By Baghdadhope
Monsignor Louis Sako, Arcivescovo caldeo di Kirkuk, ha accettato di parlare a Baghdadhope delle speranze sul futuro della sua città, contesa tra le aspirazioni del governo curdo che la reclama come sua capitale storica e quello centrale che la considera sua parte integrante.
Monsignore, in un nostro precedente incontro nel 2005 Lei aveva parlato di un processo di “curdificazione” di Kirkuk attuato attraverso una politica di favoritismo nei confronti dei curdi che l’avevano dovuta abbandonare a causa dell’opposto tentativo di “arabizzarla” da parte del regime di Saddam Hussein, ed addirittura di quelli che ormai da anni vivevano in Iran. A distanza di cinque anni questo processo continua o si è fermato?
“Non si è mai fermato. Kirkuk è una città a maggioranza curda ed anche il suo governo vede rappresentanti curdi nei posti di maggior rilievo.”
I curdi controllano anche la sicurezza della città?
“La sicurezza era affidata ai soldati curdi – i peshmerga – ed agli americani ma ora, con la politica di disimpegno delle truppe USA dalle città, la presenza delle forze del governo centrale sta aumentando.”
Ci sono problemi tra queste forze e quelle curde visto che Kirkuk è ancora contesa tra le due parti?
“No, perché anche i peshmerga fanno ormai parte dell’esercito iracherno.”
Potrebbe quindi definire la situazione a Kirkuk come tranquilla?
“Si. A Kirkuk la lunghissima storia di convivenza tra le diverse componenti etniche e religiose garantisce una tranquillità sconosciuta altrove.”
Sarà così anche se in futuro le pretese sul controllo di una città così ricca dovessero portare ad uno scontro tra le parti coinvolte?
In pratica fino ad ora ogni decisione sul suo status futuro è stata rimandata…
“Io penso che alla fine tutto si risolverà. È innegabile che Kirkuk è una città contesa, ma è altrettanto vero che la strada del dialogo fino ad ora intrapresa tra le diverse componenti ha dato i suoi frutti garantendo stabilità.”
Con gli incontri che Lei organizza ed i buoni rapporti che intrattiene con tutte le parti in causa è sicuro che in caso di scontri quelle stese parti sarebbero pronte a preservare la minoranza cristiana ed a difenderla da eventuali attacchi?
“Si. Ne sono convinto. Gli iracheni sanno, e ci dicono, che perdendo i cristiani perderebbero una parte importante della loro stessa identità nazionale. A Kirkuk, ma anche in altre parti del paese, i cristiani possono fungere da ponte, da componente mediatrice. Un ruolo da non sottovalutare. Certo, bisogna lavorare molto e costruire questi rapporti, un processo fatto di piccoli passi, di piccoli segni, ed anche di un uso abile e coerente delle parole e dei messaggi che noi come comunità esprimiamo, ed alle volte della forza di imporre il rispetto per il nostro essere cristiani ma innanzitutto iracheni.”
Può fare qualche esempio di queste parole e di questi messaggi?
“Nelle parole, ma soprattutto nei fatti, dobbiamo dimostrare di essere equidistanti tra le parti laddove equidistanti non significa indifferenti ma, anzi, interessati ad ascoltare le ragioni di ognuno per trovare un punto di accordo tra esse. Per quanto riguarda la richiesta di rispetto dei nostri diritti non dobbiamo temere di reclamarlo. Quando a Kirkuk – è successo due volte – un imam ha parlato contro i cristiani nella predica del venerdì io ho immediatamente chiamato il capo religioso chiedendo spiegazioni su un tale ingiustificato comportamento ed in entrambi i casi il messaggio del venerdì successivo si è trasformato da uno di intolleranza ad uno di fratellanza e rispetto.”
La sua volontà di dialogare con le parti è ricambiata?
“A parte gli inviti agli incontri che vengono accettati mi sembra che uno dei più chiari esempio di questa volontà risalga allo scorso Natale quando all’inizio della Santa Messa si è presentata in chiesa una delegazione di capi musulmani. Alla fine della celebrazione mi sono recato in prossimità della porta ed ho distribuito un fiore ad ognuno di loro. Un gesto commentato positivamente perché testimone dei nostri sentimenti di fratellanza e soprattutto di perdono. Un sentimento, quello del perdono, che i musulmani sempre riconoscono a noi cristiani ed ammirano. Un gesto che mi ha permesso di essere invitato a parlare in moschea dove ho trovato fedeli pronti ad ascoltare ciò che avevo da dire loro.”
E che cosa ha detto a quei fedeli musulmani?
“Ho ricordato loro che la prima protezione avuta dal Profeta Maometto è stata offerta dalla chiesa in Etiopia, una cosa che ha lasciato stupiti molti ma che ha anche permesso di ribadire i legami antichissimi che esistono tra le diverse religioni che convivono nella stessa area geografica.”
La legge elettiva per i consigli provinciali del settembre 2008 ha stabilito per Kirkuk la creazione di una commissione di 7 legislatori (uno dei quali cristiano) con il compito di presentare entro il 31 marzo prossimo una bozza di legge elettorale per la città per l’approvazione del Parlamento. Lei può dirci qualcosa dei lavori di questa commissione?
“Mi sembra di aver sentito dire che la bozza è stata già inviata a Baghdad ma sinceramente non posso essere più preciso di così.”
A dicembre del 2007 è stata stabilita per Kirkuk per quanto riguarda gli impieghi governativi una percentuale che assegna ad arabi, curdi, turcomanni e cristiani una quota fissa rispettivamente di 32-32-32 e 4%. Le quote sono rispettate?
