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28 febbraio 2007

Il nuovo incubo degli iracheni: la SERIE G!

Tra i problemi che affliggono gli iracheni, in patria o all'estero, se ne affaccia uno nuovo. Un intoppo burocratico che rischia di vanificare gli sforzi di molti di ricostruirsi una vita e che riguarda una lettera, la lettera G che può fare la differenza.

“…abbiamo la responsabilità di rispondere ai bisogni immediati degli iracheni che sono fuggiti dalla violenza e dalle persecuzioni.”
Con queste parole il sottosegretario di stato americano Paula Dobriansky ha annunciato la decisione dell’amministrazione USA di ammettere 7000 iracheni sul proprio territorio nel 2007.

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La dimensione del problema è così ampia che niente è abbastanza ma, in ogni caso, è un buon inizio,” così Antonio Guterres, funzionario dell’UNHCR (Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite) che nel suo ultimo rapporto sulla crisi irachena ha scritto di due milioni di persone in fuga dal paese verso l’estero e di un milione e settecentomila sfollati interni, ha descritto l’iniziativa americana. Una iniziativa che, si deve ricordare, è stata dovuta non tanto a generosità o a partecipazione al dramma di queste persone, quanto piuttosto alle pressioni internazionali che hanno messo in luce come gli Stati Uniti, dall’inizio della guerra del 2003 fino alla fine del 2006, abbiano accettato solo 466 iracheni sul proprio territorio.
Per quanto tardiva, comunque, l’iniziativa americana ha dato speranza a migliaia di persone già in possesso del visto per gli USA o decisi ad ottenerlo. Certo le parole della Dobriansky non significano immigrazione incontrollata: “rigorosi controlli di sicurezza e sanitari saranno effettuati sugli iracheni prima che sia concessa loro la possibilità di entrare nel paese” ha infatti precisato Ellen Sauerbrey, assistente segretario di stato per la popolazione, i rifugiati e l’immigrazione.
Nell’ambito delle severissime misure di sicurezza adottate dagli USA del post 11 settembre un tale controllo è certo apparso agli occhi degli iracheni perlomeno atteso, quello che certamente essi non si sarebbero aspettati è che dall’8 di gennaio scorso è diventato per molti di essi, anche se già in possesso di visto per gli USA per motivi di studio o lavoro, quasi impossibile entrare nella “terra promessa.”
Quel giorno, infatti, e con effetto immediato, il Dipartimento di Stato USA ha dichiarato la non validità dei passaporti iracheni che iniziano con la lettera S perché non corrispondenti agli standards di sicurezza.
Per capire ciò che questa dichiarazione significa bisogna far luce sulla questione dei passaporti iracheni. Prima della guerra del 2003 esistevano tre serie di documenti che iniziavano, rispettivamente, con la lettera M, N o H, dopo la guerra sono stati emessi passaporti di serie S, e dall’aprile del 2006 il governo iracheno in carica ha emesso quelli di serie G.
Un iracheno, quindi, potrebbe avere avuto nel giro di 4 anni anche tre passaporti: serie M o N o H, serie S e serie G.
La serie M è stata recentemente dichiarata non più valida dal governo iracheno mentre la validità della serie N è stata estesa fino alla fine del 2007. La serie H, emessa dal regime iracheno poco prima della guerra, ma estremamente rara, è ancora considerata valida persino dagli Stati Uniti che invece rigettano la S ed accettano la G.
Il problema, per quanto confuso, non sembrerebbe complicato da risolvere. Anche noi italiani abbiamo bisogno, da dopo l’11 settembre, di un passaporto particolare per recarci negli Usa, perché mai gli iracheni non dovrebbero sottostare alle stesse regole? Perché, sebbene l’amministrazione USA li inviti a contattare la più vicina ambasciata per scoprire come ottenere un passaporto di serie G, l’ambasciatore iracheno negli USA Samir Sumaida'ie ha rivelato che “nessuna delle 50 sedi diplomatiche irachene nel mondo è in grado di emettere i nuovi passaporti serie G. ”
Qual è quindi la soluzione per quegli iracheni che, già rifugiati fuori dal proprio paese, attendono di poter entrare negli USA perché già hanno un visto o perché contano di far parte dei famosi 7000 fortunati del 2007?

Ma è semplice! Recarsi nell’unico posto al mondo dove i passaporti di serie G vengono emessi: Baghdad!

Immaginiamo quindi un iracheno rifugiato in Giordania che debba:
1. Tornare nel paese dal quale è fuggito e recarsi a Baghdad, certamente la città più pericolosa del mondo
2. Pagare dai 500 ai 1000 $ per ottenere il nuovo documento “saltando” per così dire la lista dei richiedenti che non hanno i soldi per “velocizzare amichevolmente” le pratiche
3. Sperare di poter poi tornare in Giordania, cosa questa non sicura e molte volte legata solo alla buona o cattiva disposizione d’animo delle guardie di frontiera, come racconta Cathy Breen, operatrice umanitaria ad Amman.
Poniamo poi che quello stesso iracheno riesca a superare tutti questi ostacoli e ritornare sano e salvo ad Amman con un passaporto serie G nuovo fiammante. Se ancora non ha un visto per gli States dovrà ricominciare la trafila, magari già avviata, per ottenerlo. Se, invece, possiede uno dei 1119 visti per studio o lavoro concessi dagli USA da settembre a dicembre 2006, ma non ha ancora messo piede sul suolo americano dovrà, come ultima beffa, non solo chiederlo nuovamente, quanto pagarlo una seconda volta.
“Life is difficult” dice il mio amico iracheno Ibrahim, e bisogna ammettere che anche in questo caso ha ragione.

Di Baghdadhope

Fonti varie:


Conferenza di Baghdad: risposte concrete e non buone ma vuote parole

Fonte: SIR

Finalmente la politica internazionale si sveglia sull’Iraq. Ora l’auspicio è che dal prossimo summit escano soluzioni concrete e condivise che facciano il bene dell’Iraq e del suo popolo che soffre. Il popolo iracheno deve essere rispettato e non oppresso. Servono risposte concrete e non buone ma vuote parole”
.
Esprime soddisfazione padre Philip Najim, procuratore caldeo presso la Santa Sede alla notizia della conferenza internazionale che si terrà a Baghdad, su iniziativa del governo iracheno, il prossimo 10 marzo. All’incontro sono stati invitati i Paesi confinanti con l’Iraq, i 5 Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la Lega Araba, l’Onu, l’Egitto e il Bahrein. Siria e Usa hanno già aderito all’invito. “Si tratta di presenze importanti – dichiara al Sir il procuratore caldeo – solo con il dialogo si può giungere ad una soluzione dei problemi del Paese, primo fra tutti la stabilità. L’Iraq e il suo popolo deve tornare a disporre delle proprie risorse, la sua libertà deve essere rispettata. Dalla conferenza di Baghdad mi attendo, quindi, risultati concreti per il bene dell’Iraq – conclude padre Najim - La Chiesa da sempre favorisce il dialogo e incoraggia il vertice. Che serva a porre le basi di un nuovo Iraq, libero, riconciliato e pacificato”.

27 febbraio 2007

Storia minima di una famiglia irachena di origine palestinese.

Dedicato ad Ibrahim K. Un amico.

La voce è di Ibrahim è affaticata, roca. Molto diversa da quella con cui nelle notti calde della Baghdad di prima del 2003 cantava in un italiano stentato una famosa e vecchia canzone di Mina: “Nessuno, ti giuro nessuno…” Tanto diversa che stento a riconoscerla. Erano mesi che non la sentivo. I nostri contatti viaggiano ormai quasi solo attraverso la posta elettronica. E’ così che ci scambiamo gli auguri per Natale e per il Ramadan, così che in questi anni ho visto quanto sono cresciuti i suoi figli e quanto lui è invecchiato.

