Pagine

30 giugno 2010

Iraq: 76 leaders cristiani chiedono più diritti e rispetto per le minoranze

By SIR 30 giugno 2010

Un appello in 8 punti per rivendicare protezione delle minoranze, rispetto dei loro diritti, e un numero maggiore di rappresentanti cristiani nelle istituzioni nazionali e locali. A lanciarlo il 26 giugno, ma la notizia è stata diffusa solo ieri dal sito Ankawa.com, un gruppo di 76 leader cristiani iracheni riunitisi a Qaraqosh, nei pressi di Mosul. Nell’appello i capi cristiani chiedono, tra le altre cose, degli “emendamenti costituzionali per rafforzare i diritti della minoranza cristiana, il finanziamento di programmi che facilitino il rientro dei rifugiati e l’istituzione di una Commissione nazionale per gli Affari delle minoranze che promuova il dialogo pacifico tra gruppi etnici e religiosi”. Consapevoli che la coesistenza e il dialogo passano anche attraverso l’istruzione e la sicurezza, i leader firmatari chiedono anche “la creazione di una università nella provincia di Ninive, il rafforzamento della sicurezza per le comunità più vulnerabili, maggiori investimenti per infrastrutture nelle aree più arretrate e popolate dalle minoranze”. L’arcivescovo cattolico caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako, ha ribadito che “i cristiani non devono lasciare l’Iraq ma testimoniare la loro fede al loro Paese”. Si stima che dalla caduta del regime di Saddam Hussein, nel 2003, circa la metà dei cristiani iracheni, vale a dire un milione di fedeli, sia stato costretto a lasciare il Paese.

Iraq: 76 Christian leaders claim more rights and respect of minorities

By SIR June 30 2010

An 8-point appeal to claim protection of minorities, respect of their rights, and a higher number of Christian members within their national and local institutions. It was made on 26th June, but the news was given yesterday by the website Ankawa.com, by a group of 76 Iraqi Christian leaders who gathered in Qaraqosh, near Mosul. In their appeal, the Christian leaders ask, among other things, for “constitutional amendments to strengthen the rights of the Christian minority, the funding of schemes to ease the refugees’ repatriation, and the establishment of a National Committee for Minorities’ Affairs to promote peaceful dialogue between different ethnic and religious groups”. Aware that cohabitation and dialogue also involve education and security, the signatories also ask for “the establishment of a university in the province of Neneveh, the upgrading of security for the more vulnerable communities, more investments in infrastructure in the most backward minority-populated areas”. The Chaldean Catholic archbishop of Kirkuk, mgr. Louis Sako, insisted that “Christians must not leave Iraq, they must bear witness to their faith to their country”. It is estimated that, since the fall of Saddam Hussein’s regime in 2003, about one half Iraqi Christians, that is about one million devotees, have been forced to leave the country.

Cronache da Kirkuk. Il tempo dei lupi

By Baghdadhope*

Riprende oggi la pubblicazione integrale della rubrica Cronache da Kirkuk che già lo scorso anno Baghdadhope ha dedicato agli scritti che Alessandro Ciquera invia dalla città irachena dove proprio in questi giorni sta curando un progetto volto ad assicurare ai bambini degli spazi sicuri ed adeguati allo studio ed allo sport.
Le parole di Alessandro descrivono una nazione ancora "in mano ai lupi" dove però la speranza non è morta, e la voglia di alcuni di noi di aiutarla a farcela.


Il tempo dei lupi

29 Giugno Kirkuk-Iraq
di Alessandro Ciquera

Ci sono tante cose che vorrei comunicare, tante davvero, emozioni, situazioni, conoscenze, purtroppo per questioni ti tempo non riusciro' a scrivere tutto, ma cerchero' di essere ugualmente il piu' incisivo possibile. In questi giorni insieme a Sorood ed ad altri ragazzi di Kirkuk stiamo facendo un lungo lavoro sui diritti umani, in particolar modo dei bambini e delle donne.
Ci sono ancora troppe zone grigie in questa citta', zone dove sfruttamento, violenza e prevaricazione del piu' forte sul piu' debole la fanno da padroni, non esistono precisi progetti di prevenzione da parte delle autorita' governative, e questo vuoto di potere spesso e' colmato da terroristi e trafficanti di droga. Gli adolescenti, e sempre piu' spesso anche i bambini, vengono mandati a elemosinare ai semafori, a compiere piccoli furti, a lavorare senza sosta vendendo gomme da masticare o gadget dei Mondiali di Calcio, la maggior parte di questi piccoli non ha una famiglia in grado di mantenerli e controllarli, e purtroppo cio' li porta in mani sbagliate, in mani di adulti criminali, che in nome di chissa' quale follia li rapiscono, li drogano e successivamente li mandano con uno zainetto pieno di esplosivo a portare morte e distruzione davanti alle moschee, alle scuole, agli uffici pubblici, ai mercati.
Nel momento in cui un bambino in queste condizioni viene fermato e arrestato, la sua destinazione sara' direttamente il carcere, senza la possibilta' di scegliere strutture alternative (non esistendo un istituto di detenzione minorile), esso verra' messo a diretto contatto con assassini e criminali della peggior specie.
Il solo pensare a tutto cio' mi provoca grande sgomento, e senso di impotenza, che possibilta' avra' un ragazzo di cambiare e crescere bene se non si investe minimamente su di lui? Come potra' rifarsi un futuro se sara' costretto a passare mesi dietro le sbarre, in compagnia di rapitori, estorsori, fanatici religiosi, persone con un curriculum molto piu' grave e pesante del suo, uomini con le mani sporche di sangue innocente.
Tutto in questa citta', e in questa Nazione in generale e' un circolo vizioso, i problemi arrivano, vengono affrontati malamente e quindi successivamente si ripresentano, piu' forti e aggressivi di prima. Le piu' fondamentali regole sui diritti umani non vengono considerate, e questo fa si che, in alcune zone, esistano ancora pratiche come l'infibulazione e il delitto d'onore. Molte donne sono costrette a vivere sotto il tallone del marito-padrone, e in poche hanno il coraggio e la forza necessari per denunciarlo, sento intorno a me, nelle strade, nel Bazar, una cappa pesante, non solo dovuta al caldo, ma tipica di quelle sensazioni, di quei sensi, che ti indicano che qualcosa non va, come se tutto il male che avviene quotidianamente si riversasse anche nell' aria che respiriamo. Non sono sensazioni positive, come quelle che invece provo la sera, prima di stendermi sul materasso posto sopra il tetto per cercare di dormire, il momento in cui tutto sembra calmo e sereno, il momento in cui escono le stelle e la luna fa capolino sopra i bassi profili delle case, ed e' in questi attimi che mi chiedo cosa succedera' il giorno seguente, se tutti coloro che in questo momento stanno tornando dal lavoro, mettendo a dormire i figli con un bacio, guardando la partita alla televisione, uscendo con il fidanzato o la fidanzata, ridendo, scrivendo poesie o semplicemente rilassandosi domani alla stessa ora saranno ancora vivi per farlo. Me lo domando spesso, e non trovo risposta, perche' e' impossibile saperlo, e' impossibile perche' le belve umane, i lupi che causano tanto dolore e morte agiscono in maniera imprevedibile, spesso tramite figure impensabili, spesso drogando giovani e bambini per costringerli a suicidarsi.
In tutto questo tuttavia alcune cose, alcune persone si legano a noi in maniera spontanea e inestricabile, sono volti ridenti, che amano la vita, volti di liceali e universitari che verso le sei si trovano in qualche campetto e giocano a calcio insieme, volti che ogni giorno mi elencano a memoria tutte le formazioni calcistiche della Champios Legue, della Serie A, della Liga Spagnola, degli Europei e dei Mondiali di Calcio, e dopo avermeli accuratamente descritti ognuno di loro mi parla di quelli che secondo il suo parere sono i migliori tre giocatori sulla scena, i migliori tre portieri, i migliori tre allenatori, i migliori tre club e le tre migliori squadre in questo momento alla Word Cup. Penso che spesso si sottovaluti l'importanza che un fenomento sportivo possa avere in un paese dove non esiste un futuro certo. Nella nostra Europa siamo abituati a giocatori super pagati, viziati e senza cervello, ma qui tutto questo mondo crea speranza, non fa pensare ai pericoli, giocano appena possono, sia a basket che a calcio, anche se mancano le strutture adeguate, ci si arrangia. L'altro giorno ho giocato a calcio con un gruppo di ragazzini, io ero in porta, la prima cosa che ho potuto notare e che ognuno di loro vestiva in maniera diversa, chi con i calzettoni tirati fino al ginocchio, chi senza, chi con la maglietta di Messi, chi di Robinho, chi di Ronaldo, e la stessa cosa per i pantaloncini, e le stesse scarpette erano a volte rotte, vecchie o senza lacci, ma probabilmente sono le uniche che hanno per divertirsi con gli amici, questo mi ha commosso molto, e mi piacerebbe riuscire a comprargli delle scarpe nuove a tutti e dodici quando finiremo i lavori nella scuola elementare. Non dovrebbe essere una cifra molto alta e penso che sara' possibile fare una partita prima della mia partenza in cui avranno le scarpette nuove.
Mi piace pensare che quando la guerra si attenuera' e la gente vivra' meglio noi potremo dire di avere visto il tempo in cui i lupi colpivano senza pieta', ma potremo anche dire di non averli fatti prevaricare, potremo dire di avere scelto di restare umani.

