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29 gennaio 2021

L'Imam sciita di Najaf offre il benvenuto a Papa Francesco


Nel corso della Preghiera del venerdì, poche ore fa, nella principale moschea di Najaf, la città del Grande Imam Ali al-Sistani che dovrebbe essere il luogo dello storico incontro tra il Pontefice e il leader supremo dei sciiti, l'imam Sadruddin Qabbanji ha detto che Francesco sarà ben accolto.
La stampa locale (Hathalyoum.net) sottolinea che il religioso sciita ha assicurato nel suo sermone che i sciiti "accolgono con favore la prevista visita del Papa del Vaticano a Najaf per conoscere l'Islam e lo sciismo e per conoscere la realtà del popolo iracheno e il vero Islam così come lo sciismo e la realtà nell'ambito delle autorità religiose". Il clerico sciita inoltre si è pronunciato su diverse altre materie sia di politica interna sia di politica internazionale. La città di Najaf, sacra per gli iracheni sciiti, si trova a 150 km circa a sud di Baghdad. Sino ad oggi non è stata data nessuna conferma da parte del Vaticano a questa notizia sull’eventuale incontro a Najaf anche perché non si è ancora pubblicato il Programma dettagliato del Pellegrinaggio stesso (N° 35) che la Santa Sede ha annunciato tempo fa e fissato tra il 5 e l’8 marzo 2021.

Il Papa in Iraq, allo studio l’incontro con l’ayatollah sciita Ali Sistani. Nessuna conferma ufficiale

Salvatore Cernuzio

Ancora manca una conferma ufficiale da parte della Santa Sede, ma si fa sempre più insistente l’ipotesi di un incontro tra Papa Francesco e il grande ayatollah Ali Sistani, la più alta autorità sciita dell’Iraq, difensore dell’autonomia degli sciiti iracheni e critico dell’Iran, nell’ambito della visita del Pontefice nel Paese mediorientale in programma per il 5-8 marzo.
L’eventualità di un tale appuntamento, che scriverebbe un nuovo capitolo di storia nelle reciproche relazioni tra cristiani e musulmani, era stata preannunciata settimane fa dal cardinale Louis Raphael Sako, patriarca caldeo di Baghdad. In un’intervista con Vatican Insider-La Stampa del 15 gennaio, il porporato, interpellato a riguardo, spiegava che la Chiesa cattolica irachena condivideva con gli sciiti il «desiderio» di un incontro tra il Papa e Ali Sistani a Najaf, la città santa degli sciiti: «Abbiamo parlato con la Santa Sede di quanto sarebbe importante una simile visita. I capi sciiti hanno un ruolo importante nella zona e il Papa è un uomo del dialogo, ha il carisma di parlare con i musulmani», diceva Sako.
Il patriarca spiegava inoltre che l’incontro potrebbe essere l’occasione per siglare congiuntamente il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”, firmato dal Papa il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi insieme al grande imam di al-Azhar, la più alta istituzione sunnita del Cairo.
«Sarebbe un gesto enorme, con un impatto positivo anche per la presenza cristiana. Al momento, però, non abbiamo risposte», commentava il patriarca caldeo.
Intervenendo invece ieri ad un incontro online promosso dalla Conferenza episcopale francese e dall’organismo francese L’Oeuvre d’Orient, Sua Beatitudine Sako ha quasi confermato che il prossimo 6 marzo potrebbe svolgersi un «incontro privato» tra Papa Francesco e il leader spirituale sciita a Najaf, culla e luogo identitario di questa minoranza dell’islam separata dai sunniti dalla storia e dal sangue.
È proprio la scelta del luogo, al di là della firma della Dichiarazione congiunta dal valore universale, a far assumere una rilevanza storica a questo ipotetico evento, tanto per il dialogo islamo-cristiano quanto per quello intra musulmano.
Najaf è infatti «il luogo che parla al cuore di ogni sciita, e la firma a Najaf è come una firma con l’identità di ciascuno di loro», osserva il giornalista Riccardo Cristiano, tra i maggiori esperti di Medio Oriente. La firma di un documento che ricalca quello siglato anche dalla principale autorità teologica sunnita «entra nella storia della divisione islamica, apre una prospettiva nuova. La prospettiva della cittadinanza, di uno Stato dove tutti siano cittadini con pari diritti… È una visione rivoluzionaria per l’islam».
Come detto, dal Vaticano non è giunta una conferma di tale appuntamento che sembra essere fortemente caldeggiato dal Patriarcato caldeo di Baghdad, ma che manca tuttavia anche della tempistica necessaria per l’organizzazione. Fonti del Patriarcato, interpellate oggi da Vatican Insider in merito, hanno risposto con maggiore prudenza: «Al momento non possiamo confermare, aspettiamo il programma ufficiale della visita dal Vaticano».
Se tale vertice dovesse avvenire, sarebbe la prima volta nella storia che un esponente di spicco dell’islam sunnita e uno dell’islam sciita si ritroverebbero a condividere con il leader della cristianità lo stesso documento.
«Un testo universale», ha sottolineato ieri Sako, basato sui temi della fratellanza umana cristallizzati dal Pontefice nella sua ultima enciclica “Fratelli Tutti”; pertanto «non sarà necessario cambiarlo» nel caso in cui dovesse essere firmato dal leader sciita.
Sulla fraternità è incentrato anche il motto scelto per la visita del Papa: “Voi siete tutti fratelli” è la frase tratta dal versetto del Vangelo di Matteo (Mt 23,8) inserita in caldeo, arabo, inglese e curdo nel logo della visita apostolica. Il logo, circolato sul web prima di essere diffuso ufficialmente, mostra Papa Francesco nel gesto di salutare il Paese, rappresentato in mappa e dai suoi simboli, la palma e i fiumi Tigri ed Eufrate. Nell’immagine anche una colomba bianca che tiene nel becco un ramoscello di ulivo, simbolo di pace, e vola sulle bandiere della Santa Sede e della Repubblica dell’Iraq.
Quanto al programma del viaggio, si attende nelle prossime settimane la pubblicazione da parte della Santa Sede dell’elenco di appuntamenti che scandiranno i tre giorni di Jorge Mario Bergoglio nella Penisola arabica. Il programma ufficiale è suscettibile a variazioni continue tenendo conto delle difficoltà logistiche che tale visita comporta e soprattutto dell’evoluzione della pandemia di Covid. In Iraq al momento si registrano una decina di morti al giorno e meno di un centinaio di casi di contagio, in forte calo rispetto ai mesi scorsi.
Dalle notizie emerse finora, sempre in base alle anticipazioni del patriarca Sako, tra gli appuntamenti fondamentali del viaggio papale ci sarà la cerimonia interreligiosa ad Ur, patria natale di Abramo, alla quale prenderanno parte cristiani e musulmani (sunniti e sciiti), oltre ad una rappresentanza di ebrei, mandei, yazidi. A Baghdad, Francesco dovrebbe invece celebrare una messa in rito caldeo nella cattedrale siro-cattolica “Nostra Signora della salvezza”, luogo simbolo della Chiesa irachena, bersaglio, il 31 ottobre del 2010, di un sanguinoso attentato terroristico in cui rimasero uccisi 48 fedeli, tra cui due sacerdoti.
A Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, il Pontefice dovrebbe incontrare le autorità civili in uno stadio. Poi visiterà la città di Mosul, simbolo della distruzione provocata dalle milizie di Daesh, e il villaggio di Qaraqosh, per la recita dell’Angelus e l’incontro con le comunità cristiane della Piana di Ninive vittime delle violenze e delle persecuzioni jihadiste.
Sarà per loro «un incoraggiamento», ha detto Sako, «a rimanere, perseverare, sperare, ma anche e soprattutto a ricostruire la fiducia con gli altri per un futuro migliore».
A gettare un’ombra sull’intera trasferta è la questione sicurezza, alla luce del duplice attentato suicida del 21 gennaio scorso in Piazza Tayaran a Baghdad che ha ucciso una trentina di persone, ed anche dell’esplosione di un proiettile di mortaio, questa mattina, a 35 km a nord di Najaf. «Non ci sono rischi per la vita del Papa», ha detto ancora Sako nel webinar francese. Ma una recrudescenza delle violenze potrebbe far annullare questo viaggio auspicato da Papa Bergoglio sin dall’inizio del pontificato.

28 gennaio 2021

Papa Francesco in Iraq: Younan (patriarca siro-cattolico), “ad essere confortati saranno soprattutto cristiani e yazidi”


Sarà Ignace Youssif III Younan, patriarca siro-cattolico di Antiochia, ad accogliere Papa Francesco nella Cattedrale di Nostra Signora della Liberazione a Baghdad, nel primo giorno della sua visita apostolica in Iraq prevista dal 5 all’8 marzo prossimi.
Lo stesso patriarca darà il benvenuto al Pontefice anche nella città siro-cattolica di Qaraqosh, i cui abitanti furono costretti alla fuga dall’invasione delle milizie dello Stato Islamico nel 2014.
§È lo stesso patriarca a rivelare i particolari in una lettera inviata a L’Œuvre d’Orient in occasione del viaggio papale.
Il patriarca Younan ricorda che “una visita così tanto attesa dovrebbe essere motivo di gioia e fonte di speranza per tutta la Mesopotamia, perché – scrive – l’intero popolo iracheno è stato duramente colpito da guerre, conflitti settari e attacchi mortali. Ad essere confortati saranno soprattutto cristiani e yazidi. Negli ultimi anni, infatti, sono stati soggetti a tutti i tipi di oppressione, omicidio e sradicamento. Preghiamo affinché possano, accogliendo il loro padre spirituale, rivivere la speranza ‘oltre ogni speranza’ sull’esempio di Abramo, ‘padre della fede’”.
Riferendosi alla tappa papale di Qaraqosh, il patriarca siro-cattolico sottolinea come, dopo l’invasione di Daesh, “più della metà di questa eroica comunità è già tornata per ricostruire la propria città, con l’aiuto di istituzioni caritative cattoliche. I cristiani in Iraq sono molto grati ai loro fratelli e sorelle in Europa, che sono stati pronti a rispondere alle loro grida di angoscia e a continuare a fornire loro aiuti umanitari e realizzare progetti di costruzione o riparazione di chiese, scuole e case danneggiate”.
A tale riguardo il patriarca esprime gratitudine all’Oeuvre d’Orient, per la generosità mostrata nel sostenere tanti progetti.
La Chiesa siro-cattolica, in Iraq, riunisce circa 45.000 fedeli quasi tutti nella pianura di Ninive. Essa è composta da 4 diocesi: Baghdad, Bassora e Golfo, Mosul e Hadiab-Erbil.
La Chiesa siriaca in Iraq sostiene anche 4 comunità religiose, per lo più situate a Qaraqosh e dintorni.

