temi fra cui gli interventi del Vaticano e dell’Unione europea in merito alle stragi del 1915 (il genocidio armeno e assiro). “Questa storia è dolorosa - ha sottolineato il patriarca caldeo - dobbiamo imparare da essa per non ripetere più simili tragedie, allontanando la mentalità della guerra e della lotta. Dobbiamo invece promuovere una cultura della pace e del rispetto reciproco, perché non c’è futuro senza pace”. Il papa, ha aggiunto sua beatitudine, ha denunciato questi fatti storici, per denunciare quanto sta accadendo oggi, leggi il genocidio e lo spostamento di massa in atto in Iraq, in Siria, in Yemen e in Libia. “Il papa non ha voluto colpevolizzare l’attuale governo turco - precisa mar Sako - come la Chiesa oggi non accusa gli ebrei per avere ucciso Cristo 2mila anni fa. Dobbiamo capire i fatti nella giusta prospettiva e non politicizzarli”. 
La visita a Mardin
Nel contesto del viaggio il patriarca Sako e la delegazione caldea hanno visitato la città di Mardin e celebrato la messa nella chiesa caldea di sant'Ormisda a Mardin.  Più tardi è stata la volta dello storico monastero siriaco-ortodosso di Zaffaran e il monastero di Mar Gabriele a Tur Abdin. Sua beatitudine ha insistito ancora una volta sulla esigenza di “unità dei cristiani”, perché si possa garantire un futuro alla minoranza nella propria terra. 
L’incontro con il governatore di Istanbul
Nella mattinata del 21 aprile il patriarca Sako ha incontrato il governatore di Istanbul, Vasif Sahin, col quale è emersa l’importanza dell’educazione religiosa e di una nazione aperta, capace di rispettare il valore della persona umana, creatura di Dio. “Le guerre sono una vergogna, un’assurdità” ha sottolineato sua beatitudine, per questo “dobbiamo imparare dalla storia per promuovere la coesistenza e il raggiungimento della pace e della stabilità nel mondo”. Oggi non è ragionevole parlare di jihad o guerra santa, come succedeva nei secoli passati. “Non esiste una guerra giusta” chiariscono i due leader, e la Turchia con il suo governo laico “può contribuire nel percorso di separazione fra Stato e religione”. “Se vogliamo fare un passo in avanti - ha concluso il patriarca - non vi è altra scelta. La religione è un rapporto personale con Dio, mentre la società è di tutti”. 
Infine, mar Sako ha celebrato la messa per la comunità caldea di Istanbul; a conclusione della celebrazione, egli si è intrattenuto con i fedeli e ha ascoltato i loro suggerimenti e le loro richieste, assicurando il proposito di lavorare per soddisfarle nel più breve tempo possibile. 

23 aprile 2015

23 aprile 1915.

By Baghdadhope*



Filoni: 1915, il calvario dei cristiani

By Avvenire
Fernando Filoni*

Il 24 aprile è la Giornata della memoria del genocidio armeno. La data è legata alla notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 quando vennero compiuti i primi arresti tra l'élite armena di Costantinopoli, dando vita a una persecuzione che coinvolse 1.200.000 persone.
Nelle regioni orientali dell’Impero ottomano assieme agli armeni furono trucidati anche assiri, caldei, siri...
Per i “Giovani Turchi” erano tutti «nemici interni».
Ecco una riflessione del cardinale Ferdinando Filoni, Prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli

Chi si ricorderà del genocidio assiro-caldeo-siriaco del 1915? L’interrogativo sembra far eco a quello attribuito a Hitler: «Chi parla ancora, oggi, del massacro degli armeni?». E non poche sono le somiglianze storiche. Nell’irredentismo che scuoteva l’antico Impero ottomano, tra il XIX ed il XX secolo, i cristiani da secoli vivevano in uno stato di sottomissione ed i loro diritti erano affidati più alle garanzie occidentali (di Francia e Gran Bretagna) che al diritto comune dei popoli. La Grande Guerra portò con sé serie conseguenze anche in Medio Oriente dove si inserì il principio del protettorato sulle nuove entità geo-politiche nate da accordi internazionali.
La Francia laica, che nel 1904 aveva denunciato il concordato con la Santa Sede, separò Stato e Chiesa; se la Sede Apostolica conseguì la libertà nella nomina dei vescovi in Francia, nel Vicino Levante i cristiani dell’Impero ottomano perdettero un potente tutore, anche se dal 1856 (dopo la guerra di Crimea) la Sublime Porta li aveva equiparati civilmente agli islamici. I diritti civili acquisiti, però, non li avevano garantiti contro vari eccidi sanguinosi – come nel caso degli armeni ad opera del sultano Abdul-Hamid II (1894-96) e dei “Giovani Turchi” (1909). Fu, però, tra il 1915 e il 1918 che fu posta in atto un vera strage: centinaia di migliaia di armeni vennero crudelmente massacrati, anche con la complicità di bande curde, o morirono di fame e di stenti durante la loro forzata deportazione, o in fuga, insieme a decine di migliaia di assiri, caldei, siri e di altre confessioni. Cinque vescovi subirono il martirio; tre morirono in esilio. Di sedici diocesi, ne rimasero in vita tre; dei 250 sacerdoti, circa 126 furono uccisi insieme a numerose religiose. Nell’estate del 1915 sette suore Caterinettes, fondate appena trentacinque anni prima, vennero trucidate, tra cui le due fondatrici della congregazione.
I turchi, come scrisse in un resoconto del tempo il domenicano François-Marie Dominique Berré, ritenevano giunto «il momento di liberare la Turchia dai suoi nemici interni, che sono i cristiani». Si riteneva che, come per i massacri del 1894-1896, le potenze europee non sarebbero intervenute per vendicare la loro morte; e commentavano: «Del resto, i nostri alleati, i germanici, sono là per sostenerci». Berré parlò della morte di uomini, donne e bambini, mentre falsità e delazioni furono prese a pretesto per la loro eliminazione, come nel caso della Congregazione di San Francesco d’Assisi, che la polizia esibì come setta segreta francese a prova del tradimento dei cristiani di Mardin. Nel 1914 padre Berré era stato deportato da Mosul a Mardin e rinchiuso, insieme ai confratelli Jacques Rhétiré e Hyacinthe Simon, nell’arcivescovado siro-cattolico. Vi rimase per due anni e per tale ragione i tre furono testimoni di numerosi eventi ed in particolare dei massacri di Mardin orditi contro i cristiani. Come missionario, egli era arrivato a Mosul nel 1884 e aveva svolto mansioni di professore nel seminario inter-rituale di St. Jean; in seguito divenne superiore della stessa missione domenicana. In tale veste, durante la guerra, fu confinato a Mardin, prima di essere espulso in Francia, dove continuò ugualmente ad interessarsi della missione domenicana; a guerra conclusa, riavviò la missione, che trovò quasi completamente distrutta. Nel dicembre del 1921 Benedetto XV, poco prima della morte, lo nominò arcivescovo di Baghdad dei Latini, e poco dopo, il 19 settembre del 1922, Pio XI gli affidò anche l’ufficio di delegato apostolico di Mesopotamia, Kurdistan e Armenia Minore.
Mardin, nel 1914, era una cittadina di 42mila abitanti, c’erano 25mila musulmani e 17mila e 700 cristiani. Il Berré, in un rapporto del 15 gennaio 1919, conservato nel Fondo della nunziatura apostolica in Iraq e conservato nell’Archivio segreto vaticano, riporta delle cifre approssimative dei cristiani uccisi a Mardin e zone limitrofe: 18mila caldei, 2.700 siro-cattolici, 100mila siro-ortodossi, 7mila armeni. Precisa, poi, di non aver potuto valutare il numero degli armeni massacrati nei villaggi delle regioni vicine, quanto al numero dei siro-ortodossi, invece, afferma che si tratta di una cifra «comme un minimum». A proposito dei caldei, Berré rileva di non aver incluso i nestoriani, anch’essi sterminati in gran numero. Poi commenta: la cifra di un milione di morti, riportata da numerose pubblicazioni, non è esagerata.
Questi massacri, si domanda Berré, erano rappresaglie? Gli armeni erano colpevoli? Perché eliminare tutti i cristiani che nella zona di Mardin erano almeno 120mila? Pur riconoscendo che il Comitato rivoluzionario armeno cercava l’autonomia a livello internazionale, ciò non fu a causa dei massacri turchi tra il 1895 e il 1896? Ed aggiunge: nonostante ciò, si deve considerare responsabile tutta la nazione armena? E che dire degli armeni cattolici che non partecipavano ai Comitati rivoluzionari, eppure crudelmente colpiti, a cominciare dall’arcivescovo (armeno-cattolico) Malayan di Mardin, che mai ha avuto a che fare con i rivoltosi? Quindi Berré commenta: le autorità ottomane conoscevano perfettamente ciò, sapevano chi erano i rivoltosi.
Allora, perché non li hanno condotti in tribunale? E quando questo è accaduto, perché li hanno liberati? La ragione – scrive Berré – fu addotta dal generale Djaber Pacha, governatore del distretto di Van, ossia, «che si sarebbe gridato in Europa se li avessimo detenuti»; così si creò il pretesto per sterminare tutta la nazione armena. Si domanda ancora Berré: perché prendersela con donne e bambini? Perché si sono andati a cercare i cristiani lontano dalle zone di guerra, come Urfa, Mardin, Séert, Djézireh? Il presule termina rilevando che i responsabili dei massacri sono il governo ottomano e il comitato “Unione e progresso”; ma anche i germanici, il cui governo fu almeno complice. Il futuro arcivescovo di Baghdad, in conclusione, si augurava che la coscienza delle nazioni civili potesse un giorno mettere in funzione delle commissioni d’inchiesta per rendere giustizia alle innumerevoli vittime.