Per le Cronache da Kirkuk 2009 clicca sui titoli:

Alessandro Ciquera. Cronache da Kirkuk

Cronache da Kirkuk. Mons. Louis Sako

Cronache da Kirkuk. Terrore e vita

Cronache da Kirkuk. Una Storia semplice

Cronache da Kirkuk. Indovina chi viene a cena

28 giugno 2010

Christians fleeing Iraq find Church stretched thin in Europe

June 25 2010

Despite the relative calm that has settled over Mosul, Iraq since the May 2 bombing of buses carrying university students into the capital from towns nearby, fear hangs over the remaining Christian population of the diocese. According to Chorbishop Philip Najim, who is serving as the Apostolic Visitor of the Chaldeans in Europe, the “chaos” is not just limited to the Chaldean Christians still in Mosul.
On June 25, the Italian bishops' news service SIR published an interview with Chaldean Archbishop of Mosul Emil Shimoun Nona who explained that between the unstable government, problems resulting from the lack of electricity and fear, the Christian population of the diocese has been cut in half by people fleeing the volatile, hostile environment.
The local population of Christians now stands at approximately 10,000 people, he reported.
Seeking to learn more about the situation, CNA spoke with Chorbishop Najim, who was appointed by the Pope to establish parishes for the Chaldean community in Europe and provide for their pastoral care. In the Eastern Church, chorbishops assist bishops in carrying out their duties.
Chorbishop Najim told CNA that an “unknown force” is pushing the people out of the area, and while many countries have accepted the emigrants, including the European countries he oversees, the process is “unsystematic.”
“You can imagine the chaos we are living,”
he said. He described the desperation of the people to escape the situation, driven by a loss of hope in their government and a lack of faith in their future.
The problem not only threatens the current generation of Chaldeans in the diocese, continued the chorbishop, but also those to come.
Regarding their presence in Europe, Chorbishop Najim said that he and 20 priests are working in collaboration with the European bishops to provide for those who emigrate to Europe.
But the clergy is stretched thin when it comes to meeting the numerous challenges associated with caring for the beleaguered Iraqi Christians. The chorbishop and the priests serving with him must maintain the Church’s identity, provide pastoral assistance, conduct social work, provide education and integration, and work with governments, he said.
Chorbishop Najim added that they continue to work toward an unknown future “day by day, step by step,” under the guidance of the Church, especially the prefect of the Congregation for the Oriental Churches, Cardinal Leonardo Sandri, whom the chorbishop said, “is like a father to us.”
The chorbishop said hopes that the international community will rally to put an end to the suffering of Iraqis and that a sense of responsibility among political leaders to take action will prevail.
He also called October's Synod for the Middle East, "a very urgent issue for the Christians in the Middle East and for the immigrated Christians outside.
"Our faithful are looking for a serious move and authentic care from the universal Church so they will feel they are considered,"
he said. "It is a sign of hope and belonging to the Catholic Church."

Still Targeted: Continued Persecution of Iraq's Minorities

By Minority Rights Group International
10 June 2010

Although the overall security situation in Iraq has gradually improved, the conditions for minority communities of the country’s diverse population remain extremely distressing. Investigations throughout 2009 by Minority Rights Group International’s (MRG’s) partner in Iraq, Iraqi Minorities Organization (IMO), coupled with secondary research sourced from 2009 and the first half of 2010, lay bare the frequent bombings, torture, arbitrary arrest, intimidation, displacement and marginalization facing Iraq’s cultural and religious minorities.
The research focuses on the Kurdistan Region; Kirkuk and Nineveh provinces in the north; and Baghdad, given the concentration of minorities in these areas, collecting accounts primarily from Christians, Faili Kurds, Shabaks, Turkmen and Yazidis. The report details evidence of violence against these communities, including targeted killings, gender-based violence and attacks on religious sites; arbitrary arrests and intimidation; political disenfranchisement; internal displacement and resulting loss of property; and discrimination in accessing public services. It finds that violence and marginalization has occurred for reasons ranging from territorial disputes between Arabs and Kurds, to religious bias, political representation and long-standing patterns of discrimination.

To read the full report click here

25 giugno 2010

Papa: la pace in Medio Oriente nascerà dal rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa

By Asianews
25 giugno 2010

Il rispetto della libertà religiosa e dei diritti delle persone, delle famiglie e delle comunità potranno portare alla Terra Santa e a tutto il Medio Oriente pace e giustizia. Lo ha ripetuto oggi Benedetto XVI, che ha anche rinnovato il suo appello per i cristiani della regione, ai quali ha espresso solidarietà e chiesto di restare “là dove sono nati” e comunque di non dimenticare le loro origini, religiose e culturali. E i responsabili delle nazioni combattano “in maniera concreta” ogni forma di discriminazione.
Occasione per il nuovo intervento del Papa nella questione mediorientale è stata l’udienza di questa mattina ai partecipanti all’assemblea della "Riunione per l’Aiuto alle Chiese Orientali" (R.O.A.C.O.).
“Tutti noi – ha detto Benedetto XVI - speriamo che la Terra Santa, l’Iraq e il Medio Oriente abbiano il dono di una pace stabile e di convivenza solida. Esse nascono dal rispetto dei diritti della persona, delle famiglie, delle comunità e dei popoli e dal superamento di ogni discriminazione religiosa, culturale o sociale. Affido a Dio, ma anche a voi, l’appello lanciato a Cipro a favore dell’Oriente cristiano. In quanto strumenti della carità ecclesiale, possiate voi collaborare sempre di più alla costruzione della giustizia nella libertà e nella pace”.
“Incoraggio – ha proseguito - i fratelli e le sorelle che, in Oriente, codividono il done inestimabile del battesimo a perseverare nella fede e, malgrado i numerosi sacrifici, a restare là dove essi sono nati. Allo stesso tempo, esorto gli emigrati orientali a non dimenticare le loro origini, specialmente quelle religiose. Ne dipendono la loro fedeltà e la loro coerenza umana e cristiana. Desidero rendere un omaggio particolare ai cristiani che soffrono violenza a causa del Vangelo e confido nel Signore. Confido sempre che i responsabili delle nazioni garantiscano in maniera concreta, senza distinzioni e dovunque, la professione pubblica e comunitaria delle convinzioni religiose di ognuno”.
Benedetto XVI ha poi parlato dei “frutti abbondanti di santificazione” portati dall’Anno sacerdotale appena finito “non solo tra i preti, ma in tutto il popolo di Dio”. “Supplichiamo lo Spirito Santo - ha detto poi – perché confermi questi segni della benevolenza divina attraverso il dono delle vocazioni, delle quali la comunità ecclesiale ha molto bisogno, tanto in Occidente che in Oriente”.
Nello sguardo della Chiesa sul Medio Oriente, Benedetto XVI ha sottolineato “il comune impegno di preparare l’assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi”., ringraziando la ROACO per quanto ha fatto e farà per la riuscita dell’incontro. “Vi chiedo - ha concluso - di contribuire con le vostre opere a tenere viva la ‘speranza che non delude’ tra i cristiani d’Oriente"(Rm 5,5; cfr Instrumentum laboris, Conclusioni). Nel ‘piccolo gregge’ (Lc 12,32) che essi compongono è già operante il futuro di Dio e la "via stretta" che stanno percorrendo è descritta dal Vangelo come "via alla vita" (Mt 7,13-14). Vorremo essere sempre al loro fianco!

Pope: peace in the Middle East grows out of respect for human rights and religious freedom

By Asianews
June 25, 2010

Respect for religious freedom and the rights of individual, families and communities can bring peace and justice to the Holy Land and throughout the Middle East. Benedict XVI repeated this today as he also renewed his appeal for Christians in the region, to whom he expressed his solidarity, asking them to stay "where they were born” and not to forget their origins, religious and cultural. He also asked the leaders of nations fight "in a concrete way" all forms of discrimination. The Pope returned to the subject of the Middle East this morning in his address to participants at the assembly of the "Reunion of Aid Agencies for Eastern Churches” (ROACO).
"All of us -
said Benedict XVI - desire the gift of stable peace and secure coexistence in the Holy Land, in Iraq and in the Middle East. This will arise through respecting human rights, families, communities and peoples, and through overcoming religious, cultural and social discrimination. I entrust to God, but also to you, the call I launched for the Christian East from Cyprus. As instruments of ecclesial charity, may you continue to collaborate to build more justice in freedom and peace! "
"I encourage
- he continued - brothers and sisters in the East, to share the priceless gift of Baptism to persevere in faith, and despite the many sacrifices to remain where they were born. At the same time, I urge migrants from the East not forget their origins, especially their religious origins. Their loyalty and human and Christian coherency depends on this. I would like to pay special tribute to Christians who suffer violence because of the Gospel, and I commend them to the Lord. I am still counting on the Leaders of Nations to concretely guarantee, everywhere and without distinction, the public and common profession of the religious belief of each individual". Benedict XVI then spoke of "abundant fruits of holiness" brought by the Year for Priests, that has just concluded, "not only among the priests, but all the people of God." "We implore the Holy Spirit - he said then - to confirm these signs of divine favour through the gift of vocations, which the ecclesial community, both in the West and East, badly needs”.
In the eyes of the Church on the Middle East, Benedict XVI said is "the common commitment to prepare the special assembly for the Middle East of the Synod of Bishops." Thanking ROACO for all it has done and will do for the success of the meeting. "I ask you - he concluded - to contribute your works to keep alive the 'hope that never disappoints' among Eastern Christians" (Rom 5:5; see Instrumentum laboris, Conclusions). In the "little flock" (Luke 12:32) that they comprise, God’s future is already at work, and the "narrow path" that they are taking is described in the Gospel as "the path of life" (Mt 7:13-14). May we always be by their side!