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E’ un amico Ibrahim. Una persona gentile e mite, sempre pronto a risolvere i nostri problemi, a farci compagnia, a dividere con noi la sua città facendocela esplorare. Eppure Ibrahim non è iracheno. Sì, certo, è nato a Baghdad e così i suoi figli, ma è e rimarrà sempre un palestinese, figlio di un padre morto da decenni e di una madre coraggiosa che nel 1948 si chiuse alle spalle la porta di una casa che non sarebbe mai stata più sua e partì verso l’Iraq per ricostruirsi una vita. A Baghdad Ibrahim ha studiato, lavorato, si è sposato e ha messo al mondo quattro figli, l’ultimo dei quali era nato da pochissimo quando ci recammo per l’ultima volta in Iraq prima della guerra del 2003.
Ora la famiglia di Ibrahim fa parte di quel freddo computo dei “rifugiati iracheni all’estero.” Due milioni di persone che sono sfuggite al terrore, alle bombe, ai rapimenti, alla normale violenza di una città dove vivere è solo questione di fortuna.
Prima della guerra Ibrahim faceva il commerciante. Negli anni era passato da un bugigattolo del centro della città dove vendeva accessori per le calzature ad un elegante ufficio in una bella villa a due piani in uno dei quartieri per ricchi. E ricco negli anni Ibrahim era diventato. Lo testimoniavano l’ufficio, l’auto, il numero di uomini che lavoravano per lui e con lui, la casa in cui facevano bella mostra elettrodomestici e gadgets elettronici impossibili da acquistare per la maggior parte degli iracheni piagati dalle durissime sanzioni economiche. Ma non faceva politica Ibrahim. Mai una parola, mai un commento sul regime, sul suo capo, sui suoi metodi. Connivente? Forse, o forse, come quasi tutti i suoi connazionali senza scelta. Ricco perché avvantaggiato da rapporti particolari con il regime? Forse, o forse solo abile commerciante. Colpevole? Di cosa? Di aver cercato di sopravvivere, ed anche “meglio vivere” seguendo le regole del gioco spietato che il regime imponeva a tutti? Non c’erano alternative. Non per lui, iracheno di origine palestinese. Era la sua vita. “Life is difficult,” la vita è difficile, ci diceva in alcuni momenti di scoramento. Quando ci accompagnava a visitare gli ospedali o le strutture mediche cui avremmo lasciato i farmaci che portavamo dall’Italia, o quando lo scoprivamo allungare dei dinari ad un mendicante, ad un ragazzino che gli aveva appena imbrattato il vetro dell’auto nel tentativo di pulirlo. Quando ci descriveva la Baghdad degli anni 70, ricca, potente, omaggiata, paragonandola a quella città fantasma sempre pronta a dimenticare una guerra per prepararsi a quella successiva. Quando, prima della guerra annunciata partì per la Giordania portando con sé non solo la sua famiglia, ma anche tutti i figli dei suoi fratelli e delle sue sorelle nel tentativo di salvare almeno i bambini. “Cosa posso fare?” mi chiedeva al telefono. “Non vorrei lasciare Baghdad ma i bambini sono piccoli, devono salvarsi.”
Poi venne la guerra e la caduta del regime. E che sollievo ricevere una sua telefonata, sapere che i componenti della sua famiglia rimasti a Baghdad erano tutti salvi, compresa la sua vecchia madre. Col passare dei mesi però il tono delle sue telefonate iniziò a cambiare, la sua voce a farsi stridula, addirittura balbettante. Chi era rimasto in Iraq era costantemente in pericolo, chi, come lui, era riparato in Giordania, stava esaurendo i soldi. Era impossibile avviare un’attività commerciale senza un capitale di partenza e l’unica soluzione fu quella di tornare in Iraq. Gli americani controllavano l’economia del paese, i contratti che il precedente regime aveva stipulato sotto l’egida delle Nazioni Unite e del piano “Oil for food” erano stati annullati, ed Ibrahim dovette inventarsi un lavoro. Cercò di importare attrezzature per la potabilizzazione dell’acqua, un campo che, considerando lo stato delle infrastrutture idriche del paese si pensava vantaggioso, e tanto lo era che lui, piccolo imprenditore, ne rimase subito tagliato fuori. Intanto Baghdad, ed il quartiere di Adhamiya dove Ibrahim viveva, roccaforte sunnita nella parte orientale della città a sempre maggiore connotazione sciita, diventavano di giorno in giorno più pericolosi. “Quando esco al mattino non sono mai sicuro di tornare a casa” mi diceva con voce triste, “i bambini più grandi vanno a scuola quando la situazione è più calma, ma sempre accompagnati da un mio familiare armato, quelli più piccoli stanno facendo impazzire la madre, non possono uscire a giocare all’aperto, sono sempre chiusi in casa a guardare la TV e vicino al condizionatore se c’è la corrente o il gasolio per il generatore, o al buio ed al caldo se mancano. Non capiscono, sono troppo piccoli. La vita è difficile!”
Ibrahim resistette per un po’ ma nel 2005 fu chiaro che un cambiamento era necessario. La sua famiglia, compresi i suoi fratelli e le loro famiglie, dipendevano dalla sua abilità negli affari, dalla sua capacità di assicurare un’entrata seppur minima ma che desse loro la possibilità di sopravvivere.
Sfruttando vecchi contatti di lavoro riuscì a trasferirsi in un paese del Golfo da dove iniziò a mandarci le foto dei bambini, felici di poter andare di nuovo a scuola, di poter giocare in un giardino, di sapere che il loro papà sarebbe tornato a casa quella sera ed anche le altre. Sembrava che le cose stessero migliorando, ma poi venne l’attacco alla moschea sciita di Samarra e l’inizio del violento contrasto tra sunniti e sciiti che si sovrappose alla lotta contro le truppe straniere. La famiglia di Ibrahim rimasta a Baghdad è sunnita, ed in più è palestinese, “e per noi palestinesi non c’è più posto in Iraq, vogliono cacciarci via, ma dove andremo? Noi non abbiamo una patria, io non sono mai neanche stato in Palestina!” mi diceva partecipando di quel dolore come se fosse anche lui lì con loro e non in salvo nel Golfo. Ad uno ad uno i suoi familiari cominciarono a lasciare il paese. Prima l’anziana madre, due volte profuga, che si rifugiò da una figlia che aveva sposato un giordano e viveva ad Amman, poi fu la volta di un altro fratello sempre ad Amman e di un altro in Egitto. Ora solo una sorella vive a Baghdad, ha sposato un iracheno che lavora in un ministero e che non può lasciare il paese.
Ed ora, di nuovo, Ibrahim è disperato, tutta la famiglia è sulle sue spalle. Entrambi i fratelli sono senza lavoro, la Giordania e l’Egitto sono paesi che già soffrono di un’altissima disoccupazione e certo non c’è posto per gli iracheni. Quello in Egitto ha deciso di cercare lavoro nel nord dell’Iraq, quel Kurdistan in pieno boom economico; quello in Giordania, invece, sta cercando di ottenere un visto per la Germania dove alcuni conoscenti gli hanno promesso aiuto. Nessuno sa quale sarà la sorte di questa famiglia, una cosa però è certa: se i due fratelli riusciranno nei loro intenti essa sarà divisa tra quattro stati e due continenti.
Un epilogo amaro per chi già una volta ha dovuto lasciare la propria patria.
Due volte profughi.

Di Baghdadhope

26 febbraio 2007

IRAQ. Perché soffrire? Quaresima: i digiuni e le rinunce dei cristiani per il bene del Paese

Fonte: SIR

a cura di Daniele Rocchi


A cosa serve fare rinunce o penitenze quando già la vita è resa dura dalle continue violenze, dalla mancanza di cibo e di beni di prima necessità, quando non si possono avere acqua, medicine ed energia elettrica a sufficienza, quando non si riesce a fare un dono ai propri bambini perché non c'è lavoro sicuro? Vorrebbe non rispondere il vescovo caldeo, ausiliare di Baghdad, mons. Shelemon Warduni ma, dice, "siamo all'inizio di Quaresima e come cristiani vogliamo presentare a Dio le nostre rinunce e penitenze, che si aggiungono a quelle che vive tutto il popolo iracheno, per il bene e la pace della nostra amata nazione". "Sembra un paradosso - aggiunge - ma è così. Offriamo le nostre sofferenze per l'Iraq che vive nel caos più totale".

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In che modo i fedeli iracheni vivranno la Quaresima?
"Per la Chiesa caldea la Quaresima è cominciata il 19 febbraio. In questi quaranta giorni invitiamo i fedeli al digiuno e all'astinenza. In particolare questa prima settimana è di completa astinenza dalla carne, ma ci sono molti che non toccano cibo a mezzogiorno per tutto il tempo quaresimale. Altri non mangiano mai carne. Tutti i venerdì sono di astinenza dalla carne. Il Venerdì Santo è digiuno anche dal bianco (uova, latte e suoi derivati), è possibile mangiare solo pesce".