Papa in Iraq: card. Sako conferma incontro privato del Pontefice con al-Sistani per comune condanna contro “chi attacca la vita”


Papa Francesco avrà sabato 6 marzo un incontro privato con la guida spirituale sciita irachena, l’ayatollah Ali al-Sistani, durante il quale i due leader potranno evocare una sorta di condanna comune contro “tutti coloro che attaccano la vita”. La conferma arriva di nuovo dal Patriarca caldeo di Baghdad, card. Louis Raphael Sako, parlando questa mattina con i giornalisti del prossimo viaggio di Papa Francesco in Iraq, in una conferenza online da Parigi organizzata dalla Conferenza episcopale francese e dall’Oeuvre d’Orient.
Con i giornalisti francesi, il card. Sako ha ripercorso tappa per tappa il programma del viaggio che Francesco farà dal 5 all’8 marzo nella “Terra santa di Abramo, ma anche di Ezechiele, di Giona, e dove una parte della Bibbia è stata scritta”.
Dialogo e riconciliazione sono le due parole chiave di questo viaggio. Il cardinale non ha potuto confermare se ci sarà o meno con l’ayatollah Ali al-Sistani la firma ad un testo comune come fu due anni fa ad Abu Dhabi con al-Tayyeb per il Documento sulla fratellanza umana, ma l’incontro privato è in programma.
Nella stessa giornata di sabato 6 marzo, il Papa si recherà a Ur, luogo consacrato alla memoria del profeta Abramo, figura di riferimento dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’Islam e qui si terrà un incontro interreligioso dove saranno presenti rappresentanti musulmani sciiti e sunniti.
“Questa visita – ha detto il card. Sakoè molto importante per il messaggio che Papa Francesco indirizzerà agli iracheni”. “Come il Santo Padre non cessa di ripetere: siamo tutti fratelli e sorelle della stessa famiglia umana. La differenza non fa dell’altro un nemico ma va rispettata e amata. Parlerà quindi di dialogo e rispetto, della cultura della tolleranza contro la cultura della morte e dell’odio. La vita è un dono di Dio e non si può violare. Quello che ci aspettiamo come cristiani è un messaggio di speranza che ci dia nuova forza per perseverare nella nostra fede”, ha aggiunto.
Molte le domande sulla sicurezza del viaggio che a causa degli ultimi attentati e della pandemia sembra essere a rischio fino all’ultimo momento.
“Non c’è rischio per la vita del Papa. C’è una preparazione molto seria da parte del governo”, ha assicurato il cardinale. “Il Papa porterà in Iraq un messaggio di perdono e di riconciliazione. Ci sono state fin troppe guerre con fin troppi morti. Spero che gli iracheni accolgano il messaggio di Papa Francesco e che l’Iraq, dopo la sua visita, non sia più lo stesso”.
Riguardo invece al rischio epidemia e assembramenti, il patriarca ha assicurato: “Saranno prese tutte le misure necessarie durante le celebrazioni”. Alla conferenza ha preso la parola anche mons. Pascal Gollnisch, direttore generale dell’Œuvre d’Orient, che, ripercorrendo le tappe dei viaggi di Papa Francesco in Medio Oriente, ha parlato di questa regione come di un “centro di interesse chiave per il Papa”.
In queste terre “i cristiani sono poco numerosi, ma sono vettori di speranza per la popolazione, vettori dei diritti umani e del principio di cittadinanza. Cittadini a tutti gli effetti, al servizio del Paese in cui vivono”.
“Il dialogo è il cuore di questa visita”,
dice il padre domenicano Amir Jajé, specialista del mondo sciita. Il Papa va in Iraq per “incoraggiare un movimento di dialogo che già esiste. È il movimento di chi sostiene la vita e combatte la cultura della morte, di chi crede che siamo tutti fratelli, figli di Abramo e possiamo vivere in quanto fratelli in questa terra”.

Leader sciita: l’incontro fra il papa e al-Sistani ‘momento storico’, messaggio di ‘tolleranza’

By Asia News

“Come musulmano sciita, non considero papa Francesco una autorità solo per i cattolici, ma per tutta l’umanità. E lo stesso vale per il grande ayatollah [Ali] al-Sistani”.
L’islam sciita e il cattolicesimo “condividono aspetti simili per quanto concerne l’uso dell’intelletto e della ragione”, inoltre al-Sistani e il pontefice “presentano aspetti simili nel carattere e nella personalità” in termini di “pietà e umiltà”.
È quanto sottolinea ad AsiaNews il leader religioso sciita irakeno Sayyed Jawad Mohammed Taqi Al-Khoei, segretario generale dell’Al-Khoei Institute e co-fondatore dell’Iraqi Council for Interfaith Dialogue (ICID), commentando la notizia dell’incontro privato fra al-Sistani e il papa.
Un faccia a faccia caldeggiato dallo stesso patriarca caldeo in una intervista ad AsiaNews all’indomani dell’annuncio del viaggio apostolico in Iraq; esso dovrebbe avvenire (si attende solo l’ufficialità del Vaticano) il 6 marzo in forma privata nella dimora di al-Sistani a Najaf.
Il Vaticano e Najaf Hawza (il seminario di Najaf, il più importante centro sciita della città) “hanno da tempo buone relazioni” e “siamo stati partner in diverse iniziative di pace in passato” sottolinea Jawad al-Khoei.
“Tuttavia - aggiunge - l’incontro fra i capi di queste due istituzioni sarà un momento storico e manderà un messaggio potente di tolleranza e moderazione”. Inoltre, aggiunge il leader sciita, “sarà elemento di sostegno per quanti operano per la pace nella regione e che devono fronteggia la tragedia del conflitto e delle violenze”.
L’ultimo di questi episodi è avvenuto la scorsa settimana, con lo Stato islamico che è tornato a colpire a Baghdad causando oltre 30 morti e 110 feriti. “Un attentato - afferma il card Louis Raphael Sako ad AsiaNews - che non scalfisce però il clima di attesa, di gioia e di entusiasmo per la visita del papa. La Chiesa irakena e il governo - aggiunge - si stanno preparando e continuano a lavorare unite per questo evento storico, noi andiamo avanti con gioia perché vogliamo superare una volta per tutte questo dolore e questo odio”.
“L’ayatollah al-Sistani - ricorda Jawad al-Khoei - ha ricoperto un ruolo di primo piano nella sconfitta delle forze del male e del terrorismo in Iraq, con una storica fatwa del giugno 2014” contro le milizie jihadiste del califfato.
“Questo incontro - conclude - sarà un ulteriore riconoscimento di questo impegno e del sacrificio di migliaia di irakeni nella guerra contro l’Isis”.

26 gennaio 2021

Iraq, Sako: attendiamo il messaggio di speranza del Papa

Giancarlo La Vella

In Iraq, il sedicente Stato Islamico è drammaticamente tornato protagonista, portando a termine una serie di raid e attentati, il più grave dei quali la settimana scorsa con il duplice attacco suicida nel centro di Baghdad che ha causato 32 morti e più di cento feriti. Nella nostra intervista, il patriarca di Babilonia dei Caldei, il cardinale Louis Raphaël I Sako, si sofferma sulle sofferenze e le speranze del popolo iracheno e della comunità cristiana del Paese, a poche settimane dal viaggio in Iraq del Papa. Una visita, afferma, dalla quale si attende un messaggio di conforto, di speranza e di pace.

Eminenza, in Iraq è tornata la paura del terrorismo. Come si sta vivendo questo aumento della tensione avvenuto soprattutto negli ultimi giorni?
C’è una grande preoccupazione e anche una tristezza da parte della gente. Questi che sono stati ammazzati sono gente povera, veramente povera. Purtroppo questi attacchi hanno un fine politico, rappresentano un messaggio al governo e anche al nuovo presidente americano. Intanto il governo ha preso delle misure.
La popolazione, nonostante questo momento difficile, continua a sperare nella pace per l’Iraq?
Si, c'è questa speranza, la gente chiede sempre quando arriverà la pace, la difesa della dignità umana, anche se da quasi 20 anni siamo in una situazione simile, c’è confusione, anarchia. Dunque, ci vuole tempo. Ma prima del tempo ci vuole buona volontà da parte dei politici. Se non c'è questo, non ci sarà pace. Anche le milizie devono ubbidire al governo iracheno e il governo deve imporre il ritiro delle armi. Tutto deve rimanere nelle mani del governo e non dei partiti politici.
Come i cristiani sta (sic!) vivendo in questo momento? Oggi c’è un’iniziativa di preghiera e digiuno di tre giorni…
Contro di noi finora non c'è stato niente, già da qualche anno. Ma noi facciamo parte dell’Iraq, non viviamo da soli siamo con tutti gli altri. Il loro dolore è il nostro Dunque siamo fratelli e sorelle di una grande famiglia che si chiama Iraq. Con i tre giorni di preghiera vogliamo dire che tutti siamo figli di Dio, il Dio di tutta l'umanità. Perciò questo gesto di andare a Ninive in preghiera ha un doppio significato: prima di tutto affermare che Dio guarda indistintamente a tutti; poi è una forte richiesta al Signore affinché ci salvi dalla pandemia in corso. E noi oggi viviamo con tanta paura del coronavirus. Dunque, dobbiamo pregare e chiedere l'aiuto di Dio per essere salvati e perché finisca questa pandemia per tutto il mondo. Noi non pensiamo solo a noi in Iraq, ma a tutti gli uomini nel mondo. La nostra media dei contagi non è alta: ogni giorno si registrano 500 o 600 contagi.
Come procede la preparazione del viaggio del Papa in Iraq a marzo?
Noi stiamo preparando tutto insieme con il governo. Per tutti è un evento straordinario. Il Papa verrà a dire: ‘basta, basta guerre, basta violenza, cercate la pace e la fraternità e la tutela della dignità umana’. Secondo me Lui ci porterà due cose: conforto e speranza, che finora ci sono stati negati. Dunque, è una visita, io direi, dai connotati piuttosto spirituali, nella quale non si darà tanta importanza al folklore, alla festa. Sarebbe perdere il vero senso della visita. E’ un evento molto importante per noi cristiani, ma tutti in Iraq aspettano questo incontro, anche i musulmani, altre realtà religiose e i vertici di governo.