“In linea di massima sì anche se, ad esempio, per i cristiani vige la regola di favorire di volta in volta chi si stima più vicino alla componente maggioritaria che controlla questo o quell’ufficio governativo.”
Eppure lo stesso Jalal Talabani ha affermato di volere far rispettare queste quote. Una promessa che suona simile a quelle di difesa dei diritti delle minoranze fatte in occasione dell’approvazione della legge elettorale e della cancellazione dell’articolo 50 che assicurava ad esse 15 seggi nelle prossime elezioni del 31 gennaio – elezioni da cui comunque Kirkuk è esclusa -. Che assicurazioni avete che queste quote verranno davvero rispettate e l’impiego dei cristiani venga “slegato” dalla loro vicinanza politica a questo o a quel partito?
“Sicurezza nessuna, speranze tante. Le stesse speranze che abbiamo che la situazione posa migliorare e diventare un giorno normale."
Torniamo alla questione dell’articolo 50 con un breve riassunto. Le minoranze religiose che secondo quest’articolo avrebbero dovuto avere 15 seggi alle elezioni provinciali, dopo vari cambiamenti e proposte hanno visto questi seggi ridursi a 6 in totale nelle 14 province interessate (escluse come si è detto quella di Tamim di cui Kirkuk è capitale e le tre province curde). I cristiani che all’inizio ne avevano assegnati 12 sono passati a tre ma, cosa più importante, non avranno diritto a rappresentanti nelle province di Erbil, Dohuk e Kirkuk.
Fermo restando che le elezioni provinciali a Kirkuk non si svolgeranno il 31 gennaio ma in data da definire, e che questo provvedimento di “taglio” è stato definito come temporaneo e suscettibile di cambiamento a seguito del censimento della popolazione irachena Lei pensa che sarà possibile per Kirkuk “recuperare” la rappresentatività politica dei cristiani persa a settembre 2008?
“Io penso e spero di sì. Magari anche di un solo seggio. Molto è nelle mani dei partiti politici che si presentano troppo divisi tra loro e quindi hanno minori capacità. Certamente rivendicare i nostri diritti a livello politico è però giusto. Siamo minoranza religiosa ma sempre cittadini iracheni a tutti gli effetti.”
La sua reazione alla decisione della comunità europea di permettere agli stati membri di accogliere su base volontaria 10.000 profughi iracheni che vivono in Giordania e Siria è stata di netto rifiuto perché considerata un possibile incoraggiamento alla fuga dei cristiani. Considerando che si tratta di un provvedimento che non riguarda esclusivamente i cristiani, ed in più interessa quelli che già vivono all’estero, come può influire così tanto in Iraq da farle parlare di esodo?
“Influisce perché quello che è in atto è davvero un esodo. La gente vuole partire perché crede che in Europa, in America o in Australia tutto sia facile e bello mentre non è così. È una specie di moda. Vuole partire anche chi vive in zone dove non c’è pericolo, gente che non sa che l’Occidente non è cristiano secondo i criteri di valutazione mediorientali, gente che si troverà a fare una vita misera e di sofferenza, che troverà indifferenza e sfruttamento. Noi abbiamo spiegato in chiesa cosa significa questo provvedimento, che andare in Siria o Giordania non vuol dire automaticamente essere trasferiti a Parigi, a Stoccolma o a Madrid. Che non c’è ragione di abbandonare villaggi che vivono in pace. Questi provvedimenti non aiutano la nostra comunità.”
E che provvedimenti sarebbero d’aiuto, invece?
“Aiuto a creare posti di lavoro, possibilità di contribuire alla ricostruzione del paese. Una cosa che i cristiani hanno sempre fatto a fianco dei loro fratelli musulmani e che desideriamo continuino a fare.”
Durante l’incontro avvenuto in Germania lo scorso luglio di una delegazione di religiosi cristiani iracheni con il governo tedesco è stato chiesto di aiutare i profughi che già si trovano in quel territorio ed eventualmente di favorire il ricongiungimento familiare. È questo il “distinguo” tra la vostra proposta e quella della comunità europea?
“Noi non diciamo di non aiutare nessuno. Diciamo che bisogna valutare i casi. Diciamo ad esempio che l’Europa potrebbe offrire protezione a chi per avere avuto in passato una posizione influente tornando in Iraq potrebbe essere a rischio della vita. Che ci sono casi di genitori anziani i cui figli vivono all’estero e che sono rimasti soli, o casi che necessitano di cure mediche specifiche. Pensiamo a molti casi, insomma, ma non ad un’accoglienza generalizzata che creerebbe, come ho già detto, un’ulteriore spinta alla fuga.”
Monsignore, Lei ha praticamente rivolto ai cristiani che sono o stanno pensando di fuggire un monito, si potrebbe definire quasi un’accusa di non essere dei buoni fedeli perché non seguono l’esempio di chi ha deciso di affrontare la morte per la propria fede...
“E lo ribadisco. Il cristiano con il battesimo giura fedeltà alla sua fede, ed il cammino della fede può essere pieno di difficoltà e sacrifici ma non per questo non deve essere percorso.”
Ma come si può rimproverare chi pensa di poter assicurare ai propri figli un futuro migliore, lontani da un paese in cui Lei stesso dichiara i cristiani sono considerati cittadini di seconda classe?
“Emigrare per vivere una vita da profugo non è la soluzione. Cercare una vita più comoda neanche. Queste persone devono sperare, pregare e lottare perché la situazione migliori e ci sia un domani senza più cittadini di prima o seconda classe.”