Patriarcato caldeo e Caritas in aiuto alle famiglie musulmane sfollate di Tikrit e Anbar

By Asia News
Joseph Mahmoud


Patriarcato caldeo e Caritas in Iraq hanno portato oggi aiuti ad almeno 2mila famiglie musulmane sfollate da Tikrit e Anbar, teatro dell’ultima offensiva delle milizie dello Stato islamico (SI).
Interpellato da AsiaNews sua beatitudine Mar Louis Raphael I Sako ha sottolineato l’importanza di questa “iniziativa fraterna”, resa possibile da quanti hanno guidato e accompagnato camion e mezzi utilizzati per la consegna.
“I nostri fedeli - ha aggiunto il leader della Chiesa irakena - hanno voluto esprimere in modo concreto la solidarietà dei cristiani ai loro fratelli musulmani, alleviandone in questo modo la loro sofferenza”. 
Il patriarca caldeo ricorda che “Cristo ci ha comandato di aiutare le persone nel bisogno”, in particolare quelli “che riteniamo essere nostri fratelli”. Egli ha aggiunto che “siamo venuti qui oggi per esprimere il nostro dolore per quanto sta accadendo nel nostro Paese”, per le distruzioni, le uccisioni, le centinaia di migliaia di sfollati.
“Noi cristiani abbiamo sofferto molto - prosegue mar Sako - soprattutto a Mosul e nella piana di Ninive”. Rivolgendosi alle famiglie di sfollati musulmani, in fuga da Tikrit e Anbar, egli ha sottolineato che “siamo venuti a dirvi che condividiamo la vostra sofferenza e vi amiamo”. E ha infine auspicato che “queste tragedie finiscano presto” e le persone “possano tornare nelle loro case e vivere in piena pace e sicurezza”. 
L’iniziativa promossa dai leader cristiani e dalla comunità dei fedeli ha ricevuto l’apprezzamento non solo delle famiglie che hanno beneficiato degli aiuti, ma anche di autorevoli esponenti della comunità musulmana irakena. I due sceicchi Mohamed e Mahmoud Ghurery hanno elogiato la vicinanza e la solidarietà della minoranza cristiana, parlando di “iniziativa nobile e fraterna”. “La religione cristiana - hanno aggiunto - è amore e voi, ora, l’avete incarnato in un gesto concreto”.
I leader musulmani hanno aggiunto di non dimenticare i molti attestati di stima e solidarietà ricevuti in questi anni dai cristiani, perché quella di oggi “non è la prima volta”. “Queste iniziative - concludono - consolidano la coesistenza e ricostruiscono la fiducia. Dio vi benedica e vi ringraziamo dal profondo del nostro cuore”.
Intanto prosegue la campagna lanciata nei mesi scorsi da AsiaNews “Adotta un cristiano di Mosul”, per portare un aiuto concreto alle centinaia di migliaia di famiglie cristiane, yazide, musulmane che, ormai da mesi, hanno dovuto abbandonare le loro case a Mosul e nella piana di Ninive per sfuggire ai jihadisti (per aderire alla campagna, clicca qui).
L'iniziativa finora ha permesso la raccolta e l'invio di circa 1,2 milioni di euro per il fabbisogno quotidiano. Ora l’obiettivo è raccogliere 3,5 milioni di euro per garantire agli sfollati un tetto e una casa in cui vivere. 

22 aprile 2015

Isis minaccia le minoranze, summit S. Egidio sui cristiani d’Oriente a Bari

By OnuItalia.com

Travolte dalla guerra in Siria e in Iraq, le minoranze del Medio Oriente, non solo cristiane, rischiano di scomparire e finire disintegrate a causa di un conflitto divenuto regionale e su cui la comunità internazionale si dimostra priva di iniziativa. Ed è con l’obiettivo di “colmare un vuoto di pensiero, di ascolto e di azione”, che la Comunità di Sant’Egidio ha promosso per il 29 e il 30 aprile il primo “summit intercristiano”  a Bari per affrontare il dramma delle minoranze religiose perseguitare nel Medio Oriente.
Il titolo del summit è “Cristiani in Medio Oriente: quale futuro?” e intende dare la parola ai protagonisti del tema, i capi delle Chiese cristiane d’Oriente, che, ha spiegato il presidente di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, “vedono messa in discussione la permanenza delle loro comunità nelle terre in cui sono presenti da secoli, prima ancora dei musulmani”. “Rischiamo di assistere alla scomparsa di intere minoranze – ha avvertito Impagliazzo -. L’emergenza ci spinge a cercare soluzioni laddove la comunità internazionale ora latita mentre prima ha agito con la sbagliata convinzione di fare la guerra, aggravando la situazione delle minoranze, e penso in particolare all’Iraq”.
Al summit parteciperanno patriarchi e rappresentanti delle chiese cattoliche ed ortodosse d’Oriente, oltre al ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni e il segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede, mons. Paul Gallagher. Per il raffreddamento della crisi in Siria, ha ricordato Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, lo strumento diplomatico idoneo era stato individuato nella proposta di “Save Aleppo”, il progetto per salvare Aleppo, “con una tregua protetta dalla comunità internazionale”. Proposta lanciata da Sant’Egidio e raccolta dall’inviato delle Nazioni Unite Staffan De Mistura, ha ricordato Riccardi, “ma inspiegabilmente lasciata cadere nell’indifferenza delle potenze europee”. Tuttavia, ha rilanciato, “il cantiere rimane aperto, anche se è stato provvisoriamente abbandonato dagli operai che erano stati chiamati a portare avanti il lavoro”.