Iraq Trying To Retain Its Minority Communities


June 24 2010

BAGHDAD -- An Iraqi minister says Baghdad wants to discourage emigration by its minority groups and has urged other countries not to accept asylum seekers from these communities, RFE/RL's Radio Free Iraq (RFI) reports. Emigration and Displacement Minister Abdel Samad Sultan told RFI on June 23 that his ministry has asked the European Union, the United States, and Australia to refuse applications for asylum by members of Iraqi minorities in order to preserve the country's ethnic and religious diversity. Sultan said Iraq should remain a country distinctly marked by a mosaic of peacefully coexisting communities and not lose this characteristic.
Hasan Shabaan, chairman of the Iraqi Human Rights Organization, told RFI that the Iraqi government's request for other countries to deny asylum to members of minority groups "runs counter to the Iraqi Constitution and universal human rights." He added that the constitution guarantees the individual's right to live anywhere he or she chooses. Sultan said that Iraq has also appealed to the UN High Commissioner for Refugees and the international community as a whole to help minority groups stay in the country while the government intensifies its efforts to provide better protection for them and discourage them from emigrating. He said that while extending considerable support for returnees to rebuild their lives at home, the Iraqi government is opposed to their forcible deportation, which he said is conducted by some European countries. He said such treatment is "inhuman and in contravention of international norms."
Father Shlaimon Wardooni of the Virgin Mary Church in Baghdad told RFI that "it is difficult to ask members of Iraq's minority groups to stay in the absence of stability, security, jobs, and the rule of law." The cleric said "we know that our people and all Iraqis who flee the country encounter hardships in the host countries, but many of them argue that there is at least peace and stability."
Christians, Yazidis, and other religious minorities in Iraq have often been the target of bomb attacks and other violence by Islamic insurgent groups. The UNHCR estimates that since 2003, some 250,000 to 500,000 Christians -- about half the total number in Iraq -- have left the country.

Iraq: Il nemico invisibile.I cristiani a Mosul: parla il loro arcivescovo

By SIR

Venerdi 25 Giugno 2010
Risale al 2 maggio l’ultimo grave attacco contro la comunità cristiana di Mosul. Quel giorno un convoglio di bus che trasportava studenti cristiani dal villaggio di Qaraqosh all’università di Mosul fu oggetto di un attentato terroristico che provocò diversi morti e oltre 150 feriti. Nonostante siano passati circa due mesi senza particolari violenze non si può certo dire che la comunità cristiana di Mosul viva giorni tranquilli almeno a sentire le parole dell’arcivescovo caldeo della città, mons. Emil Shimoun Nona, che il SIR ha intervistato.
“Ogni giorno – dice – dobbiamo fronteggiare quel nemico invisibile che è la paura”.
Mons. Nona, si può parlare di situazione migliorata per i cristiani di Mosul?
“La situazione negli ultimi due mesi si è un po’ calmata, non registriamo particolari episodi di violenza contro i cristiani. Tuttavia la sensazione è sempre quella di essere nel mirino di qualcuno, non sappiamo di chi e perché, che vuole farci del male. La paura di essere colpiti in ogni momento resta elevata”.
Come reagisce la comunità cristiana locale a questa pressione che di fatto la blocca in ogni iniziativa e attività anche quotidiana?
“La paura continua è un nemico invisibile con cui siamo costretti a convivere. Essa instilla il dubbio verso tutti e tutto, verso ogni persona che incontriamo al punto da temere che ci possa far male da un momento all’altro. Passerà molto tempo prima che questa paura cessi del tutto”.
Avete supporto e protezione dalla Polizia e dall’Esercito?
“I luoghi frequentati dai cristiani, come le chiese, sono controllate e protette. Ora più che in passato proprio per il fatto che la situazione è un po’ più calma e per non rischiare di ripiombare nella violenza. Rischio che non è mai cessato del tutto”.
Questa calma relativa sta spingendo le famiglie cristiane fuggite per la violenza da Mosul a fare rientro in città?
“Difficile fare stime, certamente molte famiglie sono tornate. Tuttavia c’è anche chi non fa più rientro preferendo emigrare direttamente all’estero e sono quelli che hanno maggiori possibilità economiche o maggiore istruzione come medici, professionisti e professori. A restare sono le famiglie più povere quelle che hanno maggiormente bisogno di aiuto e sostegno. Questo pone delle difficoltà anche sul piano pastorale avendo una comunità sempre più piccola e a tratti scoraggiata. Oggi a Mosul città ci sono circa 1.000 famiglie cristiane per un totale di poco meno di 5.000 fedeli. Nella diocesi intera le famiglie salgono a circa 3.500 per arrivare a circa 10 mila cristiani. Prima eravamo più del doppio”.
Ad alimentare questa situazione è anche l’assenza di un nuovo governo a circa 4 mesi dal voto del 7 marzo?
“Il vuoto di potere certamente non aiuta la popolazione e non solo quella cristiana. L’Iraq ha estremo bisogno di stabilità. Il vuoto si riflette anche nelle varie province che non hanno la forza di governare, di garantire la sicurezza e i servizi di base necessari alla vita di tutti i giorni, come l’erogazione dell’elettricità, per esempio”.
È di questi giorni la notizia che il premier al-Maliki ha accettato le dimissioni del ministro dell’Elettricità, nell’occhio del ciclone per le interruzioni di corrente che privano gli iracheni dell’aria condizionata e dell’acqua durante l’afa estiva…
“Quello dell’elettricità è un problema grave per gli iracheni. In questa stagione c’è un caldo opprimente che tocca anche i 45°. L’elettricità viene erogata solo per 6-8 ore nell’arco della giornata quindi le famiglie sono costrette a ricorrere a dei generatori o ad acquistare energia elettrica da chi ne possiede con molte speculazioni sul costo della corrente. Il che è incredibile se pensiamo che l’Iraq è un Paese ricco di risorse e di petrolio i cui proventi potrebbero garantire benessere a tutti”.
Da pastore come vive e affronta questa realtà così difficile?
“Incoraggiando i miei fedeli a mantenere la fede e la speranza. Per due anni sono stati senza vescovo, a causa della morte avvenuta durante il suo rapimento di mons. Paulos Farahj Raho, ed hanno vissuto un periodo molto duro. Ho scelto di vivere in città con loro e questa presenza è motivo di coraggio e di speranza”.
Eccellenza, ha paura per se stesso, usufruisce di una scorta?
“No, non ho paura. Vivo nella curia e mi muovo quando c’è da andare per qualche evento o incontro. Non ho una scorta ma adotto delle precauzioni, quando esco cerco di dare il meno possibile nell’occhio affidandomi a Dio”.

16 giugno 2010

Iraq: premio Bellisario 2010 al ministro cristiano per i diritti umani

By SIR

Il prossimo 18 giugno a Roma, nel corso di una cerimonia, verrà consegnato alla signora Wijdan Mikha’il Salim, ministro dei Diritti umani dell’Iraq, il premio “Marisa Bellisario”, per la sezione “Internazionale”. La “Mela d’oro”, simbolo del premio, è il riconoscimento che ogni anno premia le donne che si sono distinte nella professione, nel management, nella scienza, nell'economia e nel sociale a livello nazionale ed internazionale. L’edizione 2010, la XXII della serie, ha come titolo “Donne: motore dello sviluppo”.
Wijdan Mikha’il Salim fu nominata Ministro dei Diritti Umani nel 2006. Laureata in ingegneria civile a Baghdad ha iniziato la carriera politica nel 2003 e nelle elezioni del 2005 è stata eletta nella lista di Iyad Allawi. In una nota verbale dell’ambasciata italiana in Iraq, rilanciata dal sito Baghdadhope, si legge che “il premio alla Ministro rappresenta un riconoscimento per l’impegno del governo iracheno nel campo dei diritti umani a dispetto delle difficoltà”. Rispetto per i diritti umani che tocca la Signora Salim anche perché di fede cristiana e quindi membro di quella minoranza che, secondo quanto da lei stessa dichiarato nel 2009 durante una visita in Svizzera, avrebbe bisogno di una legge di protezione speciale”.

