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27 febbraio 2007

Storia minima di una famiglia irachena di origine palestinese.

Dedicato ad Ibrahim K. Un amico.

La voce è di Ibrahim è affaticata, roca. Molto diversa da quella con cui nelle notti calde della Baghdad di prima del 2003 cantava in un italiano stentato una famosa e vecchia canzone di Mina: “Nessuno, ti giuro nessuno…” Tanto diversa che stento a riconoscerla. Erano mesi che non la sentivo. I nostri contatti viaggiano ormai quasi solo attraverso la posta elettronica. E’ così che ci scambiamo gli auguri per Natale e per il Ramadan, così che in questi anni ho visto quanto sono cresciuti i suoi figli e quanto lui è invecchiato.

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E’ un amico Ibrahim. Una persona gentile e mite, sempre pronto a risolvere i nostri problemi, a farci compagnia, a dividere con noi la sua città facendocela esplorare. Eppure Ibrahim non è iracheno. Sì, certo, è nato a Baghdad e così i suoi figli, ma è e rimarrà sempre un palestinese, figlio di un padre morto da decenni e di una madre coraggiosa che nel 1948 si chiuse alle spalle la porta di una casa che non sarebbe mai stata più sua e partì verso l’Iraq per ricostruirsi una vita. A Baghdad Ibrahim ha studiato, lavorato, si è sposato e ha messo al mondo quattro figli, l’ultimo dei quali era nato da pochissimo quando ci recammo per l’ultima volta in Iraq prima della guerra del 2003.
Ora la famiglia di Ibrahim fa parte di quel freddo computo dei “rifugiati iracheni all’estero.” Due milioni di persone che sono sfuggite al terrore, alle bombe, ai rapimenti, alla normale violenza di una città dove vivere è solo questione di fortuna.
Prima della guerra Ibrahim faceva il commerciante. Negli anni era passato da un bugigattolo del centro della città dove vendeva accessori per le calzature ad un elegante ufficio in una bella villa a due piani in uno dei quartieri per ricchi. E ricco negli anni Ibrahim era diventato. Lo testimoniavano l’ufficio, l’auto, il numero di uomini che lavoravano per lui e con lui, la casa in cui facevano bella mostra elettrodomestici e gadgets elettronici impossibili da acquistare per la maggior parte degli iracheni piagati dalle durissime sanzioni economiche. Ma non faceva politica Ibrahim. Mai una parola, mai un commento sul regime, sul suo capo, sui suoi metodi. Connivente? Forse, o forse, come quasi tutti i suoi connazionali senza scelta. Ricco perché avvantaggiato da rapporti particolari con il regime? Forse, o forse solo abile commerciante. Colpevole? Di cosa? Di aver cercato di sopravvivere, ed anche “meglio vivere” seguendo le regole del gioco spietato che il regime imponeva a tutti? Non c’erano alternative. Non per lui, iracheno di origine palestinese. Era la sua vita. “Life is difficult,” la vita è difficile, ci diceva in alcuni momenti di scoramento. Quando ci accompagnava a visitare gli ospedali o le strutture mediche cui avremmo lasciato i farmaci che portavamo dall’Italia, o quando lo scoprivamo allungare dei dinari ad un mendicante, ad un ragazzino che gli aveva appena imbrattato il vetro dell’auto nel tentativo di pulirlo. Quando ci descriveva la Baghdad degli anni 70, ricca, potente, omaggiata, paragonandola a quella città fantasma sempre pronta a dimenticare una guerra per prepararsi a quella successiva. Quando, prima della guerra annunciata partì per la Giordania portando con sé non solo la sua famiglia, ma anche tutti i figli dei suoi fratelli e delle sue sorelle nel tentativo di salvare almeno i bambini. “Cosa posso fare?” mi chiedeva al telefono. “Non vorrei lasciare Baghdad ma i bambini sono piccoli, devono salvarsi.”