25 gennaio 2021

Rocket attack on Baghdad airport a bid for US attention: analyst

Sura Ali
January 24, 2021

An overnight rocket attack on Baghdad airport was an attempt to get the attention of the new administration in Washington, according to a political analyst. 
Three Katyusha rockets were fired at Baghdad Airport on Friday night, one landing on a residential home, the Security Media Cell officially announced on Saturday. 
"Two rockets landed outside the airport and the third landed on a citizen's house in the al-Jihad neighborhood, which led to material damage without any casualties being recorded,” it stated. 
The Civil Aviation Authority in Iraq confirmed that air traffic at Baghdad International Airport was unaffected by the incident, according to state media. 
Such attacks on the airport and Baghdad’s fortified Green Zone, home to government offices and diplomatic missions, were frequent after the United States assassinated Iranian Gen. Qasem Soleimani and Iraqi militia commander Abu Mahdi al-Muhandis in January last year. On September 29, at least five civilians were killed in rocket fire near the airport.
Iraqi militia groups backed by Iran announced a "conditional" ceasefire in October, suspending attacks targeting US personnel and facilities on the condition the United States withdraws from Iraq. But fresh attacks in November appeared to end the truce.
Iran-backed militia Kataeb Hezbollah, on their Telegram channel, said they were not responsible for the latest attack. "The attack on the evil embassy is not devoid of two options: either ignorance, idiocy or agency for Trump and his team," the group said, referring to former US President Donald Trump. His successor, Joe Biden, was sworn in on Wednesday. 
According to political analyst Ihsan al-Shammary, the attacks are bid to get attention. 
"These attacks are intended to attract the attention of the United States to the Iraqi-Iranian file," Shammary told Rudaw English on Saturday.
"The armed groups are trying to deliver a message to the United States that they will not abide by the truce and their operations against US interests in Iraq will continue.”
The US embassy in Iraq revealed that Washington has provided some $20 million to support the Iraqi government in securing the Green Zone, according to a statement published on the embassy’s official Facebook page on Saturday. The statement was removed a few hours later and embassy staff were not available for comment. 
"The support includes financing a team of civil engineers to conduct a comprehensive survey of current entry points into the international zone, and to develop plans for new gates,” read the now-removed statement. 
The Green Zone is located in the Karkh district of central Baghdad, and houses foreign embassies and government offices. The area remains the center of the city's international presence.

Gli yazidi in Iraq, padre Cassar: nelle loro storie, le sofferenze di Cristo

Gabriella Ceraso
23 gennaio 2021



Una testimonianza forte che interpella le coscienze di tutti e viene dai Gesuiti in Iraq: riguarda gli yazidi, comunità minoritaria all’interno della etnia curda con religione propria, che vive soprattutto nella zona attorno alla città di Sinjar, nella provincia di Ninive, nel nord dell’Iraq, non lontano dal confine con la Siria.
Questa minoranza è stata perseguitata dal sedicente Stato islamico a partire dal 2014 e poi dimenticata, scomparsa dall'informazione mediatica, eppure ancora vittima di un genocidio silente e in preda ad una sofferenza indicibile che spinge spesso al suicidio, specie i giovani. Nella loro carne è il dramma che il mondo ignora.
Le poche notizie di cronaca, per chi le ha notate, risalgono a qualche giorno fa, mercoledì scorso, quando in 26 sono saltati fuori da due container imbarcati su un cargo che, dalla Turchia, è arrivato nel porto di Salerno, con la speranza di raggiungere la Germania. Ancora una volta vittime di una nuova rotta di trafficanti di esseri umani su cui le autorità italiane stanno indagando. 
Ma chi sono e perché fuggono, pochi lo sanno, anche nella loro stessa terra di provenienza, l'Iraq.
Lo rivela nella sua drammatica testimonianza padre Joseph Cassar incaricato di guidare il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Iraq. Nel video pubblicato sulla pagina Facebook del Centro Astalli, racconta quanto accade oggi a chi è sopravvissuto alla strage, alle violenze, alle deportazioni degli anni passati, ed è costretto oggi a vivere in campi profughi o all'esterno di essi, in condizioni estremamente difficili. 
"Attraverso le sue parole - scrivono i gesuiti - anche la prossima visita di Papa Francesco in Iraq a marzo assume significati nuovi che ci spingono a conoscere uno dei più impervi crocevia della storia, attraversato oggi da quell'umanità in cammino che ci onoriamo di accompagnare, servire e difendere"


"Mi chiamo Joseph Cassar, sono un sacerdote gesuita originario di Malta, da 5 anni vivo in Iraq. Mi trovo nella cittadina yazida di Sharia, di 10mila persone, nel Kurdistan iracheno".
Inizia così il racconto che ha come sfondo le tende del campo profughi della cittadina. All'interno del campo vivono 16mila persone e fuori ce ne sono 18mila in condizioni precarie. In tutto, nella provincia, spiega il religioso, ci sono 300mila sfollati per un totale di 16 campi, ma solo il 40% degli yazidi vive al loro interno.

Storie , famiglie, vite in cui è il Cristo sofferente
"Non si tratta di una massa anonima: sono storie e famiglie e identità e sono yazidi", rimarca padre Joseph, e dopo 6 anni ,da quando fuggirono sul monte Sinjar, lasciando la loro " terra ancestrale" spinti dall'arrivo degli estremisti islamici dell'Is, nessuno sa che donne e bambine sono state ripetutamente picchiate, violentate e rivendute, che i bambini e i ragazzi sono stati venduti e arruolati per uccidere e che delle 6400 persone sequestrate, in più di 2800 non sono mai più tornate.
Ecco, in poche parole, il dramma di un popolo le cui ferite non si rimarginano. Per loro i Gesuiti lavorano sia a livello di sostegno psicologico che sociale.
"I bisogni sono molteplici - spiega padre Joseph - aggravati dalla pandemia". Manca cibo, salute, accesso al lavoro e ogni forma di indipendenza economica. Mancano mezzi educativi perché le scuole sono chiuse e l'isolamento è sempre più forte.

In Iraq serve la pace
Di fronte a tutto ciò, l'intervento dei gesuiti si è concentrato su tre fronti: protezione, educazione e salute mentale, ma è quest'ultima che lascia trasparire la drammaticità maggiore. Nelle ultime 37 ore - racconta il gesuita - ci sono stati tre suicidi tra ragazze di età compresa tra i 15 e i 25 anni". Il loro vissuto è troppo ingombrante. 
"Quando guardo i volti sofferenti delle persone che vengono al nostro Centro di assistenza psicologica, mi viene in mente l'immagine delle piaghe di Gesù. Qui si toccano le piaghe nascoste del Cristo sofferente e con la stessa venerazione noi ci avviciniamo a questa realtà di sofferenza che vivono le persone."
“Più di tutto in Iraq, occorre la pace: il futuro da costruire è un futuro in cui si vive con gli altri e non malgrado gli altri”