Giordania, Avsi-Caritas e Dgcs sostengono i profughi iracheni


Scolarizzazione per 160 bambini tra i sei e i 16 anni, corsi di formazione professionale per 95 adulti e assistenza sanitaria a più di 1.600 persone: questi i risultati dell’intervento “Sostegno alle condizioni di vita degli ospiti iracheni più vulnerabili nella regione di Zarqa e Irbid” svolto da Avsi in collaborazione con Caritas Giordania e con fondi di emergenza della direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo (Dgcs) della Farnesina. AVSI, presente in Giordania dal 2002 con il sostegno a distanza (circa 360 bambini sostenuti) e dal 2003 con un progetto a sostegno dei disabili attraverso l’uso di nuove tecnologie svolto in collaborazione con Undp (il fondo per lo sviluppo delle nazioni Unite), ha voluto tentare questa nuova esperienza con i profughi iracheni sotto la spinta della Cooperazione italiana. Si stima che gli iracheni in Giordania siano circa 350 mila e non sono riconosciuti come profughi dal governo di Amman. Questo fatto ha comportato, e comporta tuttora, problemi non trascurabili: fino a due anni fa i bambini iracheni non potevano nemmeno essere iscritti alle scuole pubbliche giordane e di conseguenza sono rimasti indietro nei curricula scolastici.
A complicare la situazione c’è poi il fatto che molte famiglie irachene hanno abbandonato il proprio paese ritrovandosi d’un tratto da una situazione di relativo benessere ad una di totale insicurezza economica e lavorativa. Gli iracheni in Giordania, infatti, non possono lavorare regolarmente se non hanno un permesso di soggiorno, e non possono avere un permesso di soggiorno se non hanno un lavoro. Molti giovani hanno persino conseguito una laurea in Iraq, che però ora rimane non spendibile. “Il progetto ha voluto affrontare proprio queste difficoltà. L’ottima collaborazione con l’ufficio della Cooperazione Italiana di Amman - afferma Simon Suweis, rappresentante di Avsi in Giordania – ha permesso di approfondire i rapporti di Avsi con le organizzazioni presenti sul territorio nonché con le agenzie internazionali, come Unicef (l’agenzia Onu per i bambini) e Unhcr (l’Alto commissariato per i rifugiati), e con il governo giordano permettendo una buona riuscita dell’intervento”.
Alcune storie di successo testimoniano l’importanza del progetto e raccontano di come bambini in difficoltà siano riusciti, proprio grazie a questo intervento, a superare gli ostacoli, non solo scolastici, ma anche comportamentali. Alcuni di loro hanno vissuto le atrocità della guerra o della persecuzione, ma grazie al progetto hanno riacquistato fiducia in se stessi. Il miglioramento di questi ragazzi è dato dalla dedizione e dall’attenzione che insegnati e personale Avsi rivolgono loro, proprio come si comprende leggendo la storia di Hussein, uno studente di terza elementare presso la St. Joseph School di Zarqa. Ragazzo testardo e talvolta aggressivo, non rispettava gli altri compagni e nemmeno riusciva a comunicare con qualcuno. La vicinanza e l’attenzione dedicatagli dagli insegnanti e dal personale implicato nelle attività del doposcuola sono state decisive. Le insegnanti preparavano lezioni che lo coinvolgessero il più possibile, trattando di argomenti che lo interessassero, mentre i volontari della Caritas lo hanno seguito con particolare attenzione durante le giornate ricreative fuori porta.
Con il passare del tempo, Hussein ha cominciato a cambiare atteggiamento, è diventato più rispettoso e comunicativo, partecipando alle lezioni o facendo i compiti. Da questa vicenda anche gli stessi insegnanti hanno imparato molto: sono rimasti colpiti dai cambiamenti di Hussein e dalla scoperta del suo bisogno di potersi raccontare e condividere le difficoltà vissute in Iraq. Il programma di Avsi in collaborazione con Caritas Giordania ha coinvolto l’intera famiglia irachena cercando di essere il più possibile completo, partendo da un programma di educazione: un mese di scuola estiva con attività ricreative e giochi, e quattro mesi di doposcuola, corsi di recupero di matematica, arabo, inglese, e attività culturali nelle scuole del Patriarcato Latino di Zarqa e Hoson. Le attività del doposcuola a Zarqua, ad esempio, hanno contribuito ad un cambiamento che ha coinvolto studenti, insegnati e anche genitori. Hind Asad, una ragazza irachena di 14 anni, non sapeva né leggere né scrivere quando ha cominciato il corso. La ragazza è stata seguita per questi due mesi dall’insegnante Najla’, che scoprendo la sua passione per il disegno, l’ha aiutata a migliorare il suo livello di istruzione permettendole di frequentare la quinta elementare, la classe successiva. In più, viste le difficoltà con i propri genitori, Hind ha chiesto alla stessa insegnante di incontrarli e parlare con loro così da far loro capire l’importanza dell’educazione.
Il programma per gli adulti prevedeva, invece, l’attivazione di quattro corsi di formazione professionale presso quattro diversi centri di formazione: disegno grafico, cucito e cultura generale, manutenzione di computer, manutenzione generale, come carpenteria, meccanica, idraulica, muratura. Infine sono state effettuate visite mediche, dentistiche, cure di emergenza, consegnati medicinali alle famiglie irachene più bisognose grazie al supporto e all’esperienza di Caritas che ha cliniche in tutta la Giordania e collabora con gli ospedali locali. Al termine del progetto sono state organizzate due feste conclusive, una a Hoson ed una a Zarqa, alle quali sono stati invitati alcuni beneficiari, bambini, giovani e familiari, e diverse autorità. Ad Hoson il responsabile dell’ufficio di Amman della Cooperazione Italiana, Amjad Yaqaba ha consegnato i certificati di frequenza agli insegnanti e alle 20 donne che hanno seguito il corso di formazione di cucito. Alla cerimonia conclusiva di Zarqa, oltre al personale dell’ufficio della Cooperazione Italiana, era presente l’ambasciatore italiano in Giordania, Francesco Fransoni, che dopo aver ascoltato i canti e le poesie preparati dai bambini, ha elogiato Avsi e Caritas per il lavoro svolto e ha consegnato i certificati di frequenza. Alla stessa cerimonia erano presenti anche rappresentanti dell’Unhcr, dell’Unicef e il segretario generale del ministero dello Sviluppo sociale di Amman.
Al momento Avsi sta cominciando un nuovo intervento simile, a supporto dei rifugiati iracheni di fede cristiana in altre zone della Giordania (downtown di Amman e dintorni). L’iniziativa è finanziata dal Pontificio consiglio Vaticano Cor Unum e affronterà le stesse tematiche di educazione, formazione professionale e assistenza sanitaria sviluppando e approfondendo l’esperienza acquisita e puntando soprattutto sull’educazione della persona, su attività generatrici di reddito per le famiglie e sulla riscoperta del cristianesimo tra i popoli del Medio Oriente, per favorire la pace e il dialogo.

Sinodo Medio Oriente: Mons. Sako (Kirkuk) "serve il coraggio di parlare chiaro"

By SIR

“Un lavoro ben preparato in quanto si è tenuto conto di tutte le risposte giunte dal clero, dai religiosi e dai vescovi della regione. Tuttavia, il testo da solo non basta per garantire l’efficacia e la concretezza del lavoro sinodale”. Mostra ottimismo condito da una buona dose di realismo, mons. Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, che in un’intervista al SIR (leggi), commenta l’“Instrumentum laboris” del Sinodo dei vescovi per le Chiese in Medio Oriente pubblicato lo scorso 6 giugno a Cipro da Benedetto XVI. Una convocazione, quella del Sinodo di ottobre 2010, che lo stesso mons. Sako chiese di persona al Papa nel corso della visita ad limina dei vescovi caldei del gennaio 2009. Il rischio paventato dall’arcivescovo di Kirkuk è che “alle parole dell’‘Instrumentum’ potrebbero aggiungersene altre ancora da parte dei vescovi” se questi, nel corso dei lavori non avranno “il coraggio di parlare chiaro. I problemi descritti nel documento, come per esempio l’emigrazione, la libertà religiosa, la pace, il dialogo e l’ecumenismo, devono essere affrontati con coraggio, ricercando iniziative concrete per promuovere, in primis, la nostra comunione che è debole. Ogni chiesa – afferma il vescovo caldeo – lavora per se stessa”.
Per muovere passi in avanti e garantirsi il futuro, le Chiese del Medio Oriente devono trovare “modalità nuove di testimonianza dei valori cristiani. Il mondo islamico, almeno quello moderato, si attende qualcosa da noi in termini di una presenza responsabile. Nelle nostre Chiese, e l’‘Istrumentum laboris’ lo riconosce, la tensione missionaria si è affievolita. Dobbiamo riaccenderla ma per arrivare a questo risultato occorre ricercare la comunione e l’unità. Senza di queste – spiega mons. Sako – non c’è futuro per i cristiani in Medio Oriente. La Chiesa mediorientale deve rinnovarsi per testimoniare ai fedeli delle altre religioni i valori evangelici”. Per questo motivo “serve una pastorale comune, in lingua araba”. Nell’intervista (leggi) mons. Sako tocca anche altri temi, la liturgia, l’emigrazione dei cristiani che si può frenare “aiutandoli a riscoprire la loro vocazione e identità” promuovendo anche un “un maggiore impegno sociale”. Circa il futuro per le Chiese del Medio Oriente l’arcivescovo nutre speranza anche se “con realismo devo dire che se anche dopo questo Sinodo non riprenderemo il cammino missionario, allora la presenza cristiana è a rischio”.