Quei cristiani iracheni (in fuga) che denunciano l'islam politico

By Il Foglio
Maurizio Stefanini

“I cristiani caldei e assiri si chiamano così anche perché sono orgogliosi di discendere dagli antichi popoli della Mesopotamia. Per questo parlano ancora l’aramaico e conservano le vestigia dell’antica Assiria. Quelle vestigia che invece lo Stato islamico si vanta di distruggere, mostrando le rovine in video. Così come mostra in video il modo in cui sta distruggendo i cristiani”.
A presentare all’Università Santa Croce un gruppo di 38 cattolici iracheni rifugiati in Francia e in pellegrinaggio a Roma e a Assisi è stato Francesco Cutino, a nome di “Giona è in cammino”, onlus che appunto si propone si assistere i cristiani d’Oriente perseguitati.
Giona dal nome del Profeta che andò a predicare nella città di Ninive, dopo essere stato inghiottito e vomitato da una balena. Storico centro di insediamento del cristianesimo mesopotamico, la Piana di Ninive – nell'odierno stato dell'Iraq – è stata il teatro delle più feroci imprese degli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi. E oggi molti cristiani chiedono che proprio la Piana di Ninive sia trasformata in zona di rifugio sotto tutela internazionale, per evitare che la loro fede sia definitivamente spazzata via dalla regione in cui nacque.
 "C’erano un milione e mezzo di cristiani in Iraq prima del 2003, adesso non ne rimangono più di 300.000”, dice padre Rebwar Audish Basa, procuratore generale dell'Ordine antoniano di Sant'Ormisda dei Caldei e accompagnatore dei pellegrini. Nella Piana di Ninive ne è rimasto solo qualche migliaio a Erbil. “Il monastero di San Giorgio, dove io ho studiato, è stato trasformato in un carcere. Hanno tolto le croci, hanno devastato il cimitero in cui erano stati sepolti tanti giovani cristiani morti per la patria irachena durante la guerra contro l’Iran”.
Le storie raccontate da questa quarantina di cristiani sono una più terribile dell’altra. Cutino, che è psicoterapeuta, ricorda una donna profuga dall’Iraq ospite delle Suore di Madre Teresa in Libano. “Non parlava più, dopo mesi finalmente una donna anziana nel vedere il modo in cui guardava il Presepe le diede il bambinello in mano. Lei scoppiò a piangere e recuperò la parola, raccontando di come le avevano portato via il figlio”. “Se torno in Iraq, mi rapiscono mio figlio e mi chiedono uno sproposito per riscatto”, racconta uno dei rifugiati. “Quando sono iniziati i problemi e me ne sono andato, i miei parenti mi dicevano che sbagliavo. Adesso stanno in camper dopo aver perso tutto. Mi chiedono con ansia di aiutarli a uscire”, spiega un altro. Un terzo racconta di quando andò a una messa serale che fu attaccata da un kamikaze. La moglie fu uccisa, la figlia ferita, lui si salvò perché essendo suddiacono si trovava più in avanti. “Preferiamo andarcene che perdere la fede. Per noi la fede è tutto”, proclama un quarto. Commenta Padre Rebwar: “Se i cristiani avessero accettato di convertirsi all’Islam avrebbero avuto favori di tutti i tipi, anche soltanto per una questione di propaganda. Ma hanno preferito lasciare tutto piuttosto che perdere quella che per loro era la cosa più importante”.
Sperano che il governo iracheno possa presto sconfiggere lo Stato islamico? “I soldati del governo iracheno sono scappati di fronte all’Isis in cinque minuti”, risponde Padre Rebwar. “E poi in Iraq in questo momento di governi ce ne sono almeno quattro: quello dello Stato islamico, quello curdo, quello sciita, quello centrale. Che è quello che conta di meno”. Alcuni cristiani hanno ora iniziato a armarsi. “Un gesto simbolico importante, ma appunto solo simbolico. Sono qualche decina: non possono sconfiggere lo Stato islamico da soli”. Alcuni dei rifugiati del gruppo sono ormai in Francia da 8 anni. “Le cose per i cristiani hanno iniziato a mettersi male da molto prima che comparisse l’Isis”. Ma tutti dicono di voler tornare in Iraq, se se ne presentano le condizioni. “Chiediamo che l’Europa ci garantisca una zona di rifugio nella piana di Ninive”. Stessa richiesta che fa il più giovane del gruppo: un ragazzo che è l’unico a parlare in francese e non in aramaico. E aggiunge: “Il problema non è soltanto lo Stato islamico. In Francia vivo gomito a gomito con i musulmani, e al di là della facciata sotto sotto quasi tutti pensano che i cristiani sono nemici da spazzar via”.
“Un tabù che in Francia è difficile affrontare, ma che fa affrontato”, commenta Padre Rebawr: “Noi cristiani facciamo sempre i buoni, ma non può essere una cosa a senso unico. I genitori quando devono educare i figli non possono sempre fare i buoni: ogni tanto bisogna anche essere severi. Anche noi dobbiamo essere severi con i musulmani che in Occidente chiedono diritti ma poi, dove sono maggioranza, diventano sempre più oppressivi verso le minoranze. Non è solo l’Isis: pensiamo ai paesi musulmani dove non si può costruire una chiesa, a quelli in cui è perfino proibito alle donne guidare”.

21 aprile 2015

Priest saving Christians from ISIS


Several hundred Christian refugees have sought refuge in the church of Father Douglas Al-Bazi, an Iraqi Catholic priest based in Irbil in the Kurdish north. He himself has been targeted - kidnapped, tortured and beaten because of his faith.....

Listen to the radio interview by clicking on the title of the post or here

TentED: educating displaced children in Iraqi Kurdistan. Father Douglas Bazi.

By Baghdadhope*

What weapons do the Iraqi Christian have to defend themselves and their next generations? 
Culture. To become ambassadors of peace, as Father Douglas Bazi of Mar Eliya Church in Erbil says.
Listen to the voices of the Iraqi christian children displaced by ISIS and to that of the priest who explains how important culture is for them. 
"Kids are smart, give them the opportunity and they will be ready. If someone asks me: "can you?" I will say: "Yes we can!" but "can you help us?" 
says the priest who is cooperating with EPIC in TendEd, a project committed to supporting the education of displaced children in Kurdistan (Iraq) that in 2014 equipped the hundreds of children living in Mar Eliya Church complex with classroom materials, recreation supplies and a well furnished library (700 books). 