Ricercando un modello di piena comunione

Hyacinthe Destivelle *
21 gennio 2021

Il viaggio ormai prossimo di Papa Francesco in Iraq, prima visita di un vescovo di Roma in questo Paese, sarà sicuramente l’occasione di incontrare rappresentanti della Chiesa assira dell’Oriente. Una antica Chiesa che si trova su queste terre sin dalle origini del cristianesimo. Infatti, gli Atti degli apostoli riportano che «Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia» erano presenti nel Cenacolo il giorno di Pentecoste (2, 9). Essi furono senza dubbio i primi cristiani della Persia, dove poi predicarono, secondo la tradizione, l’apostolo san Tommaso e i suoi discepoli Addai e Mari.
Situata al di fuori dell’impero romano, sia d’Occidente sia bizantino, e isolata all’interno dell’impero persiano, la Chiesa assira dell’Oriente ha maturato una tradizione teologica e spirituale originale in un contesto culturale prevalentemente semitico e siriaco, molto vicino alle prime comunità apostoliche. Questa tradizione siro-orientale, diversa da quella greca e latina, si differenzia anche da quella siro-occidentale antiochena. Rifiutando alcune formulazioni del concilio di Efeso, la Chiesa assira riconobbe solo i due primi concili ecumenici, motivo per cui è stata a lungo considerata “nestoriana”. Nonostante il suo isolamento, essa ha sviluppato nell’alto Medioevo uno straordinario dinamismo missionario seguendo le varie vie della seta attraverso l’Asia centrale, l’India e persino la Cina. La Chiesa assira dell’Oriente ha lo stesso patrimonio teologico e liturgico della Chiesa caldea, e anche della Chiesa siro-malabarese in India, ambedue entrate in comunione con la Chiesa di Roma nel XVI secolo.
La persecuzione ha tragicamente segnato la storia della Chiesa assira sin dalle sue origini, prima nell’impero persiano poi nell’impero mongolo, e infine nell’impero ottomano (in particolare durante il genocidio assiro, noto come “Seyfo”, negli anni 1914-1924) e ha costretto la maggior parte dei suoi fedeli a emigrare in Occidente, portando con sé la loro secolare tradizione. Anche se rimangono grandi comunità in Medio oriente (soprattutto nel nord dell’Iraq, in Siria, in Iran e nel Libano), oltre che in India (dove porta il nome di Chiesa siro-caldea d’Oriente), quasi la metà dei 450 mila fedeli di questa antica Chiesa si trova ormai negli Stati Uniti, con una significativa diaspora in Canada, in Europa e in Australia.
Il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira, iniziato nel 1984 nell’ambito di conversazioni non ufficiali, si sviluppa dal 1994 all’interno di una commissione specifica, denominata Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira dell’Oriente. La Chiesa assira, infatti, non essendo in comunione con le altre Chiese ortodosse orientali, non fa parte della commissione internazionale che promuove il dialogo con la famiglia delle Chiese di tradizione armena, alessandrina e siriaca, che riconoscono i primi tre concili ecumenici, e che per questo spesso vengono chiamate “precalcedonesi”. Fin dall’inizio, il dialogo teologico con la Chiesa assira si è posto l’obiettivo di studiare le tre aree in cui deve essere raggiunta l’unità dei cristiani: il contenuto della fede, la celebrazione dei sacramenti e la costituzione della Chiesa.
L’11 novembre 1994, al termine di una prima fase di dialogo non ufficiale sulle questioni cristologiche, san Giovanni Paolo II e il catholicos-patriarca Mar Dinkha IV hanno potuto firmare una storica dichiarazione cristologica comune. Essa riconosceva «la legittimità e la correttezza» dei vari titoli della Vergine Maria, considerati all’epoca del concilio di Efeso come i criteri dell’ortodossia cristologica: “Madre di Cristo nostro Dio e Salvatore” usato dalla Chiesa assira, “Madre di Dio” (“Theotokos”) utilizzato nella tradizione cattolica e ortodossa. Affermando che le differenze cristologiche del passato «erano fondate in buona parte su incomprensioni», Mar Dinkha IV e Giovanni Paolo II dichiararono di ritrovarsi «uniti nella confessione della stessa fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo perché gli uomini possano diventare figli di Dio per sua grazia». Sono stati così superati 1.500 anni di controversia dottrinale intorno alla cristologia del concilio di Efeso, principale problema dogmatico tra la Chiesa cattolica e quella assira.
Sette anni dopo, durante una seconda fase, il dialogo teologico ha avuto un altro esito significativo, questa volta sui sacramenti. La Chiesa assira utilizza nella sua liturgia l’anafora di Addai e Mari, una delle anafore cristiane più antiche, che non include però esplicite parole dell’Istituzione, considerate dalla Chiesa cattolica essenziali per la validità della preghiera eucaristica. Il 17 gennaio 2001 il dialogo teologico ha permesso il riconoscimento da parte della Congregazione per la dottrina della fede — decisione approvata da Papa Giovanni Paolo II — della validità dell’anafora di Addai e Mari, dato che le parole dell’istituzione eucaristica vi sono ben presenti «non in modo narrativo coerente e ad litteram, ma in modo eucologico e disseminato». Come per la questione cristologica che ha permesso di riconoscere un’unità di fede in una diversità di espressioni, lo stesso approccio ermeneutico ha consentito di riconoscere un’identità sacramentale al di là della varietà delle pratiche liturgiche.
Questo esito teologico ha reso possibile un’importante decisione pastorale: il 20 luglio 2001 il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha pubblicato alcuni Orientamenti per l’ammissione all’Eucaristia tra la Chiesa caldea e la Chiesa assira dell’Oriente, riconoscendo ai fedeli caldei e assiri la possibilità, in determinate circostanze, di ricevere l’eucaristia dall’una o dall’altra Chiesa, tenendo conto delle esigenze pastorali, in particolare nel contesto della diaspora.
Nel 2017 la Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira dell’Oriente concludeva questa seconda fase del dialogo con una dichiarazione congiunta sulla “vita sacramentale”. Il documento mostra che le tradizioni sacramentali della Chiesa cattolica e della Chiesa assira d’Oriente «sono una nella loro diversità; pur avendo adottato forme e riti differenti, ambedue intendono celebrare lo stesso ed unico mistero di salvezza».
Durante le sue due prime fasi, il dialogo teologico con la Chiesa assira ha quindi superato in pochi anni due grandi difficoltà: una polemica vecchia di 1.500 anni sulla fede cristologica, e un dibattito relativo alla validità di un’anafora eucaristica usata fin dalle origini del cristianesimo. Ciò dimostra il successo di questo dialogo, e soprattutto della sua metodologia ermeneutica capace di discernere l’unità di fede nella diversità di espressioni e di pratiche. Il dialogo non solo ha risolto controversie secolari, ma ha consentito una certa communicatio in sacris ancor prima del ristabilimento della piena comunione tra le nostre Chiese.
Dal 2017 è in corso una terza fase di dialogo sulla costituzione della Chiesa. Tuttavia, diversamente dagli altri dialoghi ecumenici, la commissione si incentra non sulle diverse caratteristiche o sulle istituzioni della Chiesa, ma sulle sue immagini. L’ecclesiologia dei Padri, soprattutto dei primi secoli, è infatti formulata in un linguaggio tipologico e simbolico piuttosto che in presentazioni concettuali e sistematiche. La tradizione siriaca, in particolare, fedele alle categorie bibliche e alle tradizioni della prima Chiesa giudeo-cristiana, intende il mistero della Chiesa spesso a partire dalle immagini dell’Antico Testamento e lo esprime per mezzo di inni e di omelie. Il dialogo teologico con la Chiesa assira si propone pertanto di riflettere sulle immagini e sui simboli presenti nelle Scritture e sviluppate dai Padri latini e siriaci dei primi quattro secoli. Lo scopo è di mostrare che queste immagini, comuni alle tradizioni latina e assira, anche se talvolta espresse e comprese in modo diverso, possono aiutarci a trovare insieme i fondamenti di una comune ecclesiologia, e ad esprimerla in un modo che possa maggiormente parlare ai nostri contemporanei rispetto al linguaggio concettuale. Con questo nuovo documento sulla comprensione della Chiesa, sarà compiuto un altro passo avanti sul cammino verso la piena comunione tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira.
Certo, questo dialogo teologico, o “dialogo della verità”, non sarebbe possibile senza l’approfondimento parallelo del “dialogo della carità” e del “dialogo della vita”. Infatti, mai nella storia le relazioni tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira sono state così fraterne: nel 1978 il catholicos-patriarca Mar Dinkha IV ha partecipato alla messa inaugurale del nuovo pontificato, nel 1984 è tornato a Roma per il suo primo incontro ufficiale con il Papa, poi nel 1994 per la firma della dichiarazione cristologica comune, nel 2005 per i funerali di Giovanni Paolo II, nel 2007 per incontrare Papa Benedetto XVI e nel 2014 per visitare Papa Francesco.

22 gennaio 2021

Word or Deeds: Shiite Firebrand Pledges to Restore Iraqi Christian Property

Jayson Casper
January 21, 2021

If Pope Francis can avoid the complications of COVID-19 travel and get to Iraq in March, he will hear a lot about stolen property.
Muqtada al-Sadr, a leading Shiite politician fiercely opposed to the US military presence, has told Christians he will do something about it.
The issue is not new.
As Iraq’s pre-Gulf War Christian population of 1.25 million dwindled to about 250,000 today, opportunistic non-Christians laid claim to their unoccupied homes and lands. The city of Mosul, next to the traditionally Christian Nineveh Plains—where Pope Francis is scheduled to visit— located 220 miles north of Baghdad, provides telling examples of the problem.
In 2010, in the waning days of official US occupation, Ashur Eskrya’s father decided to sell his family home. Years of chaos had depleted the once 60,000-strong Christian population of Iraq’s second-largest city, representing 10 percent of its total.
Property values were plummeting.
Especially in hindsight, Eskrya felt fortunate to get 25 percent of its market value. Four years later, his neighbor got nothing. ISIS invaded Mosul, putting its Christian population to flight.
In 2015, the International Organization for Migration (IOM) surveyed 240 individuals displaced by the fighting throughout Iraq. Nearly 9 in 10 (89%) had their homes confiscated.
A 2014 study estimated that ISIS made more money from selling stolen real estate than it did from oil revenue.
After the liberation of Mosul, some Christians returned, including Eskrya’s neighbor. While 42 percent had lost their property documentation altogether, according to IOM, the neighbor was able to enter a lengthy legal process and eventually regain ownership of his home.
But uncomfortable with the security situation, he returned to Erbil, 55 miles east of Mosul in Iraqi Kurdistan, where thousands of displaced Christians still reside. He lives there today with his children, which is more than a third family can say.
This neighbor benefited from Mosul’s earlier oil boom, and lived in a home valued at $1.2 million in one of the plush city districts. But in 2006, his daughter was kidnapped and killed. In 2012, another daughter tried to emigrate through Syria, and was killed there. The parents eventually moved to Australia—with the deed to their home. But last year, they were stunned to receive news from neighbors about new renovations. A company was redesigning the home, and presented a deed of ownership. The case is now being adjudicated in court.
 “There are many cases like these,” said Eskrya, president of Assyrian Aid Society–Iraq. “False papers are sold by those connected to influential figures in the justice ministry, who oversee the real estate market.”
Even prior to ISIS, the IOM study noted at least 600 confirmed cases of property seizure in Mosul, mostly from Christian owners residing in the diaspora.
Justice Ministry issues began as early as 2006.
The official Iraq Property Claim Commission has only been able to enforce 8 percent of its final rulings.
Both the church and the government have tried to rectify things, Eskrya said.
As a safeguard for Christian property, in 2010 a regulation was established requiring sales to be signed by either a church representative or Christian member of parliament.
And in 2017, after the defeat of ISIS, the government created a commission with official church representation that was able to resolve some cases.
“The government is very busy with the elections, the problem of security and militias, as well as the pandemic and the economy,” Raphael Sako, patriarch of the Chaldean Catholic Church based in Baghdad, told CT. “For them, this is something marginal, and we understand that.”
Recognized as the second-most influential religious figure in Iraq through a study conducted by the US Institute of Peace, Sako consistently meets with national leaders to urge the application of citizenship and rule of law.
Last year, he canceled Christmas to object to the killing of nonsectarian protesters demonstrating against corruption. But this past Christmas, the government honored his longstanding petition, making the holiday a permanent national celebration.
Sadr, the Shiite cleric, sent a representative to offer congratulations, who presented Sako with a new initiative. Head of the largest political alliance with 16 percent of the parliament’s seats, Sadr also commands the allegiance of many Shiite militia groups. Following the US killing of Iranian general Qassem Suleimani, he led hundreds of thousands of demonstrators to peacefully call for Iraq to expel the American military.
Sadr’s envoy provided Sako with details of how Christians can submit their ownership documents electronically, pledging to achieve justice for their claims.
He emphasized this includes properties involving his aligned militias.
"This is the job of the government, not Sadr or a political party,” Sako said, while welcoming the initiative. “But it is a good sign of solidarity.”
Eskrya agreed. “Sadr alone is not enough, it has to be adopted by parliament and all the parties,” he said. “But we are happy with anyone who tries to help, and I hope that in the end it will show Christians that they still have a place in Iraq.
Prior to Christmas, Bashar Warda lamented the frustrating lack of progress. “There is no redress for those who have lost properties, homes, and businesses,” stated the Chaldean Catholic archbishop of Erbil. “[Many] Christians have nothing to show for their lives’ work, in places where their families have lived, maybe, for thousands of years.”
Given Sadr’s connection to the militias, his initiative has been met with some skepticism. And the US State Department’s International Religious Freedom Report noted another member of parliament who actively facilitated the relocation of Iraqi Sunnis and Shiites into Christian areas, through aligned militias. But as early as 2016, Sadr was speaking out on behalf of Christian properties. It may be that he can make a difference.
“This committee shows he is serious, and gives a message to the other militias,” Eskrya said. “And while it has raised awareness of the issue, it is still a sort of gang system, and people suffer if they don’t have good connections.”
As a politician, Sadr has been wily. Often alternating his alliances and political stances, he first supported the nonsectarian protests against corruption, then sent his supporters to attack them. While this action contributed to the eventual petering out of the movement, the demonstrations still forced the resignation of the prime minister and early parliamentary elections.
Both Eskrya and Sako suspected the initiative may be part of Sadr’s effort to position himself as a neutral figure, eyeing next year’s vote. Sako told CT his lawyer is currently working with the government on about 1,250 cases of confiscated property. Only 50 have been solved so far, though other private initiatives have reported some success. Several of these files were shared with Sadr. “They will try,” said Sako. “But we are expecting deeds, and not only words.”
Meanwhile, the patriarch awaits the visit of Pope Francis.
The pontiff has now put his trip to Iraq in doubt, wary of COVID-19 transmission among the expected large crowds. But last week, the Vatican issued an official logo and motto for the visit: “You are All Brothers,” taken from Matthew 23.
“Pope Francis will encourage Christians to persevere, to hope, and to trust their neighbors,” said Sako. “But he will also speak with political and religious authorities about harmonious coexistence. “They must take care of these Christian issues—as they should for all citizens.”