Synod for the Middle East: Mgr. Sako (Kirkuk) "we need the courage to speak up"

By SIR

"A well-prepared job, since it covers all the answers from the clergy, the religious people and the bishops of the region. However, the text alone is not enough to ensure the synod’s work will be effective and concrete”. Optimism spiced up with a good dose of realism is expressed by mgr. Louis Sako, Chaldean archbishop of Kirkuk, who, in an interview with SIR, comments the “Instrumentum laboris” of the Episcopal Synod for the Churches of the Middle East, published in Cyprus on June 6th by Benedict XVI. A call, that of the October 2010 Synod, which mgr. Sako himself asked for personally to the Pope during the visit ad limina of the Chaldean bishops in January 2009.
The risk feared by the archbishop of Kirkuk is that “the words of the ‘Instrumentum’ might be added to more words from the bishops”, if, during the synod, they do not have “the courage to speak up. The problems described in the document, such as emigration, religious freedom, peace, dialogue and ecumenism, must be faced bravely, in the attempt to find concrete measures to promote, first and foremost, our communion, which is weak. Every church – the Chaldean bishop states – works for itself”.
To make progress and have a future, the Churches of the Middle East must find “new ways to testify the Christian values. The Islamic world, at least the moderate one, expects something of us, in terms of a responsible presence. In our churches, and the ‘Istrumentum laboris’ acknowledges this, the missionary tension has faded. We have to rekindle it, but, to do this, we need to pursue communion and unity. Without them - mgr. Sako explains – there is no future for Christians in the Middle East. The Middle Eastern Church must be renewed and testify the evangelical values to the devotees of the other religions”. That’s why “we need a common pastoral care, in the Arabic language”. In the interview, mgr. Sako also touches on other issues, such as the liturgy, the emigration of Christians that may be curbed “by helping them rediscover their call and identity” and promoting “greater social commitment”. As to the future of the Churches of the Middle East, the archbishop is hopeful, even if “I must be realistic and say that if, even after this Synod, we do not resume our missionary path, then the Christian presence is endangered”.

13 giugno 2010

Ordinazione episcopale in Iraq: Mons. Yousef B. Habash

By Baghdadhope*

Fonte della notizia e delle foto: Ankawa.com

Lo scorso 12 aprile il Santo Padre Benedetto XVI aveva dato il suo assenso alla nomina del parroco della chiesa siro cattolica del Sacro Curo di Gesù a Los Angeles (USA), Mons. Yousef B. Habash, a vescovo della diocesi di Our Lady of Deliverance di Newark per i fedeli residenti negli Stati Uniti ed in Canada la cui sede era vacante dal 17 febbraio dell’anno precedente da quando Mar Ignatius Joseph III Younan era stato intronizzato in Libano come nuovo patriarca della chiesa.
L’11 giugno a Bakhdida (Qara Qosh), suo villaggio natale, si è svolta la
cerimonia di ordinazione di Mons. Habash nella chiesa dell’Immacolata.
La cerimonia, che ha visto una grande partecipazione di fedeli e prelati, è stata presieduta da Mar Ignatius Yousef III Younan che dall’8 al 14 di giugno ha compiuto la sua
seconda visita apostolica in Iraq durante la quale ha anche incontrato gli studenti che all’inizio di maggio sono stati vittime di un attentato contro il convoglio di autobus che ogni giorni li porta a Mosul per i corsi universitari ed ai quali ha ricordato come i giovani rappresentino il futuro della chiesa che ha in essi fiducia.
Per la chiesa siro cattolica oltre al Patriarca c’erano Mons. Mikhail Jamil, procuratore presso la Santa Sede e visitatore apostolico in Europa, Mons. George Alqas Musa, vescovo di Mosul, Mons. Atanase Mati Shabi Matoka, vescovo di Baghad e Mons. Rabula Antoine Beylouni, Arcivescovo Emerito di Aleppo dei Siri e Titolare della sede di Mardin. Per la chiesa siro ortodossa era presente il vescovo di Mosul Mons.Gregorius Saliba Chamoun e per quella caldea Mons. Louis Sako (Kirkuk), Mons. Rabban Alqas (Amadhiya), Mons. Bashar Warda (Erbil) e Mons. Emil Nona (Mosul).
Mons. Habash ha partecipato il giorno dopo la sua ordinazione ad una Santa Messa nella chiesa di Mar Benham e Sara sempre a Bakhdida.

Episcopal ordination in Iraq: Msgr. Yousef B. Habash

By Baghdadhope*

Source of news and photos: Ankawa.com

On April 12 the Holy Father Benedict XVI gave his consent to the appointment of the parish priest of the Syriac Catholic Church of the Sacred Heart of Jesus in Los Angeles (USA), Msgr. Yousef B. Habash, as bishop of the Diocese of Our Lady of Deliverance in Newark for the faithful in the United States and Canada the see of which was vacant since February 17 of the previous year since Mar Ignatius Joseph III Younan was enthroned in Lebanon as the new patriarch of the church.
On June 11 in Bakhdida (Qara Qosh), the new bishop’s hometown, took place the ceremony of his ordination in the church of the Immaculate. The ceremony, that saw a large participation of faithful and clergy, was presided over by Mar Ignatius Yousef III Younan who, from 8 to 14 of June, made his second apostolic visit to Iraq during which he also met some of the students who, in the beginning of May, were victims of an attack to the convoy of buses that each day brings them to Mosul for university courses and to whom he remembered as young boys and girls represent the future of the church that trusts in them.
For the Syriac Catholic Church besides its Patriarch there were Msgr. Mikhail Jamil, procurator to the Holy See and Apostolic Visitor in Europe, Msgr. George Alqas Musa, bishop of Mosul, Msgr. Atanase Mati Shaba Matoka, bishop of Baghdad and Msgr. Rabula Antoine Beylouni, Archbishop Emeritus of Alep of Syria and Titular Archbishop of Mardin. For the Syriac Orthodox Church there was the bishop of Mosul Msgr. Gregorius Saliba Chamoun and for the Chaldean Church there were Msgr. Louis Sako (Kirkuk), Msgr. Rabban Alqas (Amadhiya), Msgr. Bashar Warda (Erbil) and Msgr. Emile Nona (Mosul). The day after his ordination Msgr. Habash attended a Mass in the church of Mar Benham and Sara in Bakhdida.

11 giugno 2010

Cristiani nel mirino

By Ilsussidiario.net venerdì 11 giugno 2010

di Mario Mauro

Ci sono ormai pochi dubbi sul fatto che l’omicidio di Monsignor Padovese abbia una matrice fondamentalista. La chiesa turca, per bocca di Monsignor Ruggero Franceschini, arcivescovo latino di Smirne, ha addirittura bollato l’ipotesi della malattia mentale dell’assassino come una “pia bugia”, raccontata per ottenere uno sconto sulla pena. O peggio per nascondere i mandanti, che hanno come scopo la destabilizzazione del paese.
È un’usanza ormai consolidata in tutto il mondo quella di uccidere i cristiani per destabilizzare una comunità. Accade in Iraq come in Pakistan, Indonesia, Egitto o Somalia. In tutti i continenti, a qualunque latitudine.
Viene allora da chiedersi, come ha fatto ieri sulle pagine de Il Foglio il giornalista francese René Guitton, se davvero “serviva un altro omicidio islamista per denunciare l’orda dei cristianofobici?”. Di fronte a tali episodi, la Comunità internazionale ha il compito di assicurare a tutti, soprattutto alle minoranze, di esprimere liberamente il proprio credo in nome di quegli ideali di pace e di giustizia su cui si fondano le nostre società.
E invece, la stessa comunità internazionale, con la complicità delle numerose lobby laiciste che dirigono la maggioranza dei mezzi di informazione, si chiude puntualmente nel silenzio ipocrita di chi sembra infastidito dalla verità, dal fatto che oggi, nel mondo, essere cristiani significa convivere quotidianamente con la paura, o spesso con la certezza di morire a causa del proprio credo.
I numeri dicono che siamo di fronte a un dramma che sembra non avere freni. Dall’inizio del nuovo millennio Fides, l’agenzia di notizie vaticana, conta 263 uccisioni di vescovi, preti, suore, seminaristi e catechisti.
I luoghi del loro martirio coprono tutti e cinque i continenti, Europa compresa (è il caso di Don Robert De Leener, ucciso a Bruxelles il 5 maggio del 2005 a motivo della sua caritatevole accoglienza nei confronti degli immigrati). Quel che preoccupa non è solo la vasta diffusione del fenomeno, ma la sua costante crescita. L’annuale lista di Fides stima per l’anno 2009 37 omicidi causati dall’odio anticristiano, quasi il doppio di quelli avvenuti nel corso del 2008.
Le violenze subite dai cristiani nel mondo rappresentano una ferita e una sfida contemporanea alla dignità della persona. Occuparsi della libertà religiosa dei cristiani, allora, vuol dire innanzitutto affrontare una grave emergenza del nostro tempo, soprattutto perché è evidente come la democrazia, termine di cui tutti oggi si riempiono la bocca impropriamente, non può fare a meno del contributo del cristianesimo.
Ce lo fa capire molto bene Louis Sako, arcivescovo di Mosul, in Iraq, dove i cristiani sono da anni un capro espiatorio tra le mille fratture sociali e politiche: “Non esiste uno Stato, una patria e le divisioni settarie sono un dato evidente. Ai cristiani non interessano i giochi di potere, l’egemonia economica, ma la creazione di uno Stato in cui le diverse etnie possano convivere in modo pacifico”.
Non si tratta quindi di difendere persone che hanno la mia stessa fede. Non sono rivendicazioni “sindacali”. Difendere i cristiani perseguitati significa combattere per la libertà e per la dignità di tutti i popoli e di tutti gli uomini.