El yihadismo acelera el éxodo de cristianos en Oriente Próximo


El sacerdote iraquí Zuhir Gaggui vio por última vez su casa el pasado 7 de agosto. Eran las cuatro de la madrugada y huía sin llevar consigo más que “un par de camisas” ante la inminente llegada a su ciudad, Karakosh, de milicianos del Estado Islámico (EI). Horas antes, una bomba caída en la medina anunciaba que los yihadistas se aproximaban a esta localidad, de unos 50.000 habitantes y mayoría cristiana, a 30 kilómetros de Mosul, que para entonces ya estaba en manos de los terroristas. Poco después del alba, Karakosh caía también bajo el control del autoproclamado califato.
La historia del padre Gaggui es la de cientos de miles de cristianos árabes, especialmente en Siria e Irak, obligados al exilio ante la situación política y el avance del yihadismo en Oriente Próximo, cuna de las primeras comunidades cristianas, que han visto reducido drásticamente su número.
Aunque las cifras son difíciles de precisar, en Siria se calcula que unos 450.000 cristianos han tenido que abandonar su hogar desde 2011. En Irak, el millón y medio aproximado de cristianos de los noventa se redujo a algo más de medio millón tras la invasión estadounidense en 2003, un número que ha vuelto a caer con la expansión del EI. También Líbano ha perdido parte de su comunidad cristiana, especialmente en su guerra civil (1975-1990). “Es ahora más numerosa en el extranjero que en Líbano”, confirma la lingüista libanesa Rita Hanna El Daher, durante su participación en las jornadas que Casa Árabe organizó la semana pasada sobre cristianos en Oriente Próximo.
“El EI nos ofrece convertirnos, pagar, o el martirio”, dice el arzobispo de Homs.
El Estado Islámico ha sido letal también para los cristianos. Ayer, los terroristas difundieron en un vídeo el asesinato de 28 cristianos etíopes en Libia. “Cuando llegan a una ciudad dan tres opciones a los cristianos: la conversión al islam, el pago de la jizya [impuesto especial] o el martirio”, explica monseñor Abdo Arbach, arzobispo de la ciudad siria de Homs.
Sin embargo, Arbach quiere desvincular los ataques contra cristianos de un conflicto religioso: “Cristianos y musulmanes hemos vivido siempre en paz en Siria, incluso ahora, después de cuatro años de guerra”. Y refuerza su argumento: “Los musulmanes son víctimas también del terrorismo”. “Los chiíes”, recuerda, “y los yazidíes también han sido asesinados por el Estado Islámico”.
Los cristianos árabes “son un elemento esencial” en la conformación de la identidad de una región que “no puede entenderse sin su legado cristiano”, analiza Jacinto González Núñez, profesor de la Universidad Eclesiástica de San Dámaso, que trata así de combatir la “propaganda” que intenta convertirlos en “extranjeros en su tierra”. “En el Evangelio según San Mateo se recoge que ‘la fama de Jesús se extendió por toda Siria”, cita González como ejemplo de la pronta consolidación cristiana en Oriente Próximo.
Pero acudiendo a ejemplos más recientes, el escritor palestino Edward Said o los libaneses Amin Maaluf y Gibran Jalil Gibran son sólo algunos de los cristianos célebres que ha alumbrado esta tierra, más vinculados a su identidad nacional que a su fe religiosa. “Porque los cristianos han sido siempre fieles a sus países”, defiende Zuhir Gaggui.
En Irak, “los cristianos se alistaron en el Ejército en la guerra contra Irán”, apunta Gaggui. También el anterior patriarca de los coptos, Shenouda III, proclamó que los cristianos no son “una minoría: “Somos egipcios y patriotas”, dijo, según recuerda monseñor Ermia, presidente del Centro Cultural Copto Ortodoxo en El Cairo. El presidente egipcio, Abdelfatá al Sisi, ha reforzado la relación con los cristianos. “Ha sido el primer mandatario que ha visitado nuestra catedral, cuando vino a dar el pésame por los coptos asesinados en febrero en Libia por el Estado Islámico”, añade Ermia.
“Siempre hemos sido fieles a nuestros países”, asegura un cura iraquí.
Bishara Ebeid, cristiano palestino doctor en literatura copta, siriaca y árabe, hace gala de su identidad. “Cuando hace 11 años viene a Europa y me presentaba como cristiano árabe palestino la gente se quedaba sorprendida porque la mayoría sigue identificando a los árabes con el islam”, protesta. También de su patriotismo: “Los palestinos cristianos son parte de la cuestión palestina, los que viven en Israel, se consideran palestinos”.
Y es este íntimo vínculo entre lo cristiano, lo árabe y el patriotismo, uno de los argumentos para reclamar la defensa de las comunidades cristianas árabes, según Rita Hanna El Daher, no solo porque su asfixia supondría “un declive de la civilización árabe”, sino porque en ellas reside la clave para favorecer el entendimiento entre Oriente y Occidente, porque “sus fórmulas de convivencia ya están probadas y funcionan”.

Estado Islámico es un cáncer, denuncia Obispo de Irak en Congreso “Todos Somos Nazarenos”

By ACI Prensa
Blanca Ruiz


Mons. Bashar Matti Warda es el Obispo de Erbil (Irak) una de las diócesis más atacadas y que más refugiados cristianos ha acogido en los últimos años debido a la persecución del Estado Islámico, que él califica como “un cáncer”.
Según explicó Mons. Bashar Matti Warda en una entrevista concedida a ACI Prensa en el marco del congreso “Todos Somos Nazarenos” realizado en Madrid entre el 17 y 19 de abril, “la mentalidad fanática del ISIS no es un fenómeno nuevo, siempre ha existido solo que ahora ha aumentado por el caos que vive se vive en el país”.
Además destacó que el Estado Islámico no es un fenómeno que afecta solo a Oriente Medio, sino que se trata de “un fenómeno global, porque hay ciudadanos europeos y americanos que están en sus filas”.
Algo que le lleva a pensar sobre el problema de la educación, que según precisa es uno de los factores que ha llevado a Irak a vivir la desestructuración actual.
“En 2004 mi parroquia fue la primera en la que se le puso un coche bomba. La gente me preguntaba qué podíamos hacer, algunos proponían hacer un muro de cemento. Pero les dije que no, que lo que teníamos que hacer era construir un colegio y así lo hicimos. Ahora a esa escuela que está dentro del recinto de la iglesia vienen los chicos del barrio y el 90 por ciento de los estudiantes son musulmanes”, señaló.
El Prelado indicó que en la escuela “los educamos en los valores de aceptar al otro, del respeto, del amor y de la apertura de mente. Eso es lo que les falta y lo que los cristianos y especialmente lo católicos podemos aportar”.
“Lo he visto muchas veces en muchas comunidades cristianas que vienen ayudan, no les piden que se cambien de religión o su modo de vivir. Estas comunidades llevan a cabo el deber del amor y la solidaridad. Los cristianos tienen la misión de llevar el mensaje de dar gratis lo que han recibido de Dios como un don o una gracia, también en esta zona convulsa del mundo”, apunta.
 Los ataques continuados en Irak han hecho que muchos de los cristianos hayan tenido que huir de sus casas. Erbil ha acogido desde agosto de 2014 a más de 15 mil familias que viven en situación precaria.
“Algunos llegaron a pie, andando durante más de 8 horas y habiendo dejado todo atrás. Hemos tenido mucho trabajo para ayudarles y hemos tenido que empezar desde cero. Queremos que nuestra gente se quede en Kurdistán e Irak, pero que tengan una vida digna. Vivienda, educación y salud son los puntos principales que resolver”, señaló a ACI Prensa Mons. Batti Warda.
La persecución de cristianos en Oriente Medio no es nueva, reiteró el Prelado, pero ahora se presenta la posibilidad de emigrar a otros países en donde hay libertad de culto. De hecho, Mons. Warda señaló que en Estados Unidos la comunidad de cristianos de Irak tiene 22 sacerdotes y seminaristas que han nacido allí. “Emigran, pero no dejan su fe ni su Iglesia, sólo el país”, explicó.
Y es que el Obispo de Erbil es consciente de que la vida en Irak para los cristianos no es nada fácil, y se corre el riesgo de que esa zona quede sin la histórica presencia cristiana: “Por eso queremos ofrecer una posibilidad, para que las familias se lo piensen dos veces antes de irse. Sabemos que la vida en Irak no es fácil, especialmente cuando viven hacinados en una habitación de una casa o en una caravana y que nos les ha quedado nada”.
“No podemos decirles que se queden, pero queremos que la emigración no sea la única opción”, subrayó. Además precisó que sienten “el poder de la oración. Que todos tus hermanos en la fe estén rezando por ti es algo muy fuerte”.

17 aprile 2015

Vancouver a safe haven for Christian refugees

By Vancouver Courier

Because Canada is a multicultural immigrant magnet, happenings halfway around the world can have direct impacts right here. Events in the Middle East are driving a unique group of newcomers to our shores, fleeing years of repression, violence and fear.

Several thousand Chaldean Catholics from Iraq have arrived in the Vancouver area in the past few years. Their path here has been chaotic, buffeted by the tragedies of life first in their country of origin, then in Syria, where they originally took refuge.

Father Sarmad Biloues is the spiritual leader of Chaldean Catholics in B.C., about 85 per cent of whom have arrived in the last decade. A few arrived earlier, resettled by the UN in the 1990s, after the first Gulf War.

Like the refugees themselves, the priest fled Iraq, then pastored to those in refugee camps in Syria.

“I had 17,000 people [and] I was the only priest there responsible for them in the refugee camp,” he says. Not all of these refugees were Christians, he says.