Poi venne la guerra e la caduta del regime. E che sollievo ricevere una sua telefonata, sapere che i componenti della sua famiglia rimasti a Baghdad erano tutti salvi, compresa la sua vecchia madre. Col passare dei mesi però il tono delle sue telefonate iniziò a cambiare, la sua voce a farsi stridula, addirittura balbettante. Chi era rimasto in Iraq era costantemente in pericolo, chi, come lui, era riparato in Giordania, stava esaurendo i soldi. Era impossibile avviare un’attività commerciale senza un capitale di partenza e l’unica soluzione fu quella di tornare in Iraq. Gli americani controllavano l’economia del paese, i contratti che il precedente regime aveva stipulato sotto l’egida delle Nazioni Unite e del piano “Oil for food” erano stati annullati, ed Ibrahim dovette inventarsi un lavoro. Cercò di importare attrezzature per la potabilizzazione dell’acqua, un campo che, considerando lo stato delle infrastrutture idriche del paese si pensava vantaggioso, e tanto lo era che lui, piccolo imprenditore, ne rimase subito tagliato fuori. Intanto Baghdad, ed il quartiere di Adhamiya dove Ibrahim viveva, roccaforte sunnita nella parte orientale della città a sempre maggiore connotazione sciita, diventavano di giorno in giorno più pericolosi. “Quando esco al mattino non sono mai sicuro di tornare a casa” mi diceva con voce triste, “i bambini più grandi vanno a scuola quando la situazione è più calma, ma sempre accompagnati da un mio familiare armato, quelli più piccoli stanno facendo impazzire la madre, non possono uscire a giocare all’aperto, sono sempre chiusi in casa a guardare la TV e vicino al condizionatore se c’è la corrente o il gasolio per il generatore, o al buio ed al caldo se mancano. Non capiscono, sono troppo piccoli. La vita è difficile!”
Ibrahim resistette per un po’ ma nel 2005 fu chiaro che un cambiamento era necessario. La sua famiglia, compresi i suoi fratelli e le loro famiglie, dipendevano dalla sua abilità negli affari, dalla sua capacità di assicurare un’entrata seppur minima ma che desse loro la possibilità di sopravvivere.
Sfruttando vecchi contatti di lavoro riuscì a trasferirsi in un paese del Golfo da dove iniziò a mandarci le foto dei bambini, felici di poter andare di nuovo a scuola, di poter giocare in un giardino, di sapere che il loro papà sarebbe tornato a casa quella sera ed anche le altre. Sembrava che le cose stessero migliorando, ma poi venne l’attacco alla moschea sciita di Samarra e l’inizio del violento contrasto tra sunniti e sciiti che si sovrappose alla lotta contro le truppe straniere. La famiglia di Ibrahim rimasta a Baghdad è sunnita, ed in più è palestinese, “e per noi palestinesi non c’è più posto in Iraq, vogliono cacciarci via, ma dove andremo? Noi non abbiamo una patria, io non sono mai neanche stato in Palestina!” mi diceva partecipando di quel dolore come se fosse anche lui lì con loro e non in salvo nel Golfo. Ad uno ad uno i suoi familiari cominciarono a lasciare il paese. Prima l’anziana madre, due volte profuga, che si rifugiò da una figlia che aveva sposato un giordano e viveva ad Amman, poi fu la volta di un altro fratello sempre ad Amman e di un altro in Egitto. Ora solo una sorella vive a Baghdad, ha sposato un iracheno che lavora in un ministero e che non può lasciare il paese.
Ed ora, di nuovo, Ibrahim è disperato, tutta la famiglia è sulle sue spalle. Entrambi i fratelli sono senza lavoro, la Giordania e l’Egitto sono paesi che già soffrono di un’altissima disoccupazione e certo non c’è posto per gli iracheni. Quello in Egitto ha deciso di cercare lavoro nel nord dell’Iraq, quel Kurdistan in pieno boom economico; quello in Giordania, invece, sta cercando di ottenere un visto per la Germania dove alcuni conoscenti gli hanno promesso aiuto. Nessuno sa quale sarà la sorte di questa famiglia, una cosa però è certa: se i due fratelli riusciranno nei loro intenti essa sarà divisa tra quattro stati e due continenti.
Un epilogo amaro per chi già una volta ha dovuto lasciare la propria patria.
Due volte profughi.

Di Baghdadhope