Il Premier iracheno rimuove i vertici della sicurezza interna dopo il recente attentato kamikaze. Sempre più incerta la desiderata Visita del Papa


In Iraq oltre alle tragiche e dolorose conseguenze di morti e feriti nel doppio attentato kamikaze di ieri a Baghdad, nel mercato popolare di Piazza Al-Tayaran, si scrive molto sulle reazioni del governo del Premier e Capo delle Forze Armate, Mustafa Al-Kadhimi, proprio quando l'ISIS rivendica in queste ore, secondo la stampa locale, la nuova strage di innocenti.
Era da oltre 14 mesi che non si registravano attentati di questo tipo nella martoriata città capitale.
Il portavoce delle Forze Armate, Maggiore Generale Yahya Rasool, ha annunciato che il Premier Al-Kadhimi, ha emesso diversi ordini esecutivi per rimuovere immediatamente cinque importanti alti responsabili della sicurezza dello stato e ciò apre numerose incognite istituzionali per il Paese che si prepara per ricevere la Visita di Papa Francesco ma anche per un processo elettorale anticipato molto polemico e controverso. Le domande sul perché di queste decisioni sono tante e non riguardano solo questioni di efficienza. Rasool ha affermato che gli ordini di rimozione includono il Viceministro degli Interni per gli affari dell'intelligence, il Direttore generale dell'intelligence e della lotta contro il terrorismo presso il Ministero degli Interni, il Comandante delle operazioni di Baghdad, il Comandante della Polizia federale e il Direttore del dipartimento dell'intelligence e della sicurezza di Baghdad. Alcuni di loro erano in prima linea nell'organizzazione statale che si occupa della preparazione della Visita del Santo Padre dal 5 all'8 marzo prossimi. Intanto, come conferma il sito ‘shafaq news’, secondo il Ministero della Salute e dell'ambiente iracheno, queste misure politico-amministrative del Premier arrivano poche ore dopo che due attentati kamikaze hanno provocato 32 vittime e 110 feriti.

L’Isis rivendica gli attentato a Baghdad. Patriarca caldeo: ‘Riconciliazione’


Nella notte le milizie dello Stato islamico (SI, ex Isis) hanno rivendicato il sanguinoso attentato di ieri verso mezzogiorno a Baghdad, che ha causato almeno 32 vittime e 110 feriti, alcuni dei quali versano tuttora in condizioni gravi. Le modalità operative - un kamikaze, seguito da un secondo attentatore suicida - ricordano infatti tecniche già usate a più riprese in passato dal gruppo jihadista, sconfitto sul piano militare ma con cellule ancora attive sul territorio e in ripresa con la pandemia di Covid-19.
A distanza di alcune ore, su un account di Telegram riconducibile all’Isis è apparsa la rivendicazione dell’attacco. Nel messaggio diffuso dal gruppo jihadista si afferma che l’obiettivo dei radicali sunniti sono i musulmani sciiti, bollati come miscredenti e infedeli da colpire. Il gesto ha ricevuto una condanna unanime da leader politici e religiosi irakeni e internazionali.
Dopo papa Francesco, che proprio in Iraq dovrebbe compiere il primo viaggio apostolico all’estero a marzo dall’inizio della pandemia di Covid-19, vi è anche la nota del patriarcato caldeo che “condanna con fermezza” l’attacco suicida “che ha provocato decine di martiri e ferito civili innocenti”.
“La politica - si legge nel comunicato inviato ad AsiaNews - è una responsabilità onorevole per raggiungere la pace, la sicurezza e una vita dignitosa per i cittadini. Pertanto, dopo 18 anni di conflitti e sofferenze, è tempo che gli iracheni si riconcilino e si muovano per sollevare il Paese dal fondo del collasso, liberandolo da controversie politiche e partigiane, settarismo e quote”. Per il porporato, quello attraversato è “un momento fatidico e difficile” in cui “ogni cittadino” è chiamato a “voltare pagina e partire con entusiasmo per contribuire a costruire un Paese sano e forte”.
È compito di tutti, conclude, “costruire le nostre società con una cultura di cittadinanza, tolleranza, diversità, rispetto delle leggi e prestigio dello Stato”. Il presidente irakeno Barham Saleh ha manifestato la condanna unanime delle istituzioni nazionali, sottolineando he il governo “è fermo nel contrastare questi tentativi canaglia di destabilizzare il nostro Paese”. Sostegno e solidarietà arrivano anche dai vertici degli Stati Uniti, dell’Unione europea (Ue) e delle Nazioni Unite. Nel suo periodo di massima espansione l’Isis - apparso sulla ribalta internazionale nel 2014 - è arrivato a controllare 88mila kmq di territorio fra la parte orientale della Siria e il settore ovest dell’Iraq, imponendo il proprio dominio con violenza e terrore a quasi otto milioni di persone. A dispetto della sconfitta militare e della liberazione di gran parte del territorio a partire dal 2017, secondo fonti Onu vi sono ancora oggi almeno 10mila combattenti attivi nell’area.

Patriarca Sako su strage a Baghdad: messaggio di morte, forse nel mirino c’è anche il progetto elettorale

21 gennaio 2021

“Hanno voluto mandare un messaggio di morte, che forse ha a che fare con il ritiro dei soldati USA dal Paese, o con il progetto elettorale. Resta il fatto che, finora, non c’è nessuna dichiarazione o rivendicazione proveniente da chi c’è dietro queste esplosioni”.
Sono inquietanti, pur se telegrafiche, le dichiarazioni e le ipotesi che il Patriarca caldeo Louis Raphael Sako rilascia all’Agenzia Fides in merito al duplice attentato che questa mattina, 21 gennaio, ha mietuto vittime tra le tante persone che a quell’ora affollavano il mercato di vestiti usati in piazza Tayaran (nella foto), nel centro di Baghdad, provocando una trentina di vittime e circa 90 feriti. Al momento, le autorità irachene hanno dichiarato che ancora non ci sono state rivendicazioni dell’attentato, perpetrato da due attentatori suicidi.
Il generale Kazem Selman, direttore della Protezione civile irachena, ha affermato che "l'attentato ricorda per modalità ed esecuzione quelli compiuti da Daesh (Stato Islamico, ndr)".
Era dal giugno del 2019 che il centro di Baghdad non veniva colpito da attentati di questo tipo. I jihadisti del sedicente Stato Islamico, che a partire dal giugno 2014 avevano conquistato Mosul e poi ampie regioni del Nord Iraq, erano stati dichiarati militarmente sconfitti in Iraq nel dicembre del 2017.
La strage di Baghdad fa cadere un’ombra di inquietudine anche sull’attesa trepidante vissuta dalle comunità cristiane locali in vista della visita apostolica di Papa Francesco in Iraq, in programma dal 5 all’8 marzo. Il 19 gennaio, a Baghdad, nella sede del Patriarcato caldeo, i vescovi cattolici in Iraq avevano partecipato a un incontro di preparazione della annunciata visita papale. Il Cardinale Louis Raphael Sako, in vista del prossimo “Digiuno di Ninive” – tre giorni di digiuno e preghiera tradizionalmente osservati dai cristiani caldei per fare memoria della conversione di Ninive a seguito della predicazione del Profeta Giona, giornate che quest’anno cadono dal 25 al 27 gennaio –aveva esortato tutti i battezzati caldei a “a pregare per la salvezza dall’epidemia di Coronavirus” e “anche per la buona riuscita della visita di Papa Francesco a marzo”. Intanto il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, a nome di Papa Francesco ha inviato al Presidente iracheno Bahram Salih un telegramma di cordoglio per le vittime della strage “Sua Santità Papa Francesco” si legge nel telegramma, diffuso dalla Sala stampa vaticana “è stato profondamente rattristato nell'apprendere dell'attentato di questa mattina in piazza Tayaran a Baghdad. Nel deplorare questo insensato atto di brutalità" prosegue il testo, il Papa "prega per le vittime decedute e le loro famiglie, per i feriti e per il personale di emergenza presente. Confidando che tutti continuino a lavorare per superare la violenza con fraternità, solidarietà e pace, Papa Francesco - conclude il cardinale Parolin - invoca sulla nazione e sul suo popolo iracheno la benedizione di Dio onnipotente".