10 giugno 2010

A Roma il clero orientale prega per la chiusura dell'anno sacerdotale

By Baghdadhope*


Oggi, alle ore 17.00 nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, ora divenuto Santuario della Divina Misericordia, una preghiera suggellerà la chiusura dell'Anno Sacerdotale.

Interverranno tutti i vescovi ed i sacerdoti orientali e latini dei territori di competenza della Congregazione per le Chiese Orientali.
Alla preghiera seguirà, nel vicino palazzo della Congregazione, un saluto ai partecipanti da parte del suo prefetto Cardinale Leonardo Sandri.

Un Papa potrà mai pregare ad Ur, la città dove nacque Abramo?

By Baghdadhope*

Fonti: Bakhdida.com, 30 giorni, Rainews24,
Corriere della sera, Dalla diocesi di Babilonia dei Latini e delegazione apostolica di Mesopotamia, Kurdistan e Armenia Minore alla Nunziatura apostolica in Iraq, Osservatore Romano, Alqabas.com, APcom, ADNkronos

Mons. Mikhail Jamil, Procuratore della chiesa siro cattolica presso la Santa Sede e visitatore apostolico in Europa, nel marzo del 2009 nel corso di un’intervista alla radio “La voce della pace e della sovranità” che trasmette da Baghdida (Qaraqosh)
aveva ventilato l’ipotesi di una visita papale in Iraq parlando del desiderio dell’attuale pontefice di realizzare quello che era stato l’analogo desiderio del suo predecessore di visitare Ur dei Caldei, la città natale del profeta Abramo.
Un viaggio, quello di Giovanni Paolo II, di cui, come ben spiegò Marco Politi in
30giorni, si era iniziato a parlare nel 1998 quando il pontefice aveva dichiarato che sarebbe stato bello viaggiare sulle “orme di Abramo.”
Nel giugno di quell’anno il cardinale Roger Etchegaray aveva preso parte a Baghdad ad una conferenza delle chiese cristiane organizzata dall’allora patriarca caldeo Mar Raphael Bidawid che aveva come scopi richiedere la fine dell’embargo imposto all’Iraq dopo la guerra del Golfo e rafforzare il dialogo cristiano-islamico. In quella occasione il cardinale Etchegaray ebbe modo di parlare dell’eventuale visita papale con il vicepremier iracheno, il cristiano Tareq Aziz e con il ministro degli esteri Mohammed Saeed al-Sahhaf. In realtà l’invito a visitare Ur dei Caldei era già stato rivolto al pontefice dallo stesso Saddam Hussein e di esso era stato latore Tareq Aziz durante la sua visita in Vaticano nel
maggio dello stesso anno.
A gettare acqua sul fuoco dell’entusiasmo del patriarca caldeo che si era detto certo della volontà del pontefice di giungere in Iraq nel corso del 1999 fu, da subito, il portavoce vaticano Joaquín Navarro Valls che pur dichiarando come l’idea non abbandonasse la mente del Santo Padre definì il viaggio come “difficile da organizzare.”
In effetti non erano pochi gli ostacoli da superare e tra essi l’embargo cui l’Iraq era sottoposto dal 1990 che aveva già fatto centinaia di migliaia di vittime specialmente nelle fasce più deboli della popolazione e contro il quale si era schierato il Vaticano giudicandolo come ingiusto e moralmente insostenibile.
Una visita del papa non avrebbe fatto altro che attirare l’attenzione del mondo più che sui reati del regime sulle orribili condizioni della popolazione e certo ciò non avrebbe fatto comodo alle Nazioni Unite che ancora, seppure ormai con qualche dubbio, consideravano l’embargo un sistema di controllo efficace sul regime e la sua volontà di riarmarsi ma che, allo stesso tempo,
non avrebbero potuto opporsi al desiderio del capo della cristianità.
Come spiegato però da Luigi Accattoli sul
Corriere della Sera del 2 ottobre 1999 ad interferire con i desideri vaticani fu anche la presa di posizione dello stesso regime iracheno espressa da una nota dell’agenzia di stampa INA (Iraqi News Agency) che il 29 settembre di quell’anno pubblicò una lettera aperta dal titolo e dal contenuto polemico:"Intellettuali iracheni mandano una lettera in risposta a una lettera della Chiesa sulla visita del Papa in Iraq, Sinai e Palestina".
Partendo da considerazioni storiche tese a rivendicare l’appartenenza esclusiva di Abramo al mondo islamico in quanto "primo dei veri credenti, il primo dei musulmani che hanno creduto in Allah, unico e solo Dio, e l'antenato degli arabi. Nato nella terra degli arabi e vissuto in Iraq, soprattutto a Ur, la città' sumera" la lettera si concentrava poi sulla eventuale visita del papa chiedendo come si sarebbe comportato il pontefice davanti alle sofferenze, alla fame ed alle malattie dei bambini, delle donne e degli anziani di cui ben conosceva la gravità.
Ma soprattutto se ciò sarebbe stato importante o se la visita avrebbe avuto solo natura religiosa perché: “Se la religione non si pone il fine di migliorare la vita delle persone, chi mai se ne farà' carico? Il nostro popolo arabo e musulmano e' convinto che se la visita del Papa non comprende questo, andrà contro i fatti della storia e della fede.”

La visita tanto attesa dagli iracheni cristiani fu annullata e per anni si susseguirono le ipotesi sul perché della sua cancellazione.
Se Mons. Fernando Filoni, Nunzio apostolico in Iraq dal 2001 al 2006 scrive nel suo libro “Dalla diocesi di Babilonia dei Latini e delegazione apostolica di Mesopotamia, Kurdistan e Armenia Minore alla Nunziatura apostolica in Iraq” (Ed. Stella d’Oriente – Baghdad – 2006) che il rifiuto opposto al viaggio papale da parte dell’Iraq “fu un atto diplomaticamente poco accorto, di miopia storica e manifesta paura del regime” il Cardinale Roberto Tucci, all’epoca organizzatore dei viaggi papali all’estero, nel dicembre 2009 dichiarò in un’
intervista all’Osservatore Romano: “Altra delusione fu il fallimento del viaggio che il Papa voleva fare in Iraq dopo la guerra del Golfo. Ricordo che raggiungemmo una base militare in aereo in piena notte. Poi sei ore di macchina sino a Baghdad. Siamo stati tre giorni a discutere con due vice-ministri degli Esteri, i quali sostenevano che il Papa non aveva capito niente, perché Abramo era musulmano. Alla fine ci dissero che il Papa nella terra di Abramo, cioè nel sud dell'Iraq, ai confini con l'Iran, avrebbe rappresentato un rischio molto serio per possibili attentati, dei quali avrebbero poi incolpato gli iracheni. Dunque bisognava riflettere molto prima di prendere una decisione. Allora sconsigliai il viaggio.”

In questi giorni però il tema di un’eventuale visita del nuovo pontefice in Iraq sta tornando alla ribalta.
Dopo l’annuncio fatto da Mons. Jamil a marzo del 2009 nell’ottobre successivo l’APcom riportò la
notizia ripresa dal quotidiano iracheno Al Sabah secondo la quale
il presidente della giunta regionale del governatorato di Dhi Qar, Qusai al Abbadi, da poco tornato da una visita in Vaticano, avrebbe consegnato al papa l'invito rivoltogli dal Consiglio regionale della provincia di Dhi Qar da lui stesso presieduto a visitare Ur, e che un alto prelato della Santa Sede gli avrebbe riferito che "il Santo padre ha accettato l'invito e visiterà Dhi Qar nel prossimo futuro".
All’invito rivolto da Al Abbadi ha fatto eco negli scorsi giorni quello di Talib Al Hasan, governatore della provincia di Dhi Qar, che lo ha esteso alla comunità irachena cristiana ricordando l’importanza di Ur, città natale di Abramo, mentre un funzionario del governatorato ha
spiegato, come riferito dal sito Alqabas.com, che una eventuale visita di Benedetto XVI dimostrerebbe il grado di sicurezza raggiunto nell’area e favorirebbe gli investimenti stranieri, soprattutto nel campo del turismo.
In un’
intervista rilasciata alla sezione in lingua araba dell’agenzia ADNkronos il 7 giugno Qusai al Abbadi ha poi addirittura specificato i termini dell’eventuale visita che dovrebbe essere coordinata dai ministeri degli interni, della difesa e della sicurezza nazionale ed avere la collaborazione delle truppe americane di stanza nella vicina base aerea di Tallil.
Ed è sempre ADNkronos a riferire le parole di Mons. Mikhail Jamil secondo il quale anche il presidente iracheno Jalal Talabani, il primo ministro Nuri Al Maliki ed il presidente della regione curda Massoud Barzani hanno invitato Benedetto XVI a visitare l’Iraq e che la proposta sarebbe “sul tavolo del pontefice” per essere valutata.


