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10 giugno 2010

Un Papa potrà mai pregare ad Ur, la città dove nacque Abramo?

By Baghdadhope*

Fonti: Bakhdida.com, 30 giorni, Rainews24,
Corriere della sera, Dalla diocesi di Babilonia dei Latini e delegazione apostolica di Mesopotamia, Kurdistan e Armenia Minore alla Nunziatura apostolica in Iraq, Osservatore Romano, Alqabas.com, APcom, ADNkronos

Mons. Mikhail Jamil, Procuratore della chiesa siro cattolica presso la Santa Sede e visitatore apostolico in Europa, nel marzo del 2009 nel corso di un’intervista alla radio “La voce della pace e della sovranità” che trasmette da Baghdida (Qaraqosh)
aveva ventilato l’ipotesi di una visita papale in Iraq parlando del desiderio dell’attuale pontefice di realizzare quello che era stato l’analogo desiderio del suo predecessore di visitare Ur dei Caldei, la città natale del profeta Abramo.
Un viaggio, quello di Giovanni Paolo II, di cui, come ben spiegò Marco Politi in
30giorni, si era iniziato a parlare nel 1998 quando il pontefice aveva dichiarato che sarebbe stato bello viaggiare sulle “orme di Abramo.”
Nel giugno di quell’anno il cardinale Roger Etchegaray aveva preso parte a Baghdad ad una conferenza delle chiese cristiane organizzata dall’allora patriarca caldeo Mar Raphael Bidawid che aveva come scopi richiedere la fine dell’embargo imposto all’Iraq dopo la guerra del Golfo e rafforzare il dialogo cristiano-islamico. In quella occasione il cardinale Etchegaray ebbe modo di parlare dell’eventuale visita papale con il vicepremier iracheno, il cristiano Tareq Aziz e con il ministro degli esteri Mohammed Saeed al-Sahhaf. In realtà l’invito a visitare Ur dei Caldei era già stato rivolto al pontefice dallo stesso Saddam Hussein e di esso era stato latore Tareq Aziz durante la sua visita in Vaticano nel
maggio dello stesso anno.
A gettare acqua sul fuoco dell’entusiasmo del patriarca caldeo che si era detto certo della volontà del pontefice di giungere in Iraq nel corso del 1999 fu, da subito, il portavoce vaticano Joaquín Navarro Valls che pur dichiarando come l’idea non abbandonasse la mente del Santo Padre definì il viaggio come “difficile da organizzare.”
In effetti non erano pochi gli ostacoli da superare e tra essi l’embargo cui l’Iraq era sottoposto dal 1990 che aveva già fatto centinaia di migliaia di vittime specialmente nelle fasce più deboli della popolazione e contro il quale si era schierato il Vaticano giudicandolo come ingiusto e moralmente insostenibile.
Una visita del papa non avrebbe fatto altro che attirare l’attenzione del mondo più che sui reati del regime sulle orribili condizioni della popolazione e certo ciò non avrebbe fatto comodo alle Nazioni Unite che ancora, seppure ormai con qualche dubbio, consideravano l’embargo un sistema di controllo efficace sul regime e la sua volontà di riarmarsi ma che, allo stesso tempo,
non avrebbero potuto opporsi al desiderio del capo della cristianità.
Come spiegato però da Luigi Accattoli sul
Corriere della Sera del 2 ottobre 1999 ad interferire con i desideri vaticani fu anche la presa di posizione dello stesso regime iracheno espressa da una nota dell’agenzia di stampa INA (Iraqi News Agency) che il 29 settembre di quell’anno pubblicò una lettera aperta dal titolo e dal contenuto polemico:"Intellettuali iracheni mandano una lettera in risposta a una lettera della Chiesa sulla visita del Papa in Iraq, Sinai e Palestina".
Partendo da considerazioni storiche tese a rivendicare l’appartenenza esclusiva di Abramo al mondo islamico in quanto "primo dei veri credenti, il primo dei musulmani che hanno creduto in Allah, unico e solo Dio, e l'antenato degli arabi. Nato nella terra degli arabi e vissuto in Iraq, soprattutto a Ur, la città' sumera" la lettera si concentrava poi sulla eventuale visita del papa chiedendo come si sarebbe comportato il pontefice davanti alle sofferenze, alla fame ed alle malattie dei bambini, delle donne e degli anziani di cui ben conosceva la gravità.
Ma soprattutto se ciò sarebbe stato importante o se la visita avrebbe avuto solo natura religiosa perché: “Se la religione non si pone il fine di migliorare la vita delle persone, chi mai se ne farà' carico? Il nostro popolo arabo e musulmano e' convinto che se la visita del Papa non comprende questo, andrà contro i fatti della storia e della fede.”