Che valore assumono digiuno e rinuncia nella già difficile condizione in cui versa la popolazione irachena?
"Sono rinunce che vanno ad aggiungersi alle privazioni che viviamo giornalmente in Iraq: i costi aumentano, le famiglie non hanno denaro a sufficienza per pagare i servizi basilari. L'elettricità viene erogata solo poche ore al giorno. Per non parlare dell'acqua potabile. Si registra carenza di cibo, di medicine e di infrastrutture. Ed è paradossale, poi, che un Paese ricco di petrolio come l'Iraq non abbia gasolio per i bisogni della sua popolazione. Non abbiamo sicurezza e stabilità, possibilità di lavorare e subiamo violenze e abusi. Nonostante ciò abbiamo chiesto ai nostri fedeli di presentare tutte queste difficoltà a Dio perché abbia a cuore le sorti dell'Iraq, dei suoi bambini, dei suoi malati, dei suoi anziani e dia pace e sicurezza. La sofferenza che viviamo unisce cristiani e musulmani. Non conosce differenze di religione o etniche. La violenza e la morte, penso alle stragi con le autobomba o kamikaze, non distinguono tra cristiani e musulmani, tra credenti e non credenti, a morire sono iracheni".

Ma i cristiani, che sono minoranza, vengono anche perseguitati...
"In effetti non abbiamo mai vissuto un periodo brutto come questo attuale. Abbiamo avuto tante persecuzioni ma mai così prolungate e virulente. Rapimenti e violenze, che colpiscono non solo noi, continuano ancora oggi anche se sembrano in diminuzione. Molti ostaggi vengono uccisi anche dopo il pagamento del riscatto. Da questa angolatura la nostra sofferenza sembra maggiore. Tanti cristiani stanno abbandonando le città più pericolose. Molte chiese, in alcune zone, sono vuote come a Dora. Da Natale non si celebrano più messe con regolarità perché è troppo pericoloso".

La situazione non sembra migliorare sotto il profilo della sicurezza. Vi radunerete ugualmente per le celebrazioni quaresimali?
"Abbiamo invitato i nostri fedeli a riunirsi nelle case per fare piccole Via Crucis, recitare il rosario o i vespri con l'ausilio di qualche laico impegnato o suddiacono. Stiamo pensando di celebrare una messa una delle prossime domeniche ma se la situazione non migliora non faremo nulla. E questo ci procura tanta sofferenza. I nostri fedeli cercano di celebrare insieme, riunendosi per nuclei familiari evitando di spostarsi per motivi di sicurezza. C'è anche chi riesce a spostarsi in macchina da un luogo all'altro della città per trovare una chiesa aperta. Ma sono pochi".

Nonostante le difficoltà la Chiesa irachena è viva. Pensiamo alle vocazioni al sacerdozio...
"Le vocazioni alla vita sacerdotale non mancano. Il seminario patriarcale caldeo è stato trasferito ad Ankawa, nel Kurdistan iracheno, per motivi di sicurezza. E proprio nella chiesa caldea di Saint Joseph ad Ankawa, recentemente, sono stati ordinati tre nuovi diaconi, uno a Baghdad. Attualmente nel seminario ci sono, oltre ai venticinque seminaristi, circa sessanta studenti, compresi una decina di laici consacrati, anche donne. I docenti sono circa trenta. Altri due diaconi sono stati ordinati a Bakhdida (Qaraqosh) dal vescovo siro cattolico di Mosul, mons. George Qas Musa. A novembre del 2006 nella stessa cittadina è stato inaugurato il nuovo seminario siro cattolico intitolato a Mar Ephrem. Sono segni speranza. La Chiesa irachena è piena di speranza nel Signore. Le cose si aggiusteranno, non sappiamo quando ma ne siamo certi".

Ha un'intenzione di preghiera particolare per la Quaresima?
"La pace e la riconciliazione. Chiedo a tutte le famiglie cristiane del mondo di ricordare nelle loro preghiere il popolo iracheno".


22 febbraio 2007

Il governo iracheno si dice pronto al controllo del sud del Paese: ne parla Monsignor Philip Najeem, procuratore caldeo a Roma

Fonte: Radiovaticana

di Stefano Leszczynski

In Iraq, almeno 3 persone sono morte per l'esplosione a Baghdad di un ordigno chimico. E' la prima volta che la guerriglia usa questo tipo di arma che rilascia sostanze tossiche subito dopo la deflagrazione. Il governo iracheno di Nouri al Maliki, non nasconde comunque il proprio ottimismo dopo l’annuncio del ritiro, a breve termine, di gran parte delle truppe britanniche. L'esecutivo di Baghdad – ha dichiarato al Maliki - è pronto ad assumere la responsabilità della sicurezza nel sud dell'Iraq, anche se ha poi specificato l’importanza del sostegno inglese nel processo di transizione. Ma come verrà accolta dagli iracheni la notizia della smobilitazione inglese? Stefano Leszczynski lo ha chiesto a mons. Philip Najeem, procuratore apostolico per i Caldei

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Il ritiro dei soldati è la dimostrazione di come siano veramente venuti a liberare l’Iraq e a offrire agli iracheni la libertà di scegliere il proprio futuro e costruire il proprio Paese. Dunque, appare davvero necessario ora che queste truppe tornino nel loro Paese. Rimane però da vedere – e questo non lo so – se vi sia un esercito iracheno stabile e in grado di difendere il Paese e per ricreare una situazione più pacifica.


In particolare, pesano sull’Iraq le inimicizie tra le diverse componenti del Paese, che il governo attuale non sembra a riuscire a tenere del tutto sotto controllo?"Il popolo iracheno oggi soffre e continua a soffrire, perché vuole la sua libertà per poter orientare il Paese verso una vita nuova. Il governo attuale sta incontrando grosse difficoltà per poter realizzare questa sicurezza e questa vita prosperosa per un popolo che aspetta ormai da anni di vivere almeno una normale vita quotidiana."


Quanto pesano sui cristiani iracheni le inimicizie interne all’Iraq?
"Veramente, ciò che pesa sui cristiani, su tutti i cristiani in Iraq, è quello che pesa su tutto il popolo iracheno, perché i cristiani in Iraq fanno parte del popolo iracheno, sono una parte integrante e molto importante del Paese stesso. Noi parliamo di una nazione a prescindere delle etnie, a prescindere dalle denominazioni che esistono in Iraq."


I cristiani in Iraq sono sempre meno, perché vanno via sempre di più. C’è pericolo che la popolazione cristiana dell’Iraq sia in qualche modo discriminata?
"E’ discriminata. Non possiamo negarlo. E questo come tutte le altre etnie in Iraq, perché c’è una forza anomala, c’è una forza oscura che vuole creare questa situazione anormale, creare degli ulteriori problemi al popolo iracheno. E si approfitta di qualsiasi occasione per creare instabilità, rallentare il processo di pace, il processo per un raggiungimento di una vita normale nel Paese. Quindi, i cristiani emigrano: emigrano come tutti gli altri che lasciano l’Iraq, per riuscire a svolgere una vita quotidiana pacifica. In Iraq non trovano più pace."


Bambini a Baghdad. Vittime della violenza, sulla strada, tra droga, prostituzione e abusi

Fonte: SIR

a cura di Daniele Rocchi

IRAQ
Ahmed Saffar, ha 7 anni, e vive nelle strade di Baghdad dove cerca con stratagemmi di racimolare qualcosa da mangiare. Orfano, con un fratello ed una sorella più grandi, gira tra i semafori chiedendo soldi agli automobilisti: "zio, dammi qualche soldo per mangiare" è solito ripetere. "Le donne - dice - non abbassano mai il finestrino, gli uomini, se insisto a chiedere, mi picchiano, i più generosi sono gli anziani. Non ho alternative ma preferisco chiedere l'elemosina piuttosto che rubare". Ahmed mendica da quando i suoi genitori sono morti, sua madre a Falluja nel 2004, per un bombardamento americano, il padre, malato, nel 2005. "Io e i miei fratelli siamo felici anche se dormiamo all'aperto, nei giardini pubblici con solo qualche coperta. Quello che vorrei fare da grande è aiutare i bambini che, come me, vivono in strada". La storia di Ahmed, rilanciata dall'Irin, l'ufficio delle Nazioni Unite che coordina gli affari umanitari, è una delle tante che riguardano i bambini che, a causa delle violenze, dell'instabilità politico-economica e della mancanza di sicurezza, vivono più degli altri, sulla loro pelle i disastri dell'Iraq di oggi.

LA STRADA COME CASA.