“When you help refugees, you don’t ask who you are, what you’re doing, where are you from?” he explains. “Same as a doctor. When you take somebody who’s injured to the doctor, you’re not going to ask them where are you from?”

The upheaval that has spread across the region in recent decades had a particularly brutal effect on the Chaldean Christians. As recently as 2003, there were an estimated 1.4 million Christians in Iraq. Now there are around 200,000. Many died in the ongoing civil strife that followed the Iraq War, while hundreds of thousands fled to neighbouring countries, including Syria. With the Islamist extremist group ISIL now in control of regions of Iraq and Syria, and a civil war engulfing Syria, the Christian refugees — like many others — were forced to flee a second time.

“We left Iraq because of the war,” says Father Sarmad. “Syria was good. It was a good place if you compare it with Iraq. That’s the very tragic thing that we never expected: that the refugees in Syria would have to leave.”

Ten years ago, the priest came to Vancouver, where he both settles new arrivals and works with the Catholic archdiocese to ensure the safe migration of more refugees.

Pastoring to the Iraqi Christians at Saints Peter and Paul Chaldean Mission in Surrey, Father Sarmad oversees a growing community. How many precisely? He can only guess at around 15,000.

“We don’t know exactly,” he says. “They keep coming. The number just keeps getting bigger and bigger.”

The term Chaldean is a bit of a misnomer, a result of amisinterpretation hundreds of years ago, and these adherents are also known by other names. There are other Iraqi Christian groups as well, but the Chaldeans have traditionally been the largest. Regardless of terminology and denomination, Iraqi Christians hold a special place in the history of Christianity.

“We are the oldest church in all the world,” says the priest. Christianity was brought to the region in the first century and has sustained itself through millennia as a minority religion. The liturgical language, he says, is Aramaic, the same tongue spoken by Jesus.

“We keep the language of our Lord Jesus Christ,” says the Baghdad-born priest.

Current events, though, threaten the continuation of this unbroken ancient tradition. As Iraq’s Christians flee, diaspora communities emerge in places like blessedly peaceful Canada. But Father Sarmad remains fearful for those still not resettled.

“They need a lot of prayer and a lot of help,” he says, and he gratefully acknowledges the role Canada is taking in fighting ISIL as well as accepting refugees from the war-torn region.

Though Vancouver’s nascent Chaldean community continues to grow, Toronto is home to a still larger number and more have found homes in the United States. Once safe in North America, they are welcomed into the arms of those who have come before.

“We take care of refugees and we give them a new opportunity in life,” says the priest. As for his own future, he says it is not up to him.

“As priests, we don’t believe we choose something,” he says. “Nothing happens but by God. So we feel that God needs us here, we are here. If there is another sign to go another place, we’ll go.”
Because Canada is a multicultural immigrant magnet, happenings halfway around the world can have direct impacts right here. Events in the Middle East are driving a unique group of newcomers to our shores, fleeing years of repression, violence and fear.
Several thousand Chaldean Catholics from Iraq have arrived in the Vancouver area in the past few years. Their path here has been chaotic, buffeted by the tragedies of life first in their country of origin, then in Syria, where they originally took refuge.
Father Sarmad Biloues is the spiritual leader of Chaldean Catholics in B.C., about 85 per cent of whom have arrived in the last decade. A few arrived earlier, resettled by the UN in the 1990s, after the first Gulf War.
Like the refugees themselves, the priest fled Iraq, then pastored to those in refugee camps in Syria.
“I had 17,000 people [and] I was the only priest there responsible for them in the refugee camp,” he says. Not all of these refugees were Christians, he says.
“When you help refugees, you don’t ask who you are, what you’re doing, where are you from?” he explains. “Same as a doctor. When you take somebody who’s injured to the doctor, you’re not going to ask them where are you from?”
The upheaval that has spread across the region in recent decades had a particularly brutal effect on the Chaldean Christians. As recently as 2003, there were an estimated 1.4 million Christians in Iraq. Now there are around 200,000. Many died in the ongoing civil strife that followed the Iraq War, while hundreds of thousands fled to neighbouring countries, including Syria. With the Islamist extremist group ISIL now in control of regions of Iraq and Syria, and a civil war engulfing Syria, the Christian refugees — like many others — were forced to flee a second time.
“We left Iraq because of the war,” says Father Sarmad. “Syria was good. It was a good place if you compare it with Iraq. That’s the very tragic thing that we never expected: that the refugees in Syria would have to leave.”
Ten years ago, the priest came to Vancouver, where he both settles new arrivals and works with the Catholic archdiocese to ensure the safe migration of more refugees.
Pastoring to the Iraqi Christians at Saints Peter and Paul Chaldean Mission in Surrey, Father Sarmad oversees a growing community. How many precisely? He can only guess at around 15,000.
“We don’t know exactly,” he says. “They keep coming. The number just keeps getting bigger and bigger.”
The term Chaldean is a bit of a misnomer, a result of a misinterpretation hundreds of years ago, and these adherents are also known by other names. There are other Iraqi Christian groups as well, but the Chaldeans have traditionally been the largest. Regardless of terminology and denomination, Iraqi Christians hold a special place in the history of Christianity.
“We are the oldest church in all the world,” says the priest. Christianity was brought to the region in the first century and has sustained itself through millennia as a minority religion. The liturgical language, he says, is Aramaic, the same tongue spoken by Jesus.
“We keep the language of our Lord Jesus Christ,” says the Baghdad-born priest.
Current events, though, threaten the continuation of this unbroken ancient tradition. As Iraq’s Christians flee, diaspora communities emerge in places like blessedly peaceful Canada. But Father Sarmad remains fearful for those still not resettled.
“They need a lot of prayer and a lot of help,” he says, and he gratefully acknowledges the role Canada is taking in fighting ISIL as well as accepting refugees from the war-torn region.
Though Vancouver’s nascent Chaldean community continues to grow, Toronto is home to a still larger number and more have found homes in the United States. Once safe in North America, they are welcomed into the arms of those who have come before.
“We take care of refugees and we give them a new opportunity in life,” says the priest. As for his own future, he says it is not up to him.
“As priests, we don’t believe we choose something,” he says. “Nothing happens but by God. So we feel that God needs us here, we are here. If there is another sign to go another place, we’ll go.”
pacificspiritpj@gmail.com
twitter.com/Pat604Johnson
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Nothing sacred: ISIS destroys Christian grave sites in Mosul