21 gennaio 2021

Baghdad, 30 morti e 70 feriti in un doppio attacco. Il dolore del papa e di mons. Warduni

Foto Rudaw


Un attacco che “ha colpito nel centro della città” e che “ha sorpreso tutti quanti: non ce lo aspettavamo ed è difficile capire cosa sia successo”.
È quanto afferma ad AsiaNews mons. Shlemon Audish Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad e braccio destro del patriarca caldeo, commentando il grave attentato che ha colpito la capitale irakena questa mattina, dopo un lungo periodo di relativa calma.
Papa Francesco ha inviato in mattinata un suo telegramma di cordoglio. “Restiamo in attesa - aggiunge il prelato - di raccogliere maggiori informazioni, per il resto dobbiamo aspettare”.
Un doppio attentato suicida ha provocato oltre 30 morti e 70 feriti questa mattina in un mercato all’aperto in piazza al-Tayaran, nel centro di Baghdad, che da tempo non registrava fenomeni violenti di così vasta portata. Le due esplosioni sono avvenute verso le 12 ora locale.
Per i soccorritori il bilancio è ancora provvisorio e il numero delle vittime è destinato da aumentare nelle prossime ore. Diversi feriti, alcuni dei quali in condizioni gravi, sono stati ricoverati negli ospedali della città. Un analogo attacco nella stessa piazza nel 2018 aveva provocato 31 vittime. Dal giugno dello scorso anno non si verificavano attacchi sanguinosi di così vasta portata a Baghdad, una delle città interessate dalla visita di papa Francesco dal 5 all’8 marzo. Il pontefice segue da vicino l’evolversi della situazione irakena e, attraverso il Segretario di Stato card Pietro Parolin ha inviato un telegramma di condoglianze al presidente Barham Salih. Il papa esprimendo “profonda tristezza” deplora “questo atto brutale senza senso” e prega “per le vittime e le loro famiglie, per i feriti e per il personale medico” intervenuto. Egli richiama i valori di “fraternità, solidarietà e pace” per “superare le violenze” e invoca la benedizione per la nazione e il suo popolo. Al momento non si registrano rivendicazioni ufficiali ma i sospetti, anche in considerazione delle modalità d’azione, sono indirizzati verso lo Stato islamico (SI, ex Isis), sconfitti sul piano militare, ma con cellule ancora attive sul territorio e in ripresa con la pandemia di Covid-19.
Con la caduta di Mosul, ex roccaforte jihadista, l’Isis ha rivendicato solo la responsabilità di attacchi di piccola scala, effettuati perlopiù di notte contro postazioni militari in aree isolate. Secondo le prime testimonianze, due kamikaze imbottiti di esplosivo si sono fatti esplodere fra la gente. Il primo è entrato al mercato dicendo di non sentirsi bene e quando si è formato un gruppo di persone si è fatto saltare in aria; la deflagrazione ha attirato l’attenzione delle persone presenti, che si sono dirette nel punto dello scoppio. In quel momento un secondo attentatore ha azionato il giubbotto esplosivo. Per Baghdad è l’attentato più grave degli ultimi tre anni: il mercato era tornato ad affollarsi solo nell’ultimo periodo, dopo mesi di chiusure e restrizioni legate alle politiche di contenimento della pandemia di nuovo coronavirus. Intanto il Paese si prepara alle elezioni generali, occasione anche in passato di gravi episodi di violenze: infatti, l’attentato del 2018 aveva preceduto di qualche tempo il voto alle politiche. Il Primo Ministro Mustafa al-Kadhemi aveva indicato giugno come data per le elezioni, anche in risposta alle massicce proteste dell’ottobre 2019 e represse dal precedente esecutivo con la forza; tuttavia, per questioni organizzative e burocratiche la commissione elettorale ha posticipato il voto al prossimo mese di ottobre.

20 gennaio 2021

Iraq: card. Sako (patriarca), “trasformiamo la dolorosa esperienza della pandemia in una opportunità di grazia e di bontà”


Foto Patriarcato Caldeo

 
“Trasformiamo la dolorosa esperienza della pandemia di Coronavirus in una opportunità di grazia e di bontà, con un serio atteggiamento spirituale e solidale”. Lo scrive il patriarca caldeo di Baghdad, card. Louis Raphael Sako, in un messaggio ai fedeli caldei in occasione del “Digiuno di Ninive” o “Ba-oota d’ Ninevayee” che fa memoria della conversione a Dio degli abitanti di Ninive a seguito della predicazione del profeta Giona.
Il periodo di digiuno e preghiera si celebra il lunedì, il martedì ed il mercoledì della quinta settimana dell’anno solare – quest’anno il 25, 26 e 27 gennaio – due settimane prima dell’inizio della Quaresima.
In questi giorni i fedeli sono invitati a digiunare completamente o astenersi, dall’alba al tramonto, dal mangiare pesce, carne e derivati del latte. Nel testo, il patriarca esorta i fedeli “a pregare per la salvezza dall’epidemia di Coronavirus, a contemplare il significato della nostra esistenza e ad assumerci le nostre responsabilità verso i fratelli, a essere solidali con i malati di Coronavirus e altre malattie e con tutti coloro che hanno perso il lavoro e ogni forma di sostentamento”. Dal cardinale anche un forte invito a pregare per “la pace, la sicurezza e la stabilità dell’Iraq e della Regione messa a dura prova da guerre e conflitti. Preghiamo anche per la buona riuscita della visita di Papa Francesco a marzo. Ascoltiamo le sue parole come il popolo di Ninive udì quelle di Giona, così da avere una vita migliore”.

19 gennaio 2021

Riunione dei vescovi cattolici in Iraq in preparazione della visita papale.

By Baghdadhope*

Foto Patriarcato caldeo.

Si è svolta nella sede del patriarcato caldeo a Baghdad la riunione dei vescovi cattolici in preparazione della annunciata visita papale di marzo.
Riporta la notizia il sito del Patriarcato caldeo. 

Alla riunione erano presenti in tutto 17 porporati perchè, ricordiamo, a dicembre dello scorso anno Mons. Rabban Alqas, vescovo caldeo di Dohuk, è stato sostituito per motivi di salute dal vescovo di Mosul come amministratore pro-tempore. 
Per la chiesa caldea, la compagine ovviamente più numerosa, erano presenti il Patriarca, Cardinale Louis Raphael Sako, i suoi vescovi ausiliari, Mons. Basel Yaldo e Mons. Robert Jarjis, il vescovo ausiliare emerito di Baghdad, Mons. Shleimun Warduni, il vescovo di Bassora, Mons. Habib Alnaufali, il vescovo di Mosul, Mons. Najib Mikhael O.P. quello di Kirkuk, Mons. Thomas Yousef Mirkis, quello di Erbil, Mons. Bashar Matti Warda, quello di Alqosh, Mons. Mikha P. Maqdassi e quello di Zakho, Mons. Shabi Felix Dawood

Per la chiesa siro cattolica erano presenti Mons. Youhanna Butrous Moshe, vescovo di Mosul, Mons. Ephrem Yousef Abba, vescovo di Baghdad, Mons. Athanasius Firas Dardar, Vicario patrarcale per Bassora e il Golfo e Mons. Nathaniel Nizar Seeman, alla guida della diocesi di 
Hadiab - Erbil e tutto il Kurdistan.

La chiesa latina era rappresentata dal vescovo di Baghdad Mons. Jean Benjamin Sleiman e dal Nunzio Apostolico, Mons. Mitja Leskovar, e quella armena dall'amministratore patriarcale Mons. Yousef Nerses Zabarian.   
        

La Ministra cristiana Evan Jabro risponde alle polemiche sul processo di chiusura dei campi profughi