Si calcola che siano decine di migliaia i bambini di strada attualmente in Iraq che sopravvivono rubando, chiedendo elemosina, rovistando tra i rifiuti o prostituendosi. Solo quattro anni fa, la maggioranza di questi viveva a casa con i loro genitori. "E' impossibile ignorarli ai semafori, sulle strade - dice Ali Mussawi, presidente di una ong locale - Kca, Keeping children alive - chiedono soldi o aiuto materiale. Parlano e imprecano come gli adulti, mettono sempre il nome di Allah in mezzo ai loro discorsi. Se poi hanno molta fame non esitano a rubare". Tra le cause principali del fenomeno dei bambini di strada iracheni, secondo il Comitato di coordinamento delle Ong in Iraq (Ncci), il deterioramento delle condizioni economiche ed il crescente numero di vedove nel Paese. "La situazione economica che peggiora sempre più - afferma il portavoce di Ncci, Cedric Turlan - costringe le famiglie ad usare i bambini come fonte di guadagno e li mandano a chiedere l'elemosina". Naturalmente i bambini lasciano la scuola e non si può fare nulla per strapparli alla strada. "Se i bambini andassero a scuola gli insegnanti avrebbero una maggiore influenza sulle famiglie" aggiunge Turlan. Per fronteggiare il fenomeno sono stati aperti diversi centri a Baghdad e il ministero per il Lavoro e gli Affari sociali stanno mettendo in campo, con alcune Ong, progetti che prevedono il sostegno alle famiglie. "Sfortunatamente - sottolinea il portavoce - a causa della mancanza di sicurezza e di fondi non si riesce a fare molto. L'Iraq ha siglato le Convenzioni internazionali che riguardano i diritti dei bambini, ma questo non ci impedisce di porre una domanda: quale sarà il loro futuro?".

TUTTI SONO VULNERABILI.

Sami Rubaie
, 12 anni, come Ahmed, vive in strada a Baghdad. E' fuggito di casa perché non voleva più subire le angherie del padre che lo accusava di non portare a casa sufficiente denaro elemosinato. Oggi sniffa colla e per comprarla si è unito ad un gruppo di ragazzi che si prostituiscono con gente adulta. Droga e prostituzione rappresentano per i bambini di strada un ulteriore pericolo. "Una volta in strada cadono facilmente preda di bande coinvolte in affari di droga, di violenza e di prostituzione. Sono particolarmente vulnerabili sotto il profilo psicologico - spiega Turlan - e manipolabili da adulti senza scrupoli. Nel 2005 abbiamo verificato un caso di un bambino usato come kamikaze. Si tratta di piccoli disperati, affamati fino a morire, che le bande usano per i loro scopi avviandoli alla droga e alla prostituzione". "Ogni volta che mi prostituisco piango - racconta Sami - e per questo vengo anche picchiato. Il mio capo mi dà 3 dollari per comprarmi il cibo e tanta colla da sniffare. So bene che ciò che faccio è sbagliato ma è meglio che vivere una vita continuamente picchiato da mio padre perché non raccolgo soldi a sufficienza".
Iniziative per tentare di recuperare questi ragazzi sono state attivate dalla Mezzaluna rossa ma queste risentono, come per altre, della mancanza di sicurezza e di fondi. In fuga dalla violenza della guerra, dagli abusi in famiglia, non tutti questi bambini e ragazzi cedono a droga e prostituzione, ma tutti sono vulnerabili. In questa grave situazione, non fa certo scalpore, la notizia che è in aumento anche il numero dei suicidi: violenza e stress psicologico dovuto alla paura e agli attentati. Ma in questi casi a decidere di morire sono soprattutto adulti. "Ma presto \n cominceranno anche i bambini" dichiara " Ahmed Fatah, membro del Dipartimento che si occupa di suicidi presso il ministero della Salute iracheno.

21 febbraio 2007

Intervista a Monsignor Jacques Isaac, Rettore del Babel College, Ankawa, Iraq


Fonte: Ufficio Pastorale Migranti, Arcidiocesi di Torino, voce: IRAQ


di Luigia Storti


In partenza da Roma dove ha soggiornato per un breve periodo denso di incontri Monsignor Jacques Isaac, in nome del rapporto ormai instauratosi con l’Arcidiocesi di Torino ha acconsentito a rompere il silenzio con la stampa che ha caratterizzato la sua visita italiana. Abbiamo approfittato della sua disponibilità per rivolgergli alcune domande sul Babel College, l’unica facoltà teologica cristiana in Iraq che lui presiede e che dallo scorso anno fa parte dei progetti pluriennali di sostegno della Quaresima di Fraternità della nostra Arcidiocesi, e sulla situazione dei cristiani in Iraq.


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Alla luce delle violenze che giornalmente riempiono le cronache provenienti da Baghdad che difficoltà ci sono per la pratica religiosa in città?
Dipende dalle zone della città. In generale posso dire che la pratica cristiana è viva e che le chiese, anche se con maggior discrezione e prudenza, continuano ad esercitare la loro funzione di luogo di culto e ritrovo per la comunità. A Natale, ad esempio, seppure con misure di sicurezza imponenti, e sebbene le funzioni siano state celebrate in forma discreta, come richiesto dal nostro Patriarca, le chiese hanno visto una buona affluenza di fedeli.
Certo ci sono zone in cui la situazione è diversa, più pericolosa. A Dora, ad esempio, le quattro chiese caldee vengono aperte una alla volta e solo una volta alla settimana per celebrare la Santa Messa per i fedeli che ancora vivono lì, e che sono ormai molti meno di quelli che affollavano il quartiere, la maggior parte dei quali sono fuggiti verso il nord o verso l’estero. La zona è piena di gruppi violenti uno dei quali, ad esempio, è penetrato all’interno della Chiesa di San Giovanni Battista dove sia la statua del Santo sia la Croce sono state distrutte.


A parte le chiese, Dora è il quartiere dove fino allo scorso anno erano il Babel College, il Seminario Maggiore di Saint Peter, monasteri e conventi. Ci vuole parlare di queste istituzioni?
In quanto agli edifici sono tutti ancora in piedi anche se ormai vuoti ed inutilizzati. Ci sono delle guardie, ma anche per loro diventa sempre più difficile resistere, proprio prima di partire, ad esempio, mi hanno riferito che qualcuno, sfondando una finestra, è riuscito ad entrare nel collegio. Forse si è trattato di un tentativo di furto, certo è però che Dora non è più una zona sicura.

Successivamente ai rapimenti di due sacerdoti proprio a Dora il Patriarcato, congiuntamente con il Collegio di Facoltà che Lei presiede, aveva deciso di trasferire il Babel College ed il Seminario in un’altra zona di Baghdad..
Si. Nella chiesa di Mar Ghorghis a Baghdad Jadida, una zona all’epoca più sicura. La chiesa fu quindi adattata alla bisogna. Si trattava di creare gli spazi sia per i seminaristi, che nel frattempo erano stati inviati nel nord per un ritiro spirituale, e che avrebbero dovuto non solo studiarvi ma anche viverci, sia per le aule e tutto ciò che era necessario alla vita della facoltà.

Gli spazi a disposizione erano sufficienti? Ricordo che gli edifici di Dora erano molto grandi…
Certo non lo erano. Il Babel College di Dora era stato costruito nel 1991 con l’idea di ospitare centinaia di studenti, come in effetti fece. Bisognava adattarsi, ma era al momento l’unica soluzione possibile perché i corsi ricominciassero.

Ora però sia il Seminario che il Babel College sono ad Ankawa. Ci vuole spiegare perché?
Dopo il rilascio dei due sacerdoti rapiti a Dora, purtroppo, ci furono i rapimenti di altri due preti, uno proprio a Baghdad Jadida ed uno in una zona molto vicina. Era chiaro che i corsi non sarebbero ricominciati, anche gli studenti avevano paura di frequentare, un problema questo che condividiamo con tutte le università in città. Si decise quindi di trasferire tutto nella cittadina settentrionale di Ankawa, nel territorio controllato dal Governo Regionale Curdo, (KRG) che vive una situazione decisamente diversa dal resto del paese.
Lì il KRG ci ha assegnato degli edifici per le lezioni ed il seminario, ed a gennaio abbiamo inaugurato, anche se purtroppo con ritardo, il nuovo anno accademico.

Come è organizzato ora il Babel College?
Sebbene il terreno assegnatoci sia grande l’edificio non è sufficiente ad ospitare gli studenti che si sono iscritti e che lo stanno ancora facendo. Confidiamo però nella Provvidenza per poterlo ampliare o, eventualmente, costruirne un altro vicino. Non posso dare dati certi perché essi cambiano, in meglio fortunatamente, di giorno in giorno ma ora ci sono, oltre ai venticinque seminaristi, almeno una sessantina di studenti, compresi una decina di laici consacrati, anche donne, come già era a Baghdad. I docenti sono una trentina, alcuni risiedono ad Ankawa, altri tengono dei corsi periodici o dei seminari intensivi e raggiungono Ankawa da Mosul, da Erbil, da Kirkuk ed anche da Roma dove proprio in questi giorni è tornato un docente che lì ha tenuto un seminario.
In futuro vorremmo anche istituire una facoltà di lingue dove sia possibile studiare l’inglese, il francese e l’italiano. Per ora alcuni docenti tengono i propri corsi già in inglese.