By Fox News
Perry Chiaramonte, April 16

Even Iraq's dead Christians aren’t safe from ISIS.
The Islamic State's campaign of terror across the war-torn nation, which has already seen countless beheadings, destruction of priceless art and religious artifacts and insistence that Christians submit or die, now includes mass desecration of graves. Photos of the black-clad, extremist ghouls smashing headstones in cemeteries in the key northern city of Mosul were posted Thursday online under the title "Leveling Graves and Erasing Pagan Symbols."
"The April 16 destruction of Christian graves in Mosul, Iraq by the Islamic State (ISIS) is part of the organization's ongoing campaign against Christianity, in the Middle East and throughout the Muslim world," said Steven Stalinsky, executive director of The Middle East Media Research Institute (MEMRI), which flagged the photos.
The shocking images appeared on the Shomoukh Al-Islam jihadi forum and other various websites, according to MEMRI. They show ISIS militants shattering graves with sledgehammers and carving out the crosses that were engraved on the stones. The photos were released along with a statement claiming to justify the defacing. The "hadith," or Islamic teaching, stated that any grave higher than ground level must be shattered. Any images on such graves must be erased as well, according to the twisted edict.
The hadith claims Prophet Mohammad  told followers not to "leave an elevated grave without leveling it, nor an image without erasing it.”
While desecrating graves is not the worst of ISIS' crimes, Stalinsky told FoxNews.com it sends a strong signal to the West.
"It is important to note that ISIS is documenting its destruction and desecration of Christian sites and its attacks on Christian communities, and on other minorities' sites and communities, and is disseminating these images worldwide via social media," he said. "By doing this, ISIS is not only showcasing what it is doing, but is also mocking the West by demonstrating that it is doing so freely, with no one trying to stop it."
The defacing is just the latest in what some have described as a “cultural cleansing” of Iraq and Syria by ISIS.
“ISIS and other Islamists argue that elevated graves suggest the dead person is closer to Allah than the living, so they must be destroyed,” Ryan Mauro, national security analyst with the Clarion Project, told FoxNews.com. “They believe that grave sites, even ones that aren't elevated, need to be destroyed if they become a place of idolatry in the form of grave worship. Christian ones are especially at risk because Christianity is seen as a form of polytheism."Since declaring a caliphate across a vast swath of Iraq and Syria, ISIS has specifically targeted religious institutions-- destroying mosques, temples and churches. They have also destroyed priceless historical artifacts as well as selling other antiquities on the black market to fund their operations.
ISIS also considers worshipping or mourning at grave sites to be equal to idolatry and have often destroyed such sites in an attempt to “purify unbelievers,” Mauro said.
“These acts stem from Islamic interpretations that are more broadly held than just within ISIS and these interpretations need to be addressed,” Mauro said. “More modern Muslims say [the hadith cited by ISIS] was an instruction for a specific time and purpose and is not applicable to today, but ISIS is acting upon a widely-taught interpretation.”
The northern Iraqi City of Mosul has been occupied by ISIS since June 2014 and is considered to be the main stronghold for the terror group in the region. Once ISIS took over the city, it issued an edict to drive out the remaining Christian citizens. As recently as January, the U.S. has begun to coordinate airstrikes with Kurdish forces to take back Mosul. It is believed that a major offense will take place there in the next few months.

Cimiteri cristiani vandalizzati a Mosul e in Galilea

By Fides

I miliziani dello Stato Islamico (IS) che dallo scorso giugno controllano Mosul hanno devastato il più antico cimitero cristiano della città, pubblicando su internet le foto delle distruzioni delle lapidi e delle croci come prove documentali della campagna mirante a “sradicare i simboli pagani”.
Le foto delle tombe profanate sono state pubblicate su diversi siti jihadisti. Il cimitero si trova presso la Cattedrale siro ortodossa, dedicata a San Tommaso apostolo, e ospitava anche molte tombe di soldati cristiani morti durante la guerra Iraq-Iran degli anni Ottanta.
Mercoledì scorso, 15 aprile, in Galilea, erano state vandalizzate le tombe del cimitero maronita nel villaggio di Kufr Bir'im, non lontano dal confine tra Israele e Libano. Kufr Bir'im è un villaggio abbandonato dal 1948, quando la popolazione araba fu espulsa dall'offensiva dell'esercito israeliano. Lo scorso anno, durante la sua visita in Galilea, il Patriarca maronita Bechara Boutros Rai ha visitato anche il villaggio fantasma, promettendo di impegnarsi per favorire il ritorno dei cristiani espulsi nel 1948 e dei loro discendenti.
Il Consiglio delle Chiese cattoliche di Terra Santa ha condannato con un comunicato la devastazione del cimitero cristiano, chiedendo che siano svolte con serietà le indagini miranti a individuarne gli autori. La polizia israeliana ha aperto un'inchiesta contro ignoti sulla profanazione delle tombe nel cimitero maronita. In Israele, una lunga serie di profanazioni e atti intimidatori a danno di monasteri, chiese e cimiteri cristiani sono stati compiuti da gruppi di coloni ebrei estremisti a partire dal febbraio 2012.

16 aprile 2015

We are one. La canzone per gli iracheni cristiani

By Baghdadhope*




Il 18 ed il 19 aprile si terrà a Manchester una veglia notturna in favore degli iracheni cristiani.
L'evento, organizzato da Aid to the Church in Need ed ospitato dalla comunità gesuita presso la Holy Name Church, vedrà alternarsi momenti di preghiera dedicati non solo agli iracheni cristiani ma anche ad altre comunità cristiane perseguitate tra le quali quelle di Siria, Nigeria, Pakistan, Egitto ed Ucraina, ma anche momenti di riflessione e di musica.
Tra i gruppi musicali presenti ci saranno gli Ooberfuse, un duo inglese che ha recentemente girato un video nel campo profughi di Mar Eliya ad Erbil, (Iraq) e, come segnalato oggi dal SIR,  composto una canzone dedicata proprio agli iracheni cristiani alla quale registrazione ha partecipato l'Arcivescovo Caldeo di Erbil, Mons. Bashar M. Warda che ha inciso alcuni passaggi del Padre Nostro della liturgia caldea in Aramaico, la lingua che parlava Gesù.

Di seguito la trascrizione di Baghdadhope del testo degli Ooberfuse: We are one

In our hope
in our faith
in our love
we are one
you're never alone
in this dream
we are one

In the middle of the deep black night
as I'm searching the faintest light
I'm hoping you'll say
as I journey through the wilderness
will the madnessnever ever end
I pray that thy'll see

In our hope
in our faith
in our love
we are one
you're never alone
in this dream
we are one

Through the fire
through the desert storm
through the years
through to foverevermore
through the eat of the blazing sun 
we're one
through the climb to paradise
all heaven and hell will see
    
In our hope
in our faith
in our love
we are one
you're never alone
in this dream
we are one

We have a hope that lives on
and will not ever die
and we fix our eyes on the unseen
beyond the sky
we drink from the fountain we know won't dry
we're one
as we press on to run this race
and see love's face 
each tear is wiped away
as we feel his embrace

In our hope
in our faith
in our love
we are one
you're never alone
in this dream
we are one

Iraq: Mons. Warda (Erbil) In un brano e un video per i cristiani perseguitati

By SIR

La persecuzione dei cristiani in Iraq in musica. “Siamo una cosa sola”: è il titolo del brano cantato dall’arcivescovo caldeo di Erbil (Kurdistan) Bashar Matti Warda insieme alla band londinese “Ooberfuse” nel quale si mette in evidenza la difficile situazione dei cristiani in Iraq.
La canzone si apre proprio con le parole dell’arcivescovo che recita il Padre Nostro in aramaico, la lingua di Gesù. L’idea è nata dopo una visita a Erbil dei membri della band, Hal St John e Cherrie Anderson, durante la quale hanno potuto conoscere molti cristiani scampati alla furia dei miliziani dello Stato islamico. “Lo Stato islamico è un cancro che deve essere estirpato anche con misure dure” dice l’arcivescovo che spera, con questo brano, di raggiungere i più giovani e sensibilizzarli così al problema.

Dal canto suo il leader della band, St John, ricorda che “è la prima volta nella storia che un leader religioso mediorientale abbraccia le forme della cultura popolare per promuovere il messaggio cristiano di amore e di speranza". Dopo il brano adesso arriva anche il video che sarà diffuso il prossimo 18 aprile (clicca qui). Girate nei campi profughi di Mar Elia, a Erbil e in quello delle Nazioni Unite di Bakhira, le immagini mostrano la difficile vita dei rifugiati nei campi e le loro speranze di tornare presto alle loro case e riprendere la vita di tutti i giorni, casa, lavoro, studio. Lo scorso febbraio monsignor Warda si era recato in Inghilterra per una serie di incontri e di testimonianze. A Londra è avvenuto l’incontro con gli Ooberfuse che già avevano inciso un brano per la liberazione di Asia Bibi, “Free Asia Bibi”.

Iraq: 'We priests and nuns will be the last to leave'

Oliver Maksan

“At night we often hear gunfire. But luckily we are quite a bit away from the fighting,” Father Steven says.
In fact, the town of Alqosh is only 10 miles away from the front line, where the heavily armed Kurdish Peshmerga forces and ISIS fighters are facing off.
When the weather is good, you can see the Christian towns on the Nineveh Plane that are now under ISIS control. “Back there is my village Batnaya,” the Chaldean priest says, pointing in the direction of the once Christian community. “I was the last to leave Batnaya. The jihadists arrived shortly thereafter.”