In Iraq il programma di chiusura dei campi profughi e il ritorno degli sfollati interni alle rispettive aree di provenienza procede a ritmi intensi, ma ai risultati positivi già pubblicizzati dalle autorità politiche irachene fanno da contrappeso critiche e polemiche di diversa provenienza.
A guidare il piano di chiusura dei campi di accoglienza profughi è la cristiana caldea Evan Faeq Yakoub Jabro, attuale Ministra irachena per l’immigrazione e i rifugiati.
In una recente intervista a al Monitor, Evan Jabro ha riferito che "Su 76 campi di sfollam (sic!) prima della formazione dell’attuale governo, solo 29 campi sono ancora aperti", confermando che le autorità governative irachene puntano a completare la chiusura di tali strutture entro la fine dell’anno.
Negli ultimi mesi, secondo le fonti ufficiali del governo, almeno 66mila sfollati interni iracheni avrebbero fatto ritorno alle proprie case. Ai numeri e ai risultati positivi vantati dal governo, fanno da contraltare le polemiche concentrate soprattutto sui metodi utilizzati per chiudere i campi e spingere i loro “ospiti” a far ritorno alle terre da cui erano fuggiti.
La ministra Evan Jabro, in interviste e dichiarazioni ufficiali, continua a ripetere che ogni ricollocamento dei rifugiati nelle proprie aree di provenienza avviene in maniera concordata con le autorità locali e sempre su base volontaria, potenziando anche l’assistenza e le misure di protezione sanitaria per chi rimane nei campi profughi.
Nel contempo, gruppi di rifugiati e volontari coinvolti nella loro assistenza segnalano casi – come quello del campo di Habbaniyah, nella Provincia di Niniveh – dove la chiusura della struttura ha lasciato centinaia di famiglie senza dimora e senza la possibilità concreta di trovare sistemazioni alternative. A novembre, il piano esposto dal governo di Baghdad prevedeva di completare la chiusura di tutti i campi profughi disseminati sul territorio nazionale entro marzo 2020.Ma la realizzazione del piano si è rivelata tutt’altro che agevole, e i tempio si sono allungati. Molti dei campi accolgono sfollati interni fuggiti dalle regioni nord-irachene che nel 2014 erano cadute sotto il dominio jihadista dell’auto-proclamato Stato Islamico (Daesh).
La volontà governativa di chiudere i campi risponde a esigenze economiche, sanitarie – legate alla pandemia da Covid-19 - e di ordine pubblico, e le difficoltà nella realizzazione del piano sono dovute in alcuni casi anche alle resistenze di molti profughi che non intendono fare ritorno alle rispettive aree di provenienza, dove la perdurante insicurezza e la mancanza di lavoro rendono difficile immaginare un futuro sereno per le proprie famiglie.
Evan Jabro, chiamata nel giugno 2020 a gestire le politiche del governo iracheno riguardo alla emergenza migratoria e del ricollocamento degli sfollati interni, insegna biologia e si è distinta in passato per l’attenzione alle emergenze sociali riguardanti le giovani generazioni, solitamente trascurate dai blocchi che dominano la politica irachena. In passato, Evan Jabro ha lavorato con la ONG Al-Firdaws, fondata da Fatima Al-Bahadly nel 2003, e impegnata a elaborare progetti sociali e di lavoro indirizzati soprattutto a donne e giovani. La Ministra ha ricoperto anche il ruolo di consigliere del Governatore di Mosul per le questioni relative alle minoranze, e alle elezioni politiche irachene del maggio 2018 aveva concorso come candidata all’assegnazione di uno dei 5 seggi riservati alle minoranze cristiane, secondo il “sistema delle quote”.

Iraq makes major progress in closing camps for the displaced

January 15, 2021

Three years after Iraq officially declared victory over the Islamic State (IS), a new batch of over 3,000 of those displaced by the terror group have returned to their homes from Salamiyah camp in Ninevah governorate.
The development is part of Iraq's Ministry of Migration and Displacement plan to close this camp and others, the ministry announced Jan. 9. The ministry is planning to close all the displacement camps across Iraq this year.
 “This is the first government to create a comprehensive plan to bring the displaced persons back to their areas of origin,” said Minister of Migration and Displacement Ivan Faiek Jabru, one of three female ministers in Prime Minister Mustafa al-Kadhimi’s government.
 “We accepted the responsibility to seriously implement this strategy,” she told Al-Monitor, pointing out that previous ministries had focused only on distributing food rations and providing health services.
“There were neither voluntary return efforts nor camp closures, and not even support to refugees abroad,” she added.
Over the past six months, more than 66,600 internally displaced persons (IDPs) have returned to their homes.
“Out of 76 displacement camps before the formation of this government, only 29 camps are still open,” said Jabru. “Still, we increased the food rations … to ensure food security and to cope with the impact of the coronavirus pandemic.”
Ninevah’s Salamiya camp and Anbar’s Amiriyat Fallujah camp will be shut down within days.
 “We still need time to solve security and tribal problems for Jada’ah camp, to the south of Mosul,” Jabru noted. “As for the Kurdistan Region’s camps, we are about to conduct a special visit to coordinate an effort to close 10 camps in the first phase [of closures]."
The minister emphasized that no one will be forced to go back home.
However, there was a great deal of criticism from IDPs and relief workers that the displaced are being forced to return home or to move to other camps. They also criticize the government for not ensuring necessary safeguards for their return. The government denies the accusations.
“It is 100% voluntary return,” confirmed Jabru. “We worked hard to remove the obstacles by creating a suitable environment, reconstructing their houses, providing job opportunities, holding national reconciliation workshops and establishing income-generating projects.”
After he fled his hometown of al-Qaim on the border with Syria to Turkey in 2014, Omar al-Ta’i's relatives and neighbors sought refuge in displacement camps inside Iraq. “Most of my relatives in al-Qaim and Rummana voluntarily came back to their homes,” the 27-year-old teacher told Al-Monitor. “Still, some are struggling financially. Their areas are safe now and the camps should be closed. But some want to stay there due to the lack of services, jobs or places to live.
Ahmed al-Ghurairi, a representative of the International Rescue Committee’s protection program who works in western Anbar, criticized the move. “Some were forced to leave the camps recently,” he told Al-Monitor. “Especially the families from al-Qaim. Most of them have neither homes nor jobs; the infrastructure is destroyed and the economy is in a deplorable state.” 
 Mustafa, a displaced man who lives and works in Habbaniyah displacement camp and gave a pseudonym for security reasons, told Al-Monitor, “About 100 families cannot go back home and might be forced to leave or move to Amiriyat Fallujah camp.” 
Although the Habbaniyah camp was officially declared closed in November 2020, over 200 families still remain since they have nowhere else to go. 
However, Jabru denied the use of force in returning the displaced to their homes. She told Al-Monitor that if families do not want to return home for any reason, “we do not force them at all.” She said that if a given camp only has a few families remaining, it may “ask them to move to another camp to maintain the quality of service provided to them." 
 The government hopes to ensure the return of all IDPs, some of whom have lived for six years in camps with poor educational and health services, and faced abuse. “We implemented sustainable solutions to bring the people back and guarantee their welfare while we continue providing relief for them,” Jabru said. “We have distributed 300 flats in Maysan governorate, in the southeast of Iraq, for displaced families; restored 1,600 houses in Anbar and Ninevah; built 490 caravans to house displaced families; and built 41 other caravans as makeshift schools in Ninevah and Diyala in the past six months." 
The ministry has resumed issuing approvals to allow people to return to their hometowns in tense areas like Sinjar and Jurf al-Sakhar, after working to prevent the release of former IS members. "The approvals to return home — needed to cross various checkpoints — took around 20 days to obtain,” 
Qahtan Shaqqo, a young Yazidi man who returned to Sinjar six months ago from a camp in Dahuk, told Al-Monitor. As of 2019, more than 250,000 Iraqis were awaiting asylum in neighboring countries. 
Due to the scope of this problem, Jabru has focused the ministry’s efforts on helping refugees whose asylum applications were rejected to return home. “Over the past three months, 800 citizens have returned from Turkey and Europe,” she said. “We have granted 379 land plots to some of these refugees along with a repatriation allocation of 4 million Iraqi dinars [$2,740] each to encourage them to come back.” 
 Another 13,000 internally displaced families were granted funding of 1.5 million Iraqi dinars ($1,025) each, Jabru noted. Shaqqo and Ta’i are hoping to obtain these grants, saying some of their acquaintances already have. “Most of the people in Ramadi got those grants,” said Ta’i. “However, those in the regions to the west of Anbar haven’t got them yet, including my father. We haven’t been compensated for the damage done by aerial bombardments on our house and brand-new car. We have lost almost everything.” 
While many IDPs like Fahad Sultan, a Muslim Kurd who returned to his village on the outskirts of Sinjar after six years in Dahuk, hoped to resume normal life, they encountered unemployment, destroyed cities and infrastructure, tribal conflicts and unexploded ordnance. Ghurairi said that IS militants have recently destroyed transmission towers in al-Qaim. “Some families live below the poverty line, and families who depend on female breadwinners are prone to exploitation,” he explained. 
The Migration and Displacement Ministry acknowledges these challenges and expresses determination to continue the efforts to resolve these obstacles. “We are organizing visits to the Kurdistan Region to facilitate the rapid return of families,” Jabru concluded. “The same goes for Jurf al-Sakhar, due to the area’s unstable security situation and the presence of unexploded ordnance. It is difficult for families to return at the present time.”

18 gennaio 2021

Il cardinale Sako: “L’Iraq aspetta il Papa, messaggi di pace anche per Siria e Libano”

By La Stampa - Vatican Insider
Salvatore Cernuzio 
15 gennaio 2021

«Papa Francesco verrà in Iraq, le precauzioni per il Covid non significano che ha cambiato idea. La gente, inclusi i musulmani, ha bisogno di una sua parola».
È quasi un appello, al Papa e a Dio, quello del cardinale Louis Raphaël Sako, patriarca caldeo di Baghdad, perché non salti il viaggio del Pontefice annunciato per il 5-8 marzo 2021.
Trasferta resa incerta dall’evoluzione dell’emergenza sanitaria ed eventuali problemi di sicurezza.
«Faremo di tutto per accogliere il Santo Padre nel migliore dei modi», dice a Vatican Insider - La Stampa il patriarca che ha diffuso una “Preghiera per la visita del Papa” da recitare ogni domenica durante le messe.