Gli studenti sono solo caldei o anche ad Ankawa l’ecumenismo è uno dei principi fondamentali del Babel College?
Certamente. Ci sono studenti caldei, ma anche siri cattolici, assiri della Chiesa Assira dell’Est e dell’Antica Chiesa dell’Est, persino armeni ortodossi. Sono rappresentate anche diverse congregazioni, come le suore caldee del Sacro Cuore ed altre. Anche i docenti non sono solo caldei. Ci sono, ad esempio, due Gesuiti, uno di origine irachena ed un altro occidentale, che prima erano ad Amman, ed uno dei due si è trasferito ad Ankawa.
La fama del Babel College è tale che il Patriarca della Chiesa Assira dell’Est, Sua Beatitudine Mar Dinkha IV, ha deciso che i fedeli della sua chiesa che vivono in Iraq e vogliono intraprendere la vita sacerdotale dovranno studiare presso la nostra istituzione.

Abbiamo anche ricominciato la collaborazione attiva con l’università di Kaslik del Libano con scambi di docenti ed incontri.

Ha parlato di studenti laici consacrati. Che opportunità lavorative avranno questi giovani in futuro?
La situazione del lavoro in Iraq è ovviamente legata alla sicurezza. Le speranze però ci sono. Tra i laureati degli anni passati, ad esempio, c’è una giovane che dopo il baccalaureato lavora presso il Tribunale Ecclesiastico, ed altri che stanno continuando i propri studi per altre specializzazioni.

A Baghdad, all’interno del Babel College, era attivo anche l’Istituto di Scienze Cristiane che in tre anni preparava i futuri catechisti. Funziona ancora?
Per ora no. Gli spazi sono esigui e due traslochi in un anno, da Dora a Baghdad Jadida e poi ad Ankawa, hanno imposto delle sofferte priorità. Confidiamo però che con l’aiuto di Dio sia possibile aprirlo anche ad Ankawa.

Babel College, Istituto della Catechesi, Seminario.. Lei crede che queste istituzioni potranno ritornare ad operare a Baghdad?
Quando anche l’ipotesi di Baghdad Jadida cadde la speranza sembrò svanire, ma la Divina Provvidenza ci aprì una porta: Ankawa. La nostra fiducia in essa è tale che il mio pensiero va addirittura ad un raddoppio di queste istituzioni, a Baghdad ed ad Ankawa. Nel nord ormai vivono moltissimi cristiani, è giusto che anche loro possano avvantaggiarsi della presenza di queste istituzioni senza essere costretti ad andare a Baghdad. Per ora noi siamo loro ospiti ed è giusto offrire loro un servizio, e certamente la diffusione della cultura, e di quella cristiana in particolare, è importante. Durante una riunione con i sacerdoti nel paese di Shaqlawa ho detto proprio questo: siamo qui, abbiamo tra noi grandi professionisti della cultura, traetene vantaggio.

Baghdad è un inferno in terra. Cosa ci dice di Ankawa?

La situazione è tranquilla. Per recuperare il tempo perduto ora abbiamo corsi sia di mattina che di pomeriggio, e l’unico giorno libero è la domenica. Per gli studenti non ci sono pericoli ed anche i docenti non hanno problemi. Il vicino aeroporto di Erbil, ora collegato con alcune città europee, permette viaggi comodi e sicuri dall’estero.

Monsignor Isaac, Lei è Rettore del Babel College di Ankawa, ma vive a Baghdad. Perché non si trasferisce anche Lei nel nord?
Io sono anche Responsabile Culturale del Patriarcato e Patriarca Ausiliario, dirigo anche due riviste cristiane, Stella d’Oriente e Mesopotamia, non posso lasciare tutte le responsabilità che ho a Baghdad. Per ora è così, posso viaggiare per andare ad Ankawa. Pur con mille difficoltà, ritardi e pericoli ci sono anche dei voli da Baghdad.

Monsignor Isaac, da dove vengono la forza ed il coraggio che ha?
Dal Signore e dal coraggio che gli stessi cristiani iracheni mi trasmettono. Il coraggio che tutti noi abbiamo quando per andare in chiesa sfidiamo i pericoli consapevoli e convinti che Gesù sia con noi.

Un’ultima domanda: di che utilità è stato il contribuito arrivato al Babel College da parte dell’Arcidiocesi di Torino?
Siamo grati per prima cosa della vicinanza morale che la vostra arcidiocesi ha dimostrato in vari modi verso la comunità cristiana irachena. Sapere che qualcuno nel mondo conosce le nostre storie e le difficoltà che affrontiamo ci conforta. Sapere che molti di voi pregano per noi, addirittura hanno celebrato delle Sante Messe per i nostri sacerdoti rapiti, ed hanno festeggiato con la preghiera del cuore cristiano la loro liberazione è importantissimo. Dal punto di vista pratico il vostro aiuto è stato prezioso. Traslocare due volte un’istituzione così grande e farla funzionare ha comportato un grosso impegno economico per la nostra chiesa, già impegnata a dare sostegno in vari modi sia al clero che alla comunità. A questo proposito mi auguro di tornare presto in Italia e raccontare di persona i progressi fatti visitando di nuovo Torino, una città che non solo ci sostiene ma che è stata e che ci è amica. La mia speranza è che i legami tra l’Arcidiocesi di Torino ed il Patriarcato Caldeo di Babilonia possano crescere e rafforzarsi, ed approfitto dell’occasione per inviare i miei più cordiali saluti cristiani all’Arcivescovo di Torino, Sua Eccellenza Cardinale Severino Poletto, al Direttore dell’Ufficio Diocesano Missionario, Don Bartolo Perlo, che ha curato il progetto della Quaresima di Fraternità per il Babel College, al Direttore dell’Ufficio Pastorale Migranti, Don Fredo Olivero, che ha iniziato anche concretamente un rapporto di sincera amicizia e sostegno con alcuni nostri sacerdoti, ed a tutti gli amici e sostenitori che ci sono stati vicini in un bellissimo esempio di amore cristiano verso il prossimo.


Ufficio Pastorale Migranti
Arcidiocesi di Torino

Attentati e rapimenti, la Chiesa in Iraq non si arrende

Fonte: ASIA NEWS

di Marta Allevato

Intervista a mons. Jacques Isaac, vescovo ausiliare caldeo di Baghdad e rettore del Babel College: le difficoltà non uccidono la Chiesa, ogni giorno viviamo la Passione di Cristo, ma morire con Lui significa anche risorgere con Lui; le messe continuano ad essere affollate, come pure i corsi di catechismo e quelli prematrimoniali. Il sostegno del Papa, che “prega tutti i giorni per la pace in Iraq”.

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Oggi più che mai per i cristiani iracheni prepararsi alla Pasqua significa “vivere sulla propria pelle la Passione di Gesù, ma attraverso questa nutrire la certezza della Resurrezione”. A parlare così ad AsiaNews è mons. Jacques Isaac, rettore del Babel College, l’unica Università teologica dell’Iraq, gestita dal Patriarcato caldeo. Il Babel College può essere considerato simbolo della tenace volontà della Chiesa irachena di “non arrendersi” alle violenze che dilaniano il Paese e che più volte negli ultimi tre anni l’hanno colpita al cuore con attentati, rapimenti e uccisioni di religiosi e laici.

“A causa delle crescenti difficoltà – ricorda mons. Isaac – l’Università è stata trasferita da poco da Baghdad ad Ankawa, in Kurdistan; inizialmente abbiamo avuto problemi a trovare una sede, ma non potevamo permetterci di chiudere: il Babel è una fonte di speranza e un punto di incontro non solo per la Chiesa caldea, ma per quella siro-ortodossa, assira e tutte le altre denominazioni presenti in Iraq”. Qui, per sei anni, gli studenti vivono e lavorano insieme ed è “veramente un’esperienza concreta di ecumenismo”. “Il trasferimento è stato doloroso – racconta il presule – ma ora ne iniziamo a cogliere anche gli aspetti positivi: prima degli anni ’60 la maggior parte dei cristiani viveva a nord, solo in seguito si sono trasferiti a Baghdad e Mosul; adesso molti stanno facendo ritorno e il Babel college si prefigge anche di rendere un servizio culturale alla popolazione di questa zona” ad esempio con seminari e conferenze pubbliche tenute dai professori universitari sulla Bibbia o sulla teologia. Anche se inaugurati da poco più di un mese il Babel College e il Seminario maggiore caldeo ad Ankawa “già irradiano una luce di speranza sulla comunità locale”. “L’esempio dei giovani seminaristi, dei sacerdoti e dei laici consacrati - riferisce mons. Isaac - ha molto più effetto delle parole”. Per questo è in esame l’ipotesi di “mantenere la sede di Ankawa del Babel anche quando la situazione sarà normalizzata e aprirne un’altra di nuovo a Baghdad”.