Sempre più voci, insomma, si levano perché il Papa si rechi in Iraq. Certo, come già diceva nel 1998 Joaquín Navarro Valls è un viaggio “difficile da organizzare.”
All’insicurezza che ancora ferisce l’Iraq nonostante le rassicuranti parole che arrivano dalla provincia di Dhi Qar si aggiungono altri ostacoli.
Un Iraq tuttora dilaniato da lotte intestine che non permettono neanche di formare un governo a tre mesi dalle elezioni e che dovrebbe finalmente fare i conti con chi, in questi anni, ha violentemente colpito la comunità cristiana riducendone drasticamente il numero.
Il lento e silenzioso abbandono del paese da parte delle truppe USA che stanno sì riducendo i loro effettivi ma ne manterranno “in situ” molti altri nelle enormi basi già preparate e la cui amministrazione avrebbe tutto l’interesse a non far di nuovo puntare i riflettori su un paese che si vuole “normalizzato.”
La stessa comunità cristiana che potrebbe considerare una tale visita pericolosa per la sua sopravvivenza in considerazione dell’essere stata già fin troppe volte associata ai “crociati” e considerata la loro “quinta colonna” nel paese che, invece, l’ha vista sua popolazione autoctona da prima dell’avvento dell’Islam.

Eppure è bello sognare un Iraq dove tutte le religioni possano trovare il proprio spazio. Dove il turismo religioso possa, in futuro, rappresentare una voce del bilancio dello stato anziché una possibile ragione di violenza.
Forse un giorno per gli italiani la città di Nasiriyah non sarà più solo il luogo della morte di 19 connazionali, ma anche la città da cui partire per un pellegrinaggio che iniziando da Ur dei Caldei li porterebbe alla ricerca delle radici che anche per i cristiani partono dai luoghi che Abramo guardò per l’ultima volta prima di volgere il passo verso est.

8 giugno 2010

Christmas according to Gregorian calendar for the Ancient Church of the East. Historical decision.

By Baghdadhope*

Source: Ankawa.com

During the synod of the Ancient Church of the East held in late April of last year its patriarch, Mar Addai II, stated that one of the synodal discussion was going to be the possible adoption of the Gregorian calendar for the celebration of Christmas instead of the Julian one, and that the faithful could express their opinion about it.
The response of the faithful arrived, and the percentage of those who thought it appropriate to bring forward the date of the celebration of Christmas (that in the Julian calendar falls on Jan. 7) was of 92% as reported by the document by which the Patriarchate formalized the change on June 5.
The reasons cited by the Patriarchate are the needs of the faithful living in countries where the Gregorian calendar is followed by the majority and the desire to take a step towards the unity of the Church of Christ The adoption of the Gregorian calendar in 1964 by Mar Eshai Shimun XXIII, Patriarch of the Church of the East (today the Assyrian Church of the East) instead of the Julian calendar was one of the reasons for the conflicts that caused a schism in 1968 that led to the creation of the Church of the East led by Mar Thoma Darmo to whom only a year after succeeded the young Patriarch Mar Addai II still leading the Church.
The decision of June 5 wiped out that contrast even if only partially as, as already announced in the synod, the Julian calendar remains valid for the other liturgical celebrations of the Ancient Church of the East.

Natale secondo il calendario gregoriano per la Chiesa Antica dell'Est. Decisione storica.

By Baghdadhope*

Fonte: Ankawa.com

Durante il sinodo dell'Antica Chiesa dell'Est tenutosi alla fine di aprile dello scorso anno il suo patriarca, Mar Addai II, aveva dichiarato che uno dei punti di discussione sinodale sarebbe stata la possibile adozione del calendario gregoriano per la celebrazione del Natale al posto di quello giuliano, e che i fedeli avrebbero potuto esprimere la propria opinione in proposito.
La risposta dei fedeli è arrivata, e la percentuale di coloro che hanno ritenuto opportuno anticipare la data della celebrazione del Natale (che nel calendario giuliano cade il 7 gennaio) è stata addirittura del 92% secondo quanto riportato dal documento del Patriarcato che lo scorso 5 giugno ha ufficializzato il cambiamento.
Nelle motivazioni citate dal Patriarcato le esigenze dei fedeli che vivono in paesi dove il calendario gregoriano è quello seguito dalla maggioranza ed il desiderio di compiere un passo in avanti verso l'unione della Chiesa di Cristo.
L'adozione nel 1964 del calendario gregoriano da parte di Mar Eshai Shimun XXIII, patriarca della Chiesa dell'Est (attuale chiesa Assira dell'Est) al posto di quello giuliano era stato uno dei motivi di contrasto che avevano causato nel 1968 uno scisma che portò alla creazione della Chiesa dell'Est guidata da Mar Thoma Darmo cui successe solo un anno dopo il giovanissimo patriarca Mar Addai II che ancora oggi la guida.
Con la decisione del 5 giugno questo contrasto è stato appianato, anche se solo parzialmente. Come già preannunciato nel sinodo infatti il calendario giuliano rimane valido per le altre ricorrenze liturgiche della Chiesa Antica dell'Est.

UNHCR cautions against European deportations to Iraq


Briefing Notes, 8 June 2010

This is a summary of what was said by UNHCR spokesperson Melissa Fleming – to whom quoted text may be attributed – at the press briefing, on 8 June 2010, at the Palais des Nations in Geneva.
UNHCR understands that four governments – the Netherlands, Norway, Sweden and the UK – are arranging an enforced removal of Iraqi citizens to Baghdad, Iraq later this week. We have not received confirmed information of the number and profile of those individuals and whether some have requested protection
Our position and advice to governments is that Iraqi asylum applicants originating from Iraq's governorates of Baghdad, Diyala, Ninewa and Salah-al-Din, as well as from Kirkuk province, should continue to benefit from international protection in the form of refugee status under the 1951 Refugee Convention or another form of protection depending on the circumstances of the case. Our position reflects the volatile security situation and the still high level of prevailing violence, security incidents, and human rights violations taking place in these parts of Iraq. UNHCR considers that serious – including indiscriminate – threats to life, physical integrity or freedom resulting from violence or events seriously disturbing public order are valid reasons for international protection.
UNHCR appreciates that the international protection needs of Iraqis are assessed by asylum authorities in Europe and elsewhere on an individual basis. We urge those authorities to ensure that the situation in Iraq as a whole, including the important level of lawlessness, is factored into their assessments. While some have proposed that returned Iraqis could reside in other parts of the country from where they originate, UNHCR's position is that no internal flight alternative exists in Iraq because of the on-going levels of violence in Baghdad, Diyala, Kirkuk, Ninewa and Salah Al-Din, and in view of access and residency restrictions in various governorates as well as the hardship faced by returnees in ensuring even survival in areas of relocation.
The continued insurgency in Iraq and on-going violence there has led to large scale internal and external displacement of the Iraqi population, with most refugees living in Syria and Jordan. UNHCR is concerned about the signal that forced returns from Europe could give to other host countries, particularly those neighbouring Iraq.

Kirkuk, ucciso un commerciante cristiano. Torna la paura fra i fedeli

By Asianews 8 giugno 2010

Nuovo omicidio mirato contro la comunità cristiana a Kirkuk, nel nord dell’Iraq. Ieri sera è stato assassinato a colpi di arma da fuoco un commerciante di 34 anni. Fonti locali riferiscono ad AsiaNews che “i cristiani sono ancora una volta obiettivo” di attacchi mirati e nella città si respira “un clima di insicurezza”.
Un testimone oculare racconta che “alle 9 di ieri sera è stato ucciso davanti la sua abitazione Hani Salim Wadi'”.
L’uomo era nato nel 1976, aggiunge la fonte di AsiaNews, era sposato e padre di una bambina. La vittima, un commerciante, era proprietaria di un negozio di telefonini in centro città. Al momento non sono chiare le motivazioni alla base dell’omicidio, ma i fedeli temono una nuova spirale di violenze contro la comunità. “Noi cristiani – denuncia la fonte – siamo ancora una volta obiettivo di attacchi”.
Il nord dell’Iraq – in particolare Mosul e Kirkuk – è da tempo teatro di attacchi mirati contro la comunità cristiana, al centro di una lotta di potere fra arabi, curdi e turcomanni. Da tempo i fedeli parlano di una persecuzione che prosegue nell’indifferenza generale. I cristiani sono convinti che “non si tratta di criminali normali” e che dietro agli attacchi ci sono “precisi piani politici”: la creazione di un’enclave cristiana nella piana di Ninive e il governo, centrale e provinciale, “non fa nulla per contrastarla”.

The killing of a Christian businessman in Kirkuk rekindles fear among Christians

By Asianews
8 giugno 2010

A member of the Christian community in Kirkuk, northern Iraq, was the victim of a new, targeted killing. Last night, a 34-year-old businessman was shot to death. Local sources told AsiaNews, “Christians are once more the target” of attacks. In the city, there is an “atmosphere of insecurity”.
An eyewitness said, “At 9 last night Hani Sali Wadi was killed in front of his house”.
Born in 1976, he was married with a daughter, the source told AsiaNews. He was a businessman and owned a mobile phone store in downtown Kirkuk.

At present, it is unclear why he was killed, but Christians fear the community might be in for a new wave of violence. “We Christians are once more targets of attacks,” the source lamented.

Northern Iraq, especially in Mosul and Kirkuk, has been the scene of targeted attacks against the Christian community for quite some time. The area is in the middle of a power struggle between Arabs, Kurds and Turkmen.

Christians believe they are being persecuted amid an atmosphere of general indifference.

They are convinced that attackers “are not common criminals” and that behind the attacks “are precise political plans”, namely the creation of a Christian enclave on the Nineveh Plains.

In their view, both central and provincial governments “are doing nothing to stop it”.