Dozens of priests and religious have been made homeless in the past year. They not only lost their convents, churches and monasteries, but also schools and children’s homes—the entire infrastructure of an apostolate built up over many years.
“We lost 23 of our monasteries and houses,” Sister Suhama tells international Catholic charity Aid to the Church in Need. The Dominican nun now lives in a development of terraced houses near Erbil, the capital of Kurdistan.

“We were 26 nuns in Qaraqosh alone. We led a flourishing community life there. Some of our sisters are having trouble getting over the loss. At night they dream of soon being able to return.” A fellow nun of Sister Suhama cries quietly as she listens. Fourteen older sisters have died of sheer sorrow since they fled.

The people need to feel that the Church remains close to them, the nun emphasizes. “It is our job to be with our people. I don’t believe it will happen, but should the day come on which the last Christian leaves Iraq: we priests and nuns will be the last to leave.”

Seminarians Martin and Randi have also lost their homes. The young men are now studying at the seminary in Erbil. “ISIS has strengthened our vocation,” Randi says with deep conviction. “It is fortunate that the people have survived. That shows me that God is a God of life and not of property and objects. God is taking care of us,” he says.


Martin agrees. The Chaldean from Karamlish, a town near Qaraqosh, is already a deacon. “I only want to be consecrated as a priest when I can celebrate the first Mass in my village. I realize that this may take months or longer.” Deacon Martin has consciously made the decision to remain in Iraq, even though his parents are in the US and could easily bring him over: “My place is here. This is where I want to serve the people.”

Randi also feels bound to stay put and serve the faithful: “Our flock may be even smaller in the future, we Christians still have an important job to do here. We have to rebuild our country. Despite everything, we have to learn how to live with the Muslims again. We have to teach our children to respect and esteem the other.”

Aid to the Church in Need supports religious, priests and seminarians who have been forced to flee from ISIS. This is achieved by Mass stipends for priests as well as direct emergency aid for housing and other essential provisions.

14 aprile 2015

The Stockholm Suburb Which Has Become a Mini-Middle East

By Newsweek
Elisabeth Braw

These days, Ninous Toma runs an exceedingly busy operation, each week receiving more members along with their families. He’s president of the youth division at Assyriska FF, a leading Swedish football club, and most of the young new players have recently arrived from Syria. “While the kids play, the parents use the time to ask each other about how things work here in Sweden”, he reports. “And we try to help some of the kids who’re traumatised.”
Traumatised kids, a bustling football club named Assyriska (Assyrian, a Christian minority in Syria, Iraq and Turkey): this is Södertälje, the Stockholm suburb that has become a mirror of the Middle East as persecuted minorities flee their homes. Since 2003, this city of now 91,000 residents has welcomed more than 8,000 refugees, mostly from Iraq and Syria. This year alone some 1,200 refugees - 90% of them Syrians - have arrived here. Because Swedish law allows refugees to choose where to settle, thousands of Middle Eastern Christians opt for Södertälje, for the past several decades home to a small but growing community Middle Eastern Christian community.
And since Sweden’s pioneering 2013 law that grants permanent residence to all Syrian asylum seekers, Syrians have quickly become the country’s largest refugee group. Last year, 2,535 Syrians applied for asylum in Sweden, compared to 716 Somali citizens and 676 Kosovars.
“The continuing war in Syria has developed into the largest refugee disaster of modern times”, says Pierre Karatzian, a spokesman for the Swedish Migration Board. “We estimate that 80,000-105,000 individuals will apply for asylum in Sweden this year, of whom we estimate 37,000 will be from Syria.”
The flood of new arrivals has cemented Södertälje’s status as a mini-Middle East, with Levantine churches (the city has four Middle Eastern bishops), clubs and companies now dotting the streetscape. But for all their confessed sympathy for the refugees’ plight, local Swedes are voting with their feet. In three municipal schools, 90% of children now come from immigrant families. Indeed, immigrant old-timers tell Newsweek that families like them now move their children from municipal to private schools – free, thanks to Sweden’s school voucher system – because of the large number of refugee children in municipal schools. “Lots of kids in Södertälje don’t learn Swedish because they never get a chance to use the language”, laments Mayor Boel Godner.
So for now, many parents bring their children to Assyriska for a chance to hone their Swedish along with their football skills. “It would be great if we could hire a social worker for the traumatised kids”, says Toma, himself a Syrian immigrant who arrived in Sweden 25 years ago. And the young players’ football skills? Rather rudimentary, Toma judges: “They just like to dribble.”
Now a de facto cultural facilitator and psychologist as well as a football manager, Toma has even introduced a new athletic concept: the educational football team for newly arrived teenage refugees. “We lost all our games last year”, he reports. “But winning is not the point. The point is teaching them how things work here in Sweden: everybody gets a shot, you don’t argue with the referee, you thank your opponents, you wear shin guards.”
In a sad indictment of the Syrian conflict, Assyriska’s youth boom is set to continue for a long time.