Non è previsto “neppure lontanamente”, invece, un trasferimento del Patriarcato caldeo dalla capitale. “Le difficoltà a Baghdad sono enormi, ma abbandonare i fedeli rimasti e che coraggiosi affollano le messe sarebbe dare un colpo mortale al morale di tutta la comunità. È adesso che dobbiamo rimanere, partecipare alle loro sofferenze, adesso c’è bisogno di noi e se dobbiamo morire con loro, come sacerdoti o vescovi, siamo pronti a farlo” dichiara mons. Isaac.
“La situazione - riferisce il presule caldeo - è pericolosa per tutti, non solo per i cristiani, ma le difficoltà non hanno mai ucciso la Chiesa”. E porta degli esempi: “Le parrocchie a Baghdad sono aperte, a Natale erano piene e alcune messe sono state trasmesse dalla televisione statale, il catechismo per la Prima Comunione è sempre frequentato, come pure i corsi prematrimoniali; inoltre, dopo la nazionalizzazione delle scuole sotto Saddam, ora abbiamo anche una scuola privata”. Mons. Isaac, anche vescovo ausiliare per gli Affari culturali a Baghdad, garantisce che la guerra non ha fermato la pubblicazione di riviste, l’uscita di nuovi libri e le attività intellettuali.

Quest’anno la Pasqua non è considerata periodo a maggior rischio di attentati: “Ormai siamo abituati, tutto l’anno ogni volta che usciamo di casa siamo coscienti che vi potremo non fare ritorno, ma questo non può impedirci di continuare a vivere”. “Parlare della Croce e della Passione di Gesù Cristo è una cosa, ma viverla è un’altra - spiega il presule - noi cristiani in Iraq viviamo la Croce ogni giorno e morire con Gesù, significa anche risorgere con Lui, oggi più che mai possiamo capire veramente la dimensione della Sua Passione”.

Lo scorso 14 febbraio, dopo l’udienza generale, mons. Isaac - a Roma per una visita di alcuni giorni - ha incontrato Benedetto XVI, al qual ha chiesto di pregare per la pace in Iraq. E il Papa - racconta il vescovo - gli ha risposto: “Tutti i giorni prego per l’Iraq”.

Church not giving in amid attacks and kidnappings

Fonte ASIA NEWS

di Marta Allevato

An interview with Mgr Jacques Isaac, Chaldean auxiliary bishop of Baghdad and rector of Babel College: hardships will not kill the Church, every day we live the Passion of Christ but dying with him also means resurrecting with him. Masses are crowded and so are catechism and pre-marriage courses. He mentioned the support of the pope, who “prays for Iraq every day”.

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Today more than ever, for Christians in Iraq, preparing for Easter means “experiencing the Passion of Jesus and in so doing, nourishing the certainty of the Resurrection,” Mgr Jacques Isaac told AsiaNews. Mgr Isaac is rector of Babel College, the only theological University in Iraq which is managed by the Chaldean Patriarchate. Babel College could be seen as a symbol of the tenacious will of the Iraqi Church “not to give in” to violence shattering the country, which has struck the Church many times in the past three years with attacks, kidnappings and killings of religious and lay people.
Mgr Isaac said: “Because of growing problems, the University recently transferred from Baghdad to Ankawa, in Kurdistan. Initially we had problems to find a place, but we could not allow ourselves to shut down. Babel is a source of hope and meeting point not only for the Chaldean Church but also for the Syrian-Orthodox and Assyrian Churches, and all other denominations present in Iraq.” For six years, students have been living and working together and it is “truly a concrete experience of ecumenism.” The bishop said: “The move was painful but now we are starting to see the positive aspects too: before the sixties, most Christians lived in the north. It was only later that they transferred to Baghdad and Mosul. Now many are returning and Babel College is resolved to render a cultural service to people in this region”, for example, through public seminars and conferences by university professors on the Bible or theology. Although they were inaugurated just over a month ago, Babel College and the Chaldean Major Seminary in Ankawa “already radiate a light of hope to the local community.” “The example of young seminarians, priests and consecrated lay people is much more effective than words,” said Mgr Isaac. In fact, the possibility is being mooted of “keeping Babel’s headquarters in Ankawa even when the situation returns to normal and opening another in Baghdad once again.”
Meanwhile, there are no plans, “not even in the distant future”, to transfer the Chaldean Patriarchate from the capital. “The difficulties in Baghdad are enormous but abandoning the faithful who remain and who courageously come in crowds for mass would be to deal a death blow to the entire community. It is now that we must remain, participating in their suffering, now there is need for us and if we must die with them, as priests and bishops, we are ready to do so,” declared Mgr Isaac.
The Chaldean bishop continued: “The situation is dangerous for everyone, not just for Christians, but difficulties have never killed the Church.” He brought examples: “The parishes in Baghdad are open. At Christmas, they were full and some masses were broadcast on state television. Catechism for First Holy Communion is well attended, as are pre-marriage courses. Further, after the nationalization of schools under Saddam, now we have a private school too.” Mgr Isaac, who is also the auxiliary bishop for cultural affairs in Baghdad, said the war had not stopped the publication of journals and of new books or intellectual activities.
This year, Easter is not considered to be a high-risk time for attacks: “We have got used to it. All the year round, every time we go out of the house, we are aware that we may not return, but this cannot stop us from continuing to live. Speaking about the Cross and Passion of Jesus Christ is one thing but living them is another,” said the bishop. “Us Christians in Iraq live the Cross every day and dying with Jesus also means resurrecting with him. Today more than ever, we can really understand the dimension of his Passion.”
On 14 February, after the general audience, Mgr Isaac, who is visiting Rome for a few days, met Benedict XVI and asked him to pray for peace in Iraq. And the pope replied: “I pray for Iraq every day.”

IRAQ: RITIRO INGLESE, MONS. WARDUNI (BAGHDAD), “CHI RIEMPIRÀ IL VUOTO CHE LASCERANNO?”

Fonte: SIR

“Prima viene il bene del popolo iracheno che chiede pace e sicurezza poi la politica”. Così mons. Shlemon Warduni, vescovo caldeo ausiliare di Baghdad commenta al Sir la decisione del premier inglese, Tony Blair, di ritirare le truppe dall’Iraq. Intenzione analoga è stata annunciata oggi anche dal premier danese Anders Fogh Rasmussen. “Ritirare le truppe è affare di poche settimane o di qualche mese ma chi riempirà il vuoto che lasceranno i militari inglesi?” si domanda il presule. “Il Sud del Paese, dove sono stanziate le truppe britanniche, è a maggioranza sciita e la situazione è leggermente migliore rispetto ad altre zone – afferma mons. Warduni – ma non si può parlare di normalizzazione. Non so se ritirare le truppe sia un bene o un male per l’Iraq. Credo, però, che prima di ritirare le forze sul campo serva una normalizzazione della situazione. Il rischio è di creare un vuoto che non sappiamo da chi sarà riempito. In Iraq c’è grande confusione e caos quindi serve anche tanta prudenza”. Il contingente britannico in Iraq è composto da 7000 uomini. Secondo quanto riferisce la stampa inglese 1500 soldati torneranno a casa entro le prossime settimane, e altri 1500 entro la fine dell'anno. I restanti dovrebbero continuare la campagna irachena.

18 febbraio 2007

La chiesa irachena cresce

Nonostante le difficoltà che la comunità cristiana irachena sta vivendo le vocazioni alla vita sacerdotale non mancano. Venerdì scorso, nella cittadina di Bakhdida (Qaraqosh) il Vescovo Siro Cattolico di Mosul, Monsignor George Qas Musa, ha ordinato infatti due nuovi diaconi.
A novembre del 2006 nella stessa cittadina era stato inaugurato il nuovo seminario siro cattolico intitolato a Mar Ephrem.

14 febbraio 2007

Aggiornamenti. Corsia preferenziale per un richiedente asilo? Tareq Aziz.