UN Says Plight Of Many Displaced Iraqis Worsens


By Diar Bamrni

By all reports, the security situation across Iraq has improved over the past two years.But as it has, the plight has worsened of many people who previously fled to other parts of Iraq to escape the violence.The UN refugee agency reported this week that the number of Iraqis living in squatters' camps -- the last stop for desperate families -- is now half a million.
That represents an increase of 25 percent in the past year, or about 100,000 people more than before.
The UNHCR says that many of the new squatters are internally displaced persons (IDPs) who may once have been able to rent rooms but now have run out of resources. "The situation of many IDPs is deteriorating, not on the security front, where it has stabilized in many areas, but [due to] the lack of access to employment, the lack of access to water, the lack of access to education, lack of land title, lack of documentation, problems with distribution of the [food rations]," Andrew Harper, head of the Iraq support unit for the UNHCR, tells RFE/RL's Radio Free Iraq.
"So, people in many instances are becoming increasingly vulnerable and you may have had people who are renting before who no longer can afford the rent and so they also may have had no choice but to move into public buildings or squat in certain locations."
Of the half million people in squatters' camps, an estimated 260,000 are in Baghdad. Like other such encampments across Iraq, the sites are often ad hoc settlements of previously vacant buildings that were looted after the U.S.-led invasion of Iraq in 2003. "There are no official IDP camps," Harper says. "They are very ad hoc collections of buildings, families may have occupied public buildings -- as you are probably aware in Iraq there are a lot of military and government installations which were looted after the fall of the previous regime and lay vacant, and so these types of complexes now accommodate tens of thousands of families."
The rise in the proportion of IDPs now living in desperate conditions comes as many others once displaced by fighting in Iraq have been able to return home with the improving security in the country. The UNHCR estimates the number of returnees in the hundreds of thousands. But the precise number is impossible to know because many local government agencies have kept poor track of the figures. Harper says that for this reason, the official number of displaced persons in Iraq remains at 1.5 million -- the level it reached at the height of sectarian violence in the country -- even though that figure is inaccurate. "The number 1.5 [million] is probably very high. It is an overestimation," Harper says. "What often happens is that you have a high point in displacement figures but then authorities often forget to reduce the figures when people start going back."He says that "at least a couple of hundred thousand Iraqis, probably many more," have returned to their homeland but are not reflected in the official figure. As the UNHCR warns this week of the worsening situation of those who remain displaced, the agency is seeking to highlight the necessity for donors to continue supporting Iraqi IDPs for months or even years to come. Harper says there is a danger that rising donor fatigue, mixed with hopes the Iraqi government can use its oil revenues to help the IDPs, could leave many IDPs increasingly vulnerable. "We appreciate that Iraq in the future will have oil revenues coming on line but at the moment it doesn't," Harper says. "But Iraq still needs assistance and the needs and challenges that it is confronting at the moment remain enormous."

Scientists uncover Iraq’s oldest church


By Shayma Adel June 7, 2010

A team of Iraqi archaeologists has unearthed what is believed to be the oldest church in the country built in the 2nd century A.D.
The church is situated close to the holy city of Karbala which was a Christian center before the coming of Islam to Iraq in the seventh century.
The site is known as al-Qusair and the first excavations there were conducted in 2009, according to Abdulzahara Talaqani, the spokesman for the Ministry of Culture and Tourism.
The ministry oversees Iraq’s Antiquities Department whose scientists are carrying out the digs.
The church, according to Talaqani, is the oldest in Iraq. He said it was part of a big monastery with several churches.
But the site Iraqi archaeologists want to expose represents a large church of which they have already revealed three halls as well as the altar.
The scientists’ aim, Talaqani said, is to unearth the church’s full design and display the remains to the public.
The Antiquities Department is currently conducting excavations at five ancient sites in southern Iraq.
Excavations had come to a halt shortly after the 2003-U.S. invasion. Many of the best known Mesopotamian sites have been the target of smugglers and illegal diggers.
Talaqani said hundreds of artifacts have been discovered and handed over to the Iraq Museum in the past two years.

Finding a Safe Haven in Damascus


by Stephen Starr reporting from Damascus

Iraq's historical Christian past is endangered. Before the country descended into war in 2003, around 880,000 Chaldean Christians and well over half a million Christians of other denominations lived relatively stable lives and occupied well-respected positions as doctors and engineers – provided, of course, they did not criticise Saddam Hussein's reign of terror. Today, however, their number is thought to have halved.
A helping hand in Damascus
However, while helping out thousands of the Iraqi refugees to have fled Iraq for Syria, one priest in Damascus is encouraging Christians to stay. Speaking at the Chaldean Church rectory in the Bab Touma district of Damascus, Father Farid Botros says there is help here in Syria for Iraqi refugees."We help over 2,000 families in Damascus. They chiefly come from the neighbourhoods of Jaramanah, Saida Zeinab and Maskin Berzah on the outskirts of Damascus." Originally from Malakieh in the governorate of Hasakeh in Syria's northeast, Father Farid has been serving for 18 months in Damascus beforehand having served in Syria's northern capital, Aleppo.
"Every Sunday we go to pharmacies to buy medicine and medical things for people. We also have a computer centre, because as refugees, the people have been torn away from their families who themselves have been scattered across Europe and North America. For them, this computer access is very important," Father Farid told Qantara shortly after returning from saying mass in Saidnaya, a well known Christian village 30 kilometres from Damascus.
"We have organized many programmes to aid Iraqi refugees in Syria. In 2009 we had 20 doctors working with us, we have a social centre here in Bab Touma and also a medical centre that provides humanitarian assistance for people who have come from Iraq. In addition, we have helpers who assist handicapped children," he stated. In addition, Father Farid and the Chaldean church in Damascus have set up a special project to help widows of the Iraq war. "There are no statistics as people leave to western countries and are coming and going from Iraq so we don't know exactly."
The Chaldean Church in Iraq
Christianity was introduced to Iraq in the first century AD by St Thomas. A closely related off-shoot of the Catholic Church, the Chaldean sect originated around the areas of Mesopotamia between the Euphrates and Tigris rivers, or modern-day Iraq. The Chaldean Church became independent following a spilt with the Catholic Church in a dispute over hereditary succession of the office of the patriarch in 1551.
"The Chaldean Christian community is one of the most important and oldest Christian sects and is well known to Iraqis; Iraq is where we began," said Father Farid. Father Farid says 70 percent of Christians in Iraq are Chaldean. Iraq's internal social constitution was dealt a catastrophic blow beginning in 2006 and heightened through a string of bombings and attacks in 2006 and 2007 that saw the entire country tether on the brink of civil war. Despite a promise from the Iraqi government to protect the country's Christian minority, many more Chaldean leaders have been kidnapped and murdered in Iraq. Mosul, a city with once a healthy Christian population, is today a maelstrom of violence and chaos. On February 29, 2008 Archbishop Paulos Faraj Rahho was kidnapped after saying mass at a church in Mosul. On March 13 – two weeks later – his body was found in a shallow grave on the outskirts of the city. In June of the previous year, Mgr Rahho's secretary was murdered along with three other sub-deacons in what were clearly targeted attacks on the Christian community.
Perhaps one of the most damaging results of the war is the effect on Iraq's ethnic make-up. The last official Iraqi census in 1987 found 1.4 million Christians in the country. Now, says the Associated Press, according to the 2008 U.S. State Department report on International Religious Freedom, that number has dropped to between 550,000 and 800,000. The number is likely to have gone down further since the 2008 poll.Following these attacks, many of Iraq's Islamic leaders expressed solidarity and support for the Christian community, and back in Damascus Father Farid acknowledges this assistance.
Equality of man
"At the same time, we help Muslims too. We don't distinguish between people who are Muslims and those who are Christians. Of course, more Christians come here or to our centre for help, but there have been many Muslims too. It's my own personal mission. I do not view people as being different from each other. All of the people who come to us need assistance and we are here to help them all. I feel I must help every human being, this is my conviction." Religious classes, or Sunday school (something that is popular among all Christians in Syria) are organised by the Chaldean Church in Damascus for around 500 children and teenagers.
"The idea is to keep the Chaldean faith and way of preaching alive and well and I'm responsible for organizing the 30 teachers who teach these children." Asked about why he became involved in assisting the Iraqi refugees who came across the border in the hundreds of thousand, Father Farid is clear. "I'm the parish priest; I have to care for them. It's also a spiritual thing for me. I honestly don't feel people care about refugees, and especially Christian refugees."
Christian exodus
At this point Father Farid turns to something he feels strongly about: the falling numbers of Christians in Iraq, Syria and indeed throughout the Middle East. "I believe we have to stay here in these countries, in Syria, in Iraq, Lebanon, and the Holy Land. This is where Christ began and we have to be witnesses to that, to allow our religion to continue." But many want to leave. Resettlement in western countries is perhaps the number one hope and draw away from the Middle East for Iraqi Christian refugees, and for people in general. The United Nations High Commission for Refugees in Damascus reported late last year that only 1179 refugees have taken up on its voluntary repatriation program which was initiated in October 2008. Clearly people don't feel Iraq is a safe country to return to. Christians themselves are disproportionably represented in refugee populations in Syria say United Nations agencies in Damascus. Political divisions remain a troubling issue to securing a more stable Iraq. In Father Farid's opinion however, few, if any of those who have fled the violence will return. "We have no Iraqi priests here. Many have come and went over the past year or so. They were waiting for visas to leave and once they got them, they left. It's a real shame in my opinion," he stated.