Eminenza, l’ultima dichiarazione di Francesco è stata: «Non so se il prossimo viaggio in Iraq si farà». Verrà il Papa nella vostra terra, sì o no?
«Sì, verrà. Speriamo a marzo, come annunciato, ma naturalmente tutto dipende dalla situazione sanitaria. Se l’ha detto, il Santo Padre lo farà. In Iraq verrà sicuramente. Lui conosce la situazione della pandemia e non vuole creare danno a nessuno, ma la cautela non significa che abbia cambiato idea, l’intenzione c’è. Nei giorni scorsi, poi, è arrivata a Baghdad la delegazione vaticana per i controlli di sicurezza. Sono andati ad Erbil, Mosul, Qaraqosh».
Si può dire che il Papa verrà principalmente per i cristiani perseguitati? È una chiave di lettura corretta o una forzatura?
«È una interpretazione settaria che ci fa anche del male. Papa Francesco viene per tutti gli uomini dell’Iraq, non farà discorsi solo per i cristiani. È naturale che loro avranno un posto speciale lungo tutto il viaggio: hanno sofferto per gli interventi militari, sono stati costretti a fuggire… Ma tutti gli iracheni hanno sofferto! Quindi il Papa incoraggerà, sì, i cristiani a perseverare e ricostruire la fiducia nel futuro, ma allo stesso tempo parlerà con i musulmani sul dialogo, sul rispetto delle religioni, sulla pace. Siamo “fratelli tutti” e non solo a livello religioso ma anche politico, quindi il Papa si rivolgerà ad ognuno di noi. E con i suoi discorsi parlerà anche a Paesi vicini come Siria, Libano, Yemen che vivono le nostre stesse situazioni».
Lei ha denunciato in diverse occasioni il rischio del settarismo da parte delle comunità cristiane. Perché?
«Per i cristiani è un vero e proprio pericolo ridursi a delle sette. Le manifestazioni atroci di violenza e persecuzione del passato hanno creato un’atmosfera di paura che impedisce loro di crescere e svilupparsi. È come se fossero una minoranza super protetta e ciò li rende quasi un corpo estraneo nel tessuto sociale. Questo non può avvenire per i cristiani che hanno insito nella loro missione l’aprirsi per aiutare e creare reti di solidarietà».
Crede che anche gli aiuti economici dall’estero o molte campagne a favore dei cristiani perseguitati siano, in tal senso, controproducenti
«L’esodo, purtroppo, ha creato una mentalità di chiedere aiuto sempre da fuori e le forme di sostentamento non danno certamente una spinta a lavorare, sviluppare sé stessi, fare qualcosa. Diciamo che è la mentalità di consumo che non aiuta, bisogna uscirne perché ora tocca ai cristiani aiutare gli altri. E già l’hanno fatto! Quando lanciamo qualche progetto, tante famiglie sono in prima linea per aiutare con il poco che hanno. Penso al terremoto a Cuba, qualche anno fa, o alla recente pandemia per cui hanno stanziato 10mila dollari. È una cifra simbolica ma pur sempre un gesto. I cristiani in Iraq oggi devono aprirsi e collaborare col governo per costruire uno Stato democratico, non settario. Devono, insomma, uscire e non aspettare che tutto venga dagli altri, ma anzi avere un ruolo attivo nella vita sociale e politica del Paese».
Dai giovani c’è una spinta al cambiamento? La mobilitazione pacifica di Baghdad dell’ottobre scorso è sembrata un segno del desiderio di partecipazione di tanti cittadini affratellati fra loro.
«Noto una presa di coscienza da parte delle nuove generazioni irachene, in particolare le donne che rivestono ruoli di leadership. Anche i responsabili di governo auspicano un cambiamento concreto. Non è una strada facile, ci sono ostacoli, prima di tutto le milizie e poi alcuni partiti settari con le loro ideologie fondamentaliste. Insisto: i cristiani possono contribuire al cambiamento, invece di aver paura e chiudersi in casa».
Ha parlato di una possibile visita del Papa a Najaf, città santa degli sciiti, per la firma con l’ayatollah Ali al-Sistani del documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi. Ha conferme di tale evento o rimane un’ipotesi?
«Condividiamo questo desiderio con gli sciiti e abbiamo parlato con la Santa Sede di quanto sarebbe importante una simile visita. I capi sciiti hanno un ruolo importante nella zona e il Papa è un uomo del dialogo, ha il carisma di parlare con i musulmani. Siglare un documento sulla fratellanza umana sarebbe un gesto enorme, con un impatto positivo anche per la presenza cristiana. Al momento, però, non abbiamo risposte».
Il programma ufficiale non è ancora stato reso pubblico, ma si sa che Francesco visiterà Baghdad, Ur, Mosul, Qaraqosh, Erbil. In questi appuntamenti saranno presenti anche rappresentanti ebraici?
«Sì, abbiamo suggerito che un capo delle poche famiglie ebraiche di Baghdad possa partecipare alla celebrazione interreligiosa di Ur. Si tratta di una preghiera comune alla quale saranno presenti cristiani e musulmani, sciiti e sunniti, ma anche yazidi, mandei e via dicendo. È molto importante che la presenza di giudei sia favorita e promossa, anche per evitare il rischio di politicizzazione e ghettizzazione».
Cristiani, ebrei, musulmani, tutti insieme con il Papa. Può realizzarsi così quel sogno di padre Paolo Dall’Oglio (che lei conosce bene) di un cammino delle tre religioni monoteiste da Ur sulle tappe di Abramo
«Più che un sogno credo che sia l’unica soluzione. Senza dialogo, senza unità, non avremo futuro. Noi siamo fratelli, nella fede crediamo in un solo Dio. Le assicuro che molti, soprattutto musulmani, aspettano una parola del genere. Negli ultimi anni in Iraq abbiamo sentito solo il clamore delle armi, il rumore della morte e della distruzione. Basta! Vogliamo la pace. I musulmani hanno sete di questo: i capi, come il popolo».
 Anche perché c’è una pandemia che, come ha sempre detto il Papa, mette tutti sulla stessa barca…
«La media dei contagi in Iraq è del 3%. Il coronavirus si è abbattuto in modo lieve sul Paese rispetto ad altri, forse perché abbiamo già sofferto tanto. L’emergenza ha però unito gli uomini, ho visto una grande solidarietà tra le persone. Parlo di aiuti alle famiglie a cui mancava il cibo, di iniziative dei giovani per i bisognosi o per i bambini. Ad esempio, a Natale alcuni ragazzi musulmani si sono travestiti da Babbo Natale e hanno distribuito regali, senza distinzione di religione. L’emergenza ha suscitato un risveglio morale, molti musulmani hanno fatto cose che prima facevano solo i cristiani tra loro. Sono stati proprio alcuni sciiti e sunniti ad aver suggerito una conferenza interreligiosa alla presenza del Papa a Baghdad, dove invitare sceicchi, capi religiosi, capi tribù, partiti politici. Tutti uniti come segno di riconciliazione. Per organizzare una cosa del genere però ci vuole tempo, ma l’annuncio del viaggio ci ha colto di sorpresa».
Oltre al Covid, ci sono rischi di sicurezza?
«Al momento non c’è nessun pericolo. Poi non so se domani scoppierà un conflitto tra Iran e Usa che complicherà tutto. Mi auguro di no… Il governo prenderà ogni misura possibile per proteggere il Santo Padre. Tutti lo aspettano, tutti gli vogliono bene, anche da Siria e Libano. Venendo in Iraq è come se visitasse anche quelle terre. Perciò lo incoraggiamo: Santità, la aspettiamo!».

14 gennaio 2021

Qaraqosh, una statua della Madonna sulla chiesa distrutta dall’Isis


Foto Ankawa.com

Questa mattina i cristiani di Qaraqosh, il più importante centro cristiano della piana di Ninive, nel nord dell’Iraq, hanno celebrato la posa di una statua della Madonna sul campanile della chiesa siro-cattolica della Vergine Maria. Un luogo di culto caro ai fedeli della zona, distrutto dai miliziani dello Stato islamico (SI, ex Isis) durante il periodo dell’occupazione dalla seconda metà del 2014 che lo avevano incendiato e nel avevano devastato tutti i simboli cristiani presenti all’interno. La struttura è stata ricostruita negli ultimi anni grazie agli sforzi e all’impegno di tutta la comunità locale. 
“Il campanile di questa chiesa, la più grande della piana di Ninive, era stato raso al suolo ai tempi della liberazione, con un missile o una bomba, non si sa di preciso” racconta ad AsiaNews don Paolo Thabit Mekko, responsabile della comunità cristiana a Karamles, nella piana di Ninive, nel nord dell’Iraq. “Del campanile - prosegue il sacerdote - era rimasta solo una parte, che è stata ricostruita e, questa è una novità, si è deciso di piazzare sulla sommità una statua della Madonna, come abbiamo fatto noi due anni fa a Karamles”.
La chiesa di Qaraqosh, nome mutuato dall’impero ottomano turco che i cristiani preferiscono chiamare con il nome aramaico di Bakhdida, è dedicata “all'Immacolata, alla purissima” spiega don Paolo, e per questo “al momento della ricostruzione si è voluto mettere anche una statua”. Ad eseguire l’opera, aggiunge, “è stato un artista cristiano locale, uno scultore chiamato Thabit Michael che ha realizzato in passato anche una statua della Madonna per la chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso a Baghdad”, teatro della strage per mano di al-Qaeda nel 2010.
Nell’estate del 2014 l’Isis ha invaso Qaraqosh distruggendo le case, devastando le chiese, la biblioteca e gli altri luoghi di interesse della città. Decine di migliaia di famiglie hanno dovuto abbandonare in tutta fretta le loro abitazioni, in quello che è stato a lungo il centro cristiano più importante della piana di Ninive. La cittadina è stata liberata dal giogo jihadista due anni più tardi, nel 2016. Al rientro - ad oggi ancora parziale - le famiglie hanno trovato i segni dei saccheggi e delle devastazioni. Gli uomini del “Califfato” avevano bruciato o depredato la gran parte del patrimonio culturale e letterario; tuttavia, grazie all’impegno di organizzazioni caritative cristiane e di altre realtà, fra le quali la Chiesa siro-cattolica, nel settembre dello scorso anno ha riaperto la biblioteca che, in poco tempo, è diventata un punto di riferimento per la zona.
“L’evangelizzazione nella nostra terra, che aspetta la visita di papa Francesco” fra dubbi e incertezze, spiega il sacerdote, “passa anche attraverso l’arte che è fondamentale per mantenere l’identità. E il nostro Thabit Michael non è solo un vero artista, ma è anche un cristiano devoto alla propria terra, che vuole farla rinascere anche attraverso le sue opere. A lui si deve anche la statua della Madonna nella più antica e importante chiesa di Mosul, che tutti noi speriamo di ricostruire dopo che è stata devastata dall’Isis”. 
Oggi la situazione nella ex roccaforte del califfato e nella piana di Ninive per don Paolo è “tranquilla, si registrano alcuni movimenti ma nulla di preoccupante”. Anche la pandemia non ha interrotto la vita delle comunità, a Karamles da due mesi non si registrano casi e in tutta l’area i timori delle persone sono rivolti molto più alla crisi economica e alle difficoltà legate alla ricostruzione: “Per noi - conclude il sacerdote caldeo - la preoccupazione è rivolta all’inflazione, all’aumento dei prezzi e del rapporto fra dollaro e valuta locale. Tutto questo rende molto più difficile il compito di ricostruire e rappresenta un ulteriore incentivo alla fuga per i giovani, che non vedono nuove prospettive”.