By Acistampa
Andrea Gagliarducci
13 aprile 2018
Quando si parla di Chiesa in Iraq, si parla sempre del Patriarcato 
caldeo. Ma c’è anche un patriarcato latino, una minoranza nel 
territorio, che vive da anni gli effetti dell’esodo e si sforza di 
essere Chiesa di profezia in un territorio da troppi anni martoriato. Ne
 ha parlato con ACI Stampa Jean Sleiman, carmelitano, Patriarca latino 
di Baghdad.
Come vive il rito latino in Iraq?
Il rito latino vive come un rito di minoranza. Si può dire che la 
Chiesa latina in Iraq è una Chiesa sin dall’inizio missionaria. I 
missionari sono stati inviati dalla Santa Sede nel territorio per 
aiutare la Chiesa con la cultura e l’educazione. I Carmelitani in Iran e
 Iraq cominciano subito a lavorare in questo senso. E c’è subito un dialogo ecumenico, perché vengono accolti dagli armeni 
ortodossi, ma entrano anche in dialogo con i nestoriani e con gli 
assiri.
Era una presenza importante?
Una presenza molto piccola. I missionari non erano mai più di tre. 
Hanno anche affrontato i bisogni primari della popolazione. Hanno 
chiesto un frate medico per aiutare la popolazione che nessuno aiutava, e
 si sono occupati così della salute mentale e fisica della popolazione. 
La Chiesa latina in Iraq ha molte scuole, due orfanotrofi, una casa per 
anziani. Ci sono i domenicani che fanno un apostolato intellettuale. 
Posso dire che la Chiesa latina non fa molto rumore, ma lavora molto.
Quale è la situazione in Iraq?
Le difficoltà materiali non sono diminuite. Certo, c’è già una certa 
normalità, ma i problemi sono pratici. Si tratta soprattutto di 
difficoltà a livello mentale, c’è molta incertezza. La nostra è una 
situazione di arbitrarietà continua.
Quanto sono difficili le situazioni da affrontare?
La cosa più grave è l’insicurezza sull’avvenire. Non si vede il 
futuro, non si comprende quello che ci aspetterà. Molti soffrono per 
questo, mentre altri vanno via. Ci sono molte persone che sono emigrate 
non perché sono perseguitate, ma perché c’era questo esodo continuo che 
creava incertezza.
Quante sono le persone che sono partite?
Non abbiamo dati certi, ma abbiamo perso forse un milione e mezzo di fedeli.
Già con l’esortazione apostolica Ecclesia in Medio Oriente
 si parlava di questo esodo di cristiani, diventato anche più pesante 
dopo la Seconda Guerra del Golfo. Ma come si ferma questo esodo? 
L’esodo dei cristiani non può essere fermato. L’emigrazione è 
cominciata molto prima. Le prime onde di migrazioni avvengono nella 
Prima Guerra Mondiale. Quando l’Iraq ottiene l’indipendenza, ci sono due
 comunità che non lo accettano, e sono i curdi e gli assiri: i curdi 
perché sono stati distribuiti in quattro Paesi differenti, e gli assiri 
perché non volevano essere sottomessi al re. Poi, negli Anni Sessanta, 
dopo l’uccisione del re, molti cristiani si sono sentiti scoraggiati. Il
 regno iracheno, al di là di tutto quello che si può dire, era molto 
pacifico e moderato. Per difendere le minoranze cristiane, serve uno 
Stato super partes.
Quindi cosa succede negli anni Sessanta?
I cristiani subiscono un massacro, soprattutto nella regione di 
Mosul. E i governi iracheni che si succedono hanno poi bisogno di 
soldati, e cominciano a chiamare i giovani alla coscrizione 
obbligatoria. Per questo, molti giovani fuggivano. Nel 2003, poi, con la
 Seconda Guerra Mondiale, le cose cambiano.
Perché?
Prima si trattava di emigrazioni individuali. Ma quando nel 2004 
cominciano gli attacchi contro le chiese, allora si emigra in gruppi. + 
così che comincia l’esodo.
Come sono i rapporti con i musulmani?
Vanno avanti come sempre. Non siamo necessariamente considerati 
fratelli. Ufficialmente, il governo non perseguita i cristiani. Ci sono 
incontri, ci sono dialoghi. Ma le discriminazioni non spariscono 
facilmente. Il problema è che anche lo Stato è dominato dai partitini, 
dagli staterelli nati dopo la caduta del regime. E molti cristiani non 
hanno fiducia nei partiti, restano senza qualcuno che li protegga e che 
li aiuti a trovare lavoro.
In generale, quale è la situazione? 
Si tratta di una situazione di anarchia. Lo Stato è debole, non può controllare tutto e non controlla tutto.
E quale è la vostra speranza? 
Speriamo che il Signore trovi una soluzione. Noi siamo tornati 
indietro, viviamo in una Guerra Fredda che è operata sui territori di 
Iraq, Siria, Yemen, forse Ucraina. Noi viviamo una situazione in cui 
siamo impotenti.
La società in Medio Oriente come è cambiata?
Non dobbiamo dimenticare che – malgrado la modernità – le mentalità 
sono molto arcaiche. È risuscitato il tribalismo, oggi la persona si 
difende tramite la sua tribù. C’è una regressione a livello di 
relazioni. Questa guerra tra sunniti e sciiti ha fatto molto male. In Iraq, queste due grandi comunità 
musulmane non si facevano la guerra, c’erano moltissimi matrimoni misti.
 Il matrimonio è importante in una società tradizionale in cui sono le 
due famiglie, le due tribù che si cercano.
Cosa vi aspettate dalla Santa Sede?
Sappiamo che la Santa Sede lavora, e qualcuno ha cercato chiedere 
alla Santa Sede una mediazione. Ma la situazione è complicatissima, ci 
sono cose che un cristiano non vede. La Santa Sede è molto attenta e 
segue tutto, ma le cose sono molto più difficili, perché gli iracheni 
non decidono più del loro destino da tanto tempo, e così anche i curdi. E poi, l’ISIS, non è semplicemente morto. C’è una cultura dell’ISIS che si è diffusa.