Fonte: ZENIT Codice: ZE07021327

Il Vaticano potrebbe intercedere per Aziz, dichiara un colaboratore della Santa Sede


Città del Vaticano, 13 febbraio 2007.
Se la Santa Sede intervenisse perchè uno stretto collaboratore di Saddam Hussein non venisse condannato a morte non sarebbe un fatto senza precedenti, ha dichiarato un collaboratore in Vaticano.
Tareq Aziz, il settantenne ex vice primo ministro iracheno di religione cattolica caldea, ha chiesto a Benedetto XVI con una lettera autografa di aiutarlo ad ottenere l’asilo politico in Italia in attesa del processo che si svolgerà in Iraq.
La lettera di Aziz è stata consegnata a gennaio dal suo legale italiano, Giovanni Di Stefano, al Cardinale Tarcisio Bertone, il Segretario di Stato vaticano.
Monsignor Vittorio Formenti funzionario della segreteria di stato vaticana, ha dichiarato a Zenit che nessuna decisione è stata resa nota ma ha anche aggiunto che la Santa Sede può, come principio, “chiedere di salvare la vita in caso di pena di morte, e che frequentemente lo fa.”
Monsignor Formenti ha anche dichiarato che il caso è stato complicato dal fatto che Tareq Aziz ha collaborato con Saddam. Aziz è accusato di avere ordinato l’esecuzione degli sciiti ribellatisi nel 1991.
“La Santa Sede può sempre invocare pietà” sono le parole di Monsignor Formenti.
Per quanto si sa Aziz si è appellato al Vaticano in altre due occasioni dal momento del suo arresto da parte delle forze di coalizione americane.

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

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Vatican Could Plead Mercy for Aziz, Says Aide

VATICAN CITY, FEB. 13, 2007
If the Holy See intervenes to ask that a close collaborator of Saddam Hussein's be spared the death penalty, it wouldn't be without precedent, said a Vatican aide.

Tariq Aziz
, 70, Iraq's former deputy prime minister, and a Chaldean Catholic, has asked Benedict XVI through a handwritten letter to act on his behalf requesting asylum in Italy while he awaits trial in Iraq. The letter was delivered in January by Giovanni Di Stefano, Aziz's Italian lawyer, to Cardinal Tarcisio Bertone, Vatican secretary of state.

Monsignor Vittorio Formenti, an official at the Vatican Secretariat of State, told ZENIT that no decision has been made public regarding the note, but did say that the Holy See can, in principle, "ask to save people's lives in the case of capital punishment, and it frequently does do this."

brMonsignor Formenti added that the case was complicated by the fact that Aziz collaborated with Saddam. Aziz is accused of ordering the executions of Shiite Muslims who rebelled in 1991. Monsignor Formenti added that "the Holy See can always ask for mercy."

Aziz has appealed to the Vatican on two other known occasions since his arrest by U.S. coalition forces.

10 febbraio 2007

US only willing to discuss Iraqi refugees with Syria

Source: ASIA NEWS

US only willing to discuss Iraqi refugees with SyriaCondoleezza Rice gives green light to US diplomats to talk with Damascus about the humanitarian emergency facing Iraqi refugees. About 800,000 are in Syria itself. UN is set to convene an international conference on the matter.

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Damascus (AsiaNews) – US Secretary of State Condoleezza Rice said on Thursday she had authorised the US embassy in Damascus to talk to Syrian officials about Iraqi refugees but played down the chances of broader talks about Iraq. Meanwhile the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) has convened a meeting for mid-April in Geneva to deal with the humanitarian crisis in Iraq. It wants to get more governments to provide assistance to refugees and displaced Iraqis.
Washington has long accused Syria of facilitating the flow of Islamist fighters and weapons across its border with Iraq, an accusation Damascus rejects. For this reason, the Bush administration for months has resisted arguments it should engage directly with Damascus over Iraq, arguing that Syria is not reliable partner. However, speaking before the Senate Foreign Relations Committee, Ms Rice told lawmakers she had "explicitly" authorised the top US diplomat in Damascus to talk to Syria about the flow of Iraqi refugees into that country.
About 3.7 million Iraqis have fled the country (800,000 in Syria) or left their homes for safer havens within Iraq, according to the UNHCR.
In addition to talks with Syria on the issue, the US State Department this week also set up a task force to study ways to help Iraq’s neighbours cope with the influx of refugees and decide whether to help Iraqis that work for US forces in Iraq, who are therefore threatened, to emigrate to the United States.
Similarly, the United Nations High Commissioner for Refugees Antonio Guterres is organising an international conference in Geneva to help countries like Jordan and Syria who are host to more than a million Iraqi refugees.
From Saudi Arabia, he stressed how the refugees are suffering from their situation and how their presence is putting pressure on host countries.
He insisted that help from the international community was “essential” and urged Saudi authorities to play an active role in the mid-April conference.

Gli Usa tratteranno con la Siria, ma solo sulla crisi dei profughi iracheni

Fonte: ASIA NEWS

Gli Usa tratteranno con la Siria, ma solo sulla crisi dei profughi iracheniCondoleezza Rice autorizza diplomatici Usa a collaborare con Damasco per gestire l’emergenza umanitaria dei profughi iracheni; solo la Siria ne ospita 800mila. Per metà aprile l’Onu convoca una conferenza internazionale sulla questione.

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Damasco (AsiaNews) – Gli Stati Uniti tratteranno con la Siria sull’Iraq, ma solo per affrontare la crisi umanitaria dei profughi. Lo ha detto ieri il Segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, escludendo un ampliamento della collaborazione con Damasco ad altre questioni. Intanto l’Alto commissariato Onu per rifugiati (UNHCR) ha convocato per metà aprile a Ginevra una conferenza internazionale per fare il punto sulla crisi umanitaria in Iraq e coinvolgere più governi nell’assistenza a profughi e sfollati.

Washington da tempo accusa la Siria di facilitare il flusso di terroristi e armi lungo i suoi confini con l’Iraq. Accusa respinta dai siriani. Nonostante le pressione interne ed internazionali, l’amministrazione Bush ha più volte ribadito di non voler aprire il dialogo con Damasco sulla situazione irachena, non ritenendola un interlocutore affidabile.

Ieri, però, davanti al Comitato per le relazioni estere del Senato statunitense, la Rice ha comunicato di aver dato “esplicito” mandato ai diplomatici statunitensi a Damasco di parlare con la Siria per gestire l’emergenza profughi. Secondo stime dell’UNHCR, sono 3,7 milioni gli iracheni che hanno lasciato la loro casa dal 2003. Con circa 800mila rifugiati la Siria è il Paese più colpito da questo dramma.

Oltre ad aprire a Damasco sul piano della collaborazione umanitaria, la Rice ha istituito da poco una speciale task force per gestire gli aiuti ai Paesi confinanti con l’Iraq, che ne ospitano i sempre più numerosi rifugiati; ha poi promesso di facilitare l’entrata negli Stati Uniti degli iracheni che in patria hanno collaborato con le forze Usa e ora sono costretti a partire.

Per aiutare Paesi come Giordania e Siria, che insieme ospitano più di un milione di rifugiati iracheni, l’Alto commissario UNHCR, Antonio Guterres, ha lanciato l’iniziativa di una conferenza internazionale a Ginevra. Dall’Arabia Saudita, dove si trova in questi giorni, ha posto l'accento sulle sofferenze di queste persone in fuga e sulla crescente pressione che esercitano sui governi confinanti. Guterres ha anche ribadito che l'aiuto della comunità internazionale è "essenziale" e ha esortato Riyadh a prendere parte in modo attivo alla conferenza di metà aprile.


3 febbraio 2007

Ora anche la Svezia chiuderà le frontiere ai profughi iracheni?