13 aprile 2015

Anglicans, Episcopalians standing in solidarity with persecuted minorities

By Anglican Communion News Service
Matthew Davies

Church bombings, brutal beheadings, forced conversions and mass migration have become the shocking trademarks of extremist factions in the Middle East and Africa, persecuting religious minorities and wiping out Christian populations that in some places – such as Iraq, Syria and Egypt – date back to the first century.
For many in the West who see them only through the gaze of the media, these oppressed communities may seem a million miles away. For others, including many Episcopal and Anglican leaders, they are global neighbours, fellow Christians or interfaith partners, and people in urgent need of a lifeline.
“Jesus is pretty clear that our neighbours are sometimes, perhaps often, those we least expect or wish to overlook,” the Revd Christopher Bishop, rector of St. Martin’s Episcopal Church in Radnor, Pennsylvania, told Episcopal News Service. “The only real difference between us and someone in Mosul or Kirkuk, for example, is bad, bad luck. We need to act on their behalf just as – were the roles reversed – we would long for them to act upon ours.”
Bishop and his parishioners have chosen action over inaction and are committed to walking alongside the displaced Christian communities that are living in tents, abandoned buildings and basements in Erbil, Iraq.
The church has launched the ministry and website Stand With Iraqi Christians, and one of its members lives and works in Erbil. Bishop is planning to travel to Erbil in the coming months “to deliver financial, emotional, and communications support and to build relationships with the communities of survivors.”
According to the people Bishop knows in Erbil, “the situation for everyone, particularly the Christian minorities, is simply desperate,” he said. “We know it’s not just the Christians being brutalized – it’s Muslims, it’s Yazidis, it’s basically anybody who is not committed to the medieval orthodoxy of the Daesh,” the Arabic name for the self-styled Islamic State, the extremist rebel group that controls territory in Iraq, Syria, Libya and Nigeria and is attempting to enforce a strict and draconian version of Sharia law.
 “The mission at St. Martin’s is ‘to seek God, and be Christ’s body in the world,’” said Bishop. “This crisis transcends religious boundaries and nations, and hopefully can inspire all of us to act. If we are going to claim this powerful and empowering witness to God’s reason for our being, that means reaching out the hand of friendship and support to those near and far who are suffering or in need of loving.”
Americans and Europeans often think of Christianity as being Western, he said. But “its origins, obviously, are in the Middle East. The idea that faithful Christian communities dating back to the first century after Christ will be forever extinguished is beyond catastrophic – it ought to utterly horrify all of us who treasure the gorgeous continuities that these churches represent to our current prayer, liturgical and communal lives. It makes me feel first mournful, then motivated.” 
The Revd Bill Schwartz, an Anglican priest based in Qatar and an Episcopal Church missionary since 1993, regularly visits Iraq. Having returned from Baghdad three weeks ago, he said there is a clear sense of dismay among many Iraqis about the exclusively conservative Sunnis called Daesh, and the corruption in the Iraqi government and its inability to protect its citizens.
“The Daesh are intolerant of anyone who disagrees with their perspective, and that perspective doesn’t seem to be consistent,” said Schwarz, whose recently published book, “Islam: A Religion, A Culture, A Society,” addresses the complexities of faith in Islamic contexts. “Many Sunni Muslims are also denigrated and persecuted by Daesh forces … The recent mono-cultural presentation of Islam that Daesh is promoting has created a polarization in Iraqi society between those who are exclusive and those who wish the society to be inclusive.”
While reluctant to condone violence of any kind, Schwarz said that he believes the military offensive against Daesh “is unfortunately necessary for the protection of those oppressed and for the security of the world.”
Schwartz, archdeacon of the Diocese of Cyprus and the Gulf, and manager of the Anglican Centre in Qatar, also acknowledged that the Iraqi government needs to crackdown on corruption in its ranks so the country can begin to function normally and prepare for “re-creation of civil society with secure social parameters so that people can learn to trust each other and live together.” He added that “huge amounts of funding and investment” are necessary to rebuild ruined cities and societies, as well as investment in job creation.
The Episcopal Church’s Executive Council at its March meeting passed a resolution condemning the use of religion for the purpose of advancing political agendas “directed at terrorizing, victimizing, and oppressing individuals and communities and impairing their ability to enjoy basic human rights because of their religious beliefs and social, ethnic, class, caste, gender, and national affiliations.”
The resolution also calls on the world’s governments “to confront the reality of religious persecution, protect religious minorities and civilians within the framework of international and humanitarian law, address political exclusion and economic desperation that are being manipulated by the forces of extremists, scale up humanitarian and development assistance to host countries and trusted NGOs, and accept for resettlement a fair share of the most vulnerable people where return to their countries of origin is impossible.”
Not more than two weeks after Executive Council had passed its resolution, the world was mourning the deaths of more than 150 Kenyan students, mostly Christians, targeted in a pre-dawn attack at Garissa University on April 2 by a gang of Islamic extremists claiming to be affiliated with Somalia’s al-Shabab militant group.
In his Easter Day sermon at Canterbury Cathedral, Archbishop of Canterbury Justin Welby said the students were martyrs, “caught up in the resurrection: their cruel deaths, the brutality of their persecution, their persecution is overcome by Christ himself at their side because they share his suffering, at their side because he rose from the dead. Because of the resurrection of Jesus from the dead the cruel are overcome, evil is defeated, martyrs conquer.”
Archbishop Eliud Wabukala of the Anglican Church of Kenya described the attack as “a calculated manifestation of evil designed to destroy our nation and our faith,” but he said that their deaths will not be in vain, just as “Jesus’s death upon the cross was not in vain. By his death, death has been destroyed … We call on the government to do all in its power to protect the lives of its citizens and we call on the world community to recognize that this latest outrage is not just an attack on Kenya, but part of an assault on world peace. The time has come for the world to unite as never before in defeating this growing menace.”
As many in the United States and other Western countries are challenged with how to address extremism and persecution in the Middle East and Africa, Executive Council encouraged all Episcopalians “to engage in prayers, support, education, and advocacy for displaced people and the churches that are providing succour and hope to those displaced people who have been uprooted by conflict and living in refugee camps.”
The West can also show support and solidarity, Schwarz in Qatar said, through generosity in giving to relief efforts; investment, both through large corporations and small mission groups; and through the fostering of political will to look at the long-term problems rather than simply the next election (in the United States and Europe as well as in Iraq).
The Revd Canon Robert Edmunds, Middle East partnership officer for the Domestic and Foreign Missionary Society, said: “We sometimes hear the term ‘Christian presence’ in the Middle East and it sounds passive and lacking in vitality when the truth of the matter for those who live there is quite different. The Christian presence throughout the region is about Christians whose family and religious roots reach back to the time of Christ. These are not sojourners in a strange and foreign land, but people whose lives are an integral part of the landscape, the history, the culture and the traditions which have and continue to shape each generation.” 
The presence of the indigenous Christian churches “provides the language of love of God and all neighbours which is in danger of being silenced,” Edmunds added. “We in the West must continue to give these atrocities visibility both in terms of solidarity with our brother and sister Christians, but to encourage political leaders to seek lasting and durable solutions for peace for the benefit of all. To lose the indigenous Christian voice in the region would be catastrophic for the future.”
Before the U.S.-led invasion in 2003, Iraq was home to about 1.5 million Christians – about 5 percent of the population – who trace their roots back almost 2,000 years. Today, fewer than 400,000 Christians remain.
Some of those Christians have fled to neighbouring countries, many of which have their own issues of instability and extremism, and are struggling to meet the basic demands of the increased influx of refugees. Others find their way to more stable countries throughout Europe and beyond.
In July 2014, France responded to the persecution of religious minorities in Iraq by offering asylum to Christians from Mosul, home to one of the Middle East’s oldest Christian communities.
The Association d’Entraide aux Minorités d’Orient (Association to Aid Middle Eastern Minorities), established in 2007 by Bishop Pierre Whalon of the Convocation of Episcopal Churches in Europe and Iraqi businessman Elish Yako, assists some of the refugees with their integration into society.
Many of the refugees are members of the Chaldean Catholic Church, which dates back to the first century, when the region around Iraq was known as Babylon.
“For them,” Yako told ENS, “the most important thing is their freedom … and to practice their religion without being afraid of terrorists and [of someone] kidnapping their children.”
Yako stays in regular contact with every family the association has helped to resettle, including, for instance, a family of four – mother, father, son and daughter – that lives about 18 miles south of Paris. They moved to France in 2009 after receiving repeated death threats. The children told ENS that they are happy finally to practice their religion freely and they are proud of it.
“These people ought still to be in Iraq,” Whalon told ENS. “A lot of them still own homes. They never wanted to leave them. They lease them out; they expect to return. Of course, today the situation is impossible. So of course we want Christians to stay [in Iraq], but we want them to live.
“The ones that can live to tell the tale, they witness to the power of God,” he added. “It says a great deal to me about the value of what we do and what we are in the world.”

Cardinal Nichols pays tribute to Christians fleeing ISIS during Iraq visit


Cardinal Vincent Nichols has visited Erbil, in Iraq and praised the city’s Chaldean community for the “admirable and effective” welcome given to thousands of people forced to flee their homes by ISIS terrorists.
The Archbishop of Westminster, who visited the capital of Kurdistan on a two-day trip to Iraq, gave a short homily at a Mass on Sunday evening, the ‘First Sunday’ in the Chaldean calendar, in the Cathedral of St Joseph. He was joined by Archbishop Bashar Warda of Erbil in celebrating the Mass.
“I promise to tell your story when I get home and that the Catholic people of England and Wales will keep you all very much in their prayers,” Cardinal Nichols said.
“We know that so much more needs to be done so that you can return to your homes and lands. We pray for your perseverance and patience in these very difficult circumstances.”
He thanked the Chaldean Community in Erbil for the admirable and effective welcome they had given, under the leadership of their Archbishop, to so many thousands of displaced people.
The Cardinal then reflected on the character of St Thomas who, in his suffering and sorrow, had stayed away from the community of the disciples. Only when he returned did he receive the good news of the resurrection of the Lord.
“Never stay away from the community of the Church because of sadness, or anger, or distress. Always stay within the embrace of the community because there, together, you will find the love and support which so reflects the love of the Lord. There you are able to say ‘my Lord and my God’,” Cardinal Nichols added.
Finally, the Cardinal repeated the Lord’s own greeting, “Peace be with you”.
“This greeting does not mean that our lives will be free from trouble,” he said.
“The Lord does not promise that to us. Rather this greeting is a prayer that all the blessings of God will be given to you. And this is my greeting to you all. Please pray for us as we will most certainly pray for you.”