La visita tanto attesa dagli iracheni cristiani fu annullata e per anni si susseguirono le ipotesi sul perché della sua cancellazione.
Se Mons. Fernando Filoni, Nunzio apostolico in Iraq dal 2001 al 2006 scrive nel suo libro “Dalla diocesi di Babilonia dei Latini e delegazione apostolica di Mesopotamia, Kurdistan e Armenia Minore alla Nunziatura apostolica in Iraq” (Ed. Stella d’Oriente – Baghdad – 2006) che il rifiuto opposto al viaggio papale da parte dell’Iraq “fu un atto diplomaticamente poco accorto, di miopia storica e manifesta paura del regime” il Cardinale Roberto Tucci, all’epoca organizzatore dei viaggi papali all’estero, nel dicembre 2009 dichiarò in un’
intervista all’Osservatore Romano: “Altra delusione fu il fallimento del viaggio che il Papa voleva fare in Iraq dopo la guerra del Golfo. Ricordo che raggiungemmo una base militare in aereo in piena notte. Poi sei ore di macchina sino a Baghdad. Siamo stati tre giorni a discutere con due vice-ministri degli Esteri, i quali sostenevano che il Papa non aveva capito niente, perché Abramo era musulmano. Alla fine ci dissero che il Papa nella terra di Abramo, cioè nel sud dell'Iraq, ai confini con l'Iran, avrebbe rappresentato un rischio molto serio per possibili attentati, dei quali avrebbero poi incolpato gli iracheni. Dunque bisognava riflettere molto prima di prendere una decisione. Allora sconsigliai il viaggio.”

In questi giorni però il tema di un’eventuale visita del nuovo pontefice in Iraq sta tornando alla ribalta.
Dopo l’annuncio fatto da Mons. Jamil a marzo del 2009 nell’ottobre successivo l’APcom riportò la
notizia ripresa dal quotidiano iracheno Al Sabah secondo la quale
il presidente della giunta regionale del governatorato di Dhi Qar, Qusai al Abbadi, da poco tornato da una visita in Vaticano, avrebbe consegnato al papa l'invito rivoltogli dal Consiglio regionale della provincia di Dhi Qar da lui stesso presieduto a visitare Ur, e che un alto prelato della Santa Sede gli avrebbe riferito che "il Santo padre ha accettato l'invito e visiterà Dhi Qar nel prossimo futuro".
All’invito rivolto da Al Abbadi ha fatto eco negli scorsi giorni quello di Talib Al Hasan, governatore della provincia di Dhi Qar, che lo ha esteso alla comunità irachena cristiana ricordando l’importanza di Ur, città natale di Abramo, mentre un funzionario del governatorato ha
spiegato, come riferito dal sito Alqabas.com, che una eventuale visita di Benedetto XVI dimostrerebbe il grado di sicurezza raggiunto nell’area e favorirebbe gli investimenti stranieri, soprattutto nel campo del turismo.
In un’
intervista rilasciata alla sezione in lingua araba dell’agenzia ADNkronos il 7 giugno Qusai al Abbadi ha poi addirittura specificato i termini dell’eventuale visita che dovrebbe essere coordinata dai ministeri degli interni, della difesa e della sicurezza nazionale ed avere la collaborazione delle truppe americane di stanza nella vicina base aerea di Tallil.
Ed è sempre ADNkronos a riferire le parole di Mons. Mikhail Jamil secondo il quale anche il presidente iracheno Jalal Talabani, il primo ministro Nuri Al Maliki ed il presidente della regione curda Massoud Barzani hanno invitato Benedetto XVI a visitare l’Iraq e che la proposta sarebbe “sul tavolo del pontefice” per essere valutata.


Sempre più voci, insomma, si levano perché il Papa si rechi in Iraq. Certo, come già diceva nel 1998 Joaquín Navarro Valls è un viaggio “difficile da organizzare.”
All’insicurezza che ancora ferisce l’Iraq nonostante le rassicuranti parole che arrivano dalla provincia di Dhi Qar si aggiungono altri ostacoli.
Un Iraq tuttora dilaniato da lotte intestine che non permettono neanche di formare un governo a tre mesi dalle elezioni e che dovrebbe finalmente fare i conti con chi, in questi anni, ha violentemente colpito la comunità cristiana riducendone drasticamente il numero.
Il lento e silenzioso abbandono del paese da parte delle truppe USA che stanno sì riducendo i loro effettivi ma ne manterranno “in situ” molti altri nelle enormi basi già preparate e la cui amministrazione avrebbe tutto l’interesse a non far di nuovo puntare i riflettori su un paese che si vuole “normalizzato.”
La stessa comunità cristiana che potrebbe considerare una tale visita pericolosa per la sua sopravvivenza in considerazione dell’essere stata già fin troppe volte associata ai “crociati” e considerata la loro “quinta colonna” nel paese che, invece, l’ha vista sua popolazione autoctona da prima dell’avvento dell’Islam.

Eppure è bello sognare un Iraq dove tutte le religioni possano trovare il proprio spazio. Dove il turismo religioso possa, in futuro, rappresentare una voce del bilancio dello stato anziché una possibile ragione di violenza.
Forse un giorno per gli italiani la città di Nasiriyah non sarà più solo il luogo della morte di 19 connazionali, ma anche la città da cui partire per un pellegrinaggio che iniziando da Ur dei Caldei li porterebbe alla ricerca delle radici che anche per i cristiani partono dai luoghi che Abramo guardò per l’ultima volta prima di volgere il passo verso est.