Fonti:

Fino a qualche giorno fa la Svezia si caratterizzava come la nazione europea più disponibile ad accogliere i profughi iracheni. Ora qualcosa sta cambiando. La scoperta di una banda di falsari in Norvegia sembrerebbe avere portato alla luce un traffico di documenti contraffatti che, esibiti all'ambasciata irachena di Stoccolma, hanno portato all'emissione di circa 26.000 passaporti in due anni.
La sede diplomatica irachena è accusata di non aver eseguito i controlli necessari a verificare l'autenticità dei documenti presentati dai richiedenti asilo, e di aver concesso passaporti iracheni addirittura a persone provenienti da Siria, Iran, Turchia e Libano. Le indagini sono ancora in corso, ma se la cosa risultasse vera potrebbe portare ad una eventuale restrizione da parte della Svezia nella concessione del rifugio agli iracheni, ed un conseguente aggravamento di una situazione già tragica. Da chiarire sarà anche l'ipotesi di una sorta di complotto avanzata da alcuni siti web iracheni secondo i quali il fatto che l'ambasciatore iracheno in Svezia, Ahmad Bamerni , sia un curdo del PUK (Patriotic Union of Kurdistan) e che l'ambasciata da egli guidata abbia concesso passaporti iracheni anche a non iracheni, potrebbe rappresentare un ennesimo tentativo da parte del Governo Regionale Curdo di aumentare artificiosamente la popolazione curda (questi non iracheni sarebbero "debitori" verso quel governo per la loro nuova identità) in vista del referendum che nel 2007 dovrà decidere della sorte di Kirkuk, il vero nodo dei rapporti tra curdi ed arabi fino ad ora buoni ma a rischio di degenerazione proprio con l'avvicinarsi della data in cui la città, o meglio i suoi immensi giacimenti petroliferi, dovrà essere dichiarata come facente parte dell'Iraq o del Kurdistan.

Clicca su "leggi tutto" per leggere le traduzioni e gli adattamenti di Baghdadhope degli articoli sulla questione dei passaporti iracheni in Svezia.
BBC

Funzionari dell’immigrazione svedese hanno dichiarato che l’ambasciata irachena di Stoccolma ha emesso migliaia di passaporti sulla base di false informazioni.
Il Ministro degli Esteri svedese ha chiesto spiegazioni ufficiali all’ambasciatore iracheno, ed un funzionario dell’ufficio immigrazione ha dichiarato che la fiducia nei documenti rilasciati dalla sede diplomatica irachena è “quasi nulla.”La Svezia è la meta europea preferita degli iracheni, in parte proprio a causa della larghezza delle sue leggi in materia di immigrazione, e nel 2006 il numero di richieste di asilo è triplicato dall’anno prima, arrivando quasi a 9000 domande. Secondo alcuni funzionari dell’immigrazione svedese una volta nel paese molti iracheni hanno fatto richiesta di documenti all’ambasciata irachena di Stoccolma producendo documenti di identità falsi."L’ambasciata ha rilasciato passaporti sulla base di documenti che noi avevamo rifiutato o considerato falsi” ha dichiarato all’agenzia Associated Press Bengt Hellstrom, dell’ufficio immigrazione svedese.L’ambasciata irachena di Stoccolma rilascia documenti di identità per la Svezia e per la vicina Norvegia, e lo stesso ambasciatore iracheno ha recentemente dichiarato ad un giornale norvegese che il rischio di rilasciare passaporti sulla base di documenti falsi era abbastanza alto. "Dobbiamo procedere sulla base della documentazione presentata senza avere la possibilità di controllarne l’autenticità in Iraq.”Secondo un funzionario un passaporto falso può essere utilizzato come base per la richiesta di asilo e può anche garantire il rilascio della cittadinanza.Si sospetta che alcuni falsi passaporti siano stati venduti a cittadini di paesi mediorientali che credono sia più facile ottenere asilo dichiarandosi cittadini iracheni.

The Local 1

L’ambasciata irachena di Stoccolma ha ammesso di aver rilasciato 26.000 passaporti sulla base di false documentazioni a richiedenti asilo in Svezia e Norvegia. Il ministro delle politiche migratorie, Tobias Billström incontrerà mercoledì il suo collega norvegese per discutere la faccenda. I dettagli sulle richieste fraudolente di passaporti sono apparsi sulla stampa norvegese dopo che la polizia aveva scoperto ad Oslo una banda di falsari. L’ambasciatore ircheno in Svezia ha dichiarato al giornale norvegese Aftenposten che la sede diplomatica ha rilasciato passaporti basati su documentazioni false solo perchè non aveva i mezzi per controllarne l’autenticità.“Sapevamo da parecchio tempo che l’ambasciata irachena stava rilasciando passaporti sulla base di documenti falsi, ma cosa potevamo fare? E’ una questione che riguarda il ministero degli esteri che sa della faccenda ed al quale abbiamo presentato a proposito diversi rapporti” ha dichiarato a Metro Bengt Hellström dell’Ufficio Immigrazione svedese, aggiungendo anche che lo stesso ufficio aveva ricevuto negli scorsi due anni parecchie soffiate sul fatto che individui provenienti dalla Siria, dal Libano, dall’Iran e dalla Turchia erano riusciti ad ottenere i passaporti dall’ambasciata irachena. Gustaf Lind, segretario di stato presso il dipartimento di giustizia ha dichiarato che il suo dipartimento è venuto a conoscenza della faccenda solo un mese fa. “Abbiamo dislocato personale civile presso il dipartimento di giustizia e presso l’ufficio immigrazione per controllare le informazioni. Non abbiamo ancora espresso un giudizio ma il ministro degli esteri ha convocato per mercoledì l’ambasciatore iracheno per discutere la faccenda.” L’ufficio Immigrazione lo scorso autunno era stato informato che un certo tipo di passaporto iracheno in circolazione era di qualità inferiore rispetto agli altri e relativamente facile da contraffare. "Dovremo decidere se approvare questo tipo di passaporto, e probabilmente lo faremo a febbraio” ha dichiarato Marianne Andersson, un portavoce dell’Ufficio Immigrazione aggiungendo che un certo numero di paesi europei – Gran Bretagna, Belgio, Olanda e Lussemburgo – hanno già deciso di non accettare questo tipo di passaporto. “Il passaporto può anche essere autentico ma non siamo sicuri che i titolari siano davvero chi dichiarano di essere.”

The Local 2

L’ambasciatore iracheno in Svezia è stato convocato mercoledì scorso dal ministero degli esteri svedese per chiarire le accuse sul rilascio, sulla base di false documentazioni, di circa 26.000 passaporti da parte della sede diplomatica irachena di Stoccolma. “L’ambasciatore ha rigettato l’accusa come falsa ed ha negato il coinvolgimento dell’ambasciata in qualsiasi comportamento scorretto” ha dichiarato il portavoce del ministero Andre Mkandawire alla AFP. Il quotidiano gratuito svedese Metro ha riportato mercoledì scorso che l’ambasciata irachena di Stoccolma nei due anni passati ha rilasciato 26.000 passaporti senza fare adeguati controlli sull’identità dei richiedenti. Il giornale ha citato alcuni funzionari dell’Ufficio Immigrazione secondo i quali a persone provenienti da Siria, Iran, Turchia e Libano era stato detto di poter richiedere il passaporto iracheno presso l’ambasciata di quel paese a Stoccolma che avrebbe rilasciato i documenti ai richiedenti asilo in Svezia e Norvegia, richiedenti asilo che, secondo l’Ufficio Immigrazione, non hanno bisogno di passaporto al loro arrivo in Svezia. "Siamo preoccupati del fatto che siano stati commessi degli errori nel rilascio dei passaporti da parte dell’ambasciata di Stoccolma” ha dichiarato alla AFP la portavoce dell’Ufficio Immigrazione.L’ambasciatore iracheno Ahmad Bamerni ha, da parte sua, ripetuto il suo rifiuto dei rapporti in tal senso nel corso di una conferenza stampa presso l’ambasciata irachena e successiva al suo incontro al ministero degli esteri, ha riportato l’agenzia di notizie svedese TT. "Non è corretto affermare che abbiamo rilasciato passaporti a non iracheni” ha dichiarato Bamerni, aggiungendo che l’ambasciata ha sempre esaminato attentamente le richieste di documenti e che, quando i documenti presentati non sono stati ritenuti soddisfacenti i richiedenti sono stati rimandati in Iraq. La questione è ora passata al ministero della giustizia, ha dichiarato un funzionario di quel ministero. Il Ministro per le politiche migratorie svedese, Tobias Billström, ha affrontato la questione con il Ministro del Lavoro e dell’Integrazione norvegese Bjarne Haakon Hanssen e, secondo quanto riporta la TT all’inizio di febbraio incontrerà l’ambasciatore Bamerni.



Ordinati tre nuovi diaconi caldei ad Ankawa


Nella chiesa caldea di Saint Joseph ad Ankawa sono stati ordinati ieri tre nuovi diaconi. Alla cerimonia, celebrata dal Vescovo di Amadhyia ed amministratore vescovile di Erbil, Monsignor Rabban Al Qas, hanno assitito altri due vescovi caldei, Monsignor Luis Sako, Vescovo di Kirkuk e Monsignor Mikha Maqdassi, Verscovo di Al Qosh, ed il Generale Luigi Orsini, incaricato del Ministro degli Esteri italiano dei rapporti con il Governo Regionale Curdo e di valutare la possibilità di aprire un consolato ad Erbil.