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22 luglio 2010

Padre Jamil Nissan, parroco a Baghdad: "Sono molto preoccupato"

By Baghdadhope*

Il territorio della chiesa dell’Ascensione a Baghdad è il più vasto tra quelli delle altre chiese cattoliche caldee della città. Si trova nel quartiere di Hay Al Hamin a Baghdad Jadida, una zona a sud est del centro abitata prevalentemente da sciiti. Il suo parroco, da ben 32 anni, è Padre Jamil Nissan che a Baghdadhope ha raccontato una vita fatta di luci e di ombre, segnata dalla speranza di non veder scomparire la presenza cristiana nel paese ma anche dalle sempre maggiori difficoltà che la comunità deve affrontare.
“Sono addolorato” dice Padre Nissan “addolorato per quanto sta succedendo al mio popolo, alla mia confessione, al mio paese.”
Padre Nissan è, e dimostra di esserlo, fieramente iracheno. “Senza offesa” dice “non cambierei un metro del mio paese con tutta l’Italia. Io amo il mio paese e la sua gente ma sono sempre più preoccupato. I cristiani stanno sparendo. Se parliamo di numeri il fenomeno è chiaro. Sebbene la fuga dal paese dei cristiani sia già iniziata dal 1991, dal tempo cioè della prima guerra del golfo e dell’inizio dell’embargo, prima del 2003 la chiesa dell’Ascensione contava circa 4000 famiglie. Dall’inizio del 2010 ho personalmente visitato 860 famiglie, in maggioranza caldee ma anche cristiane di altre confessioni, e me ne restano ancora circa 600 a voler essere ottimisti. Un bel calo. Ogni anno mancano circa 50 bambini alla prima comunione rispetto all’anno precedente, nel 2010 ho celebrato 16 matrimoni in 6 mesi mentre la media era di circa 100 all’anno e 37 battesimi contro i circa 200 del passato.”
Perché fuggono i cristiani?
“Lo fanno perché vivere in Iraq, ed a Baghdad in particolare, non è facile. A 7 anni dalla guerra mancano ancora i servizi essenziali: acqua, elettricità, raccolta rifiuti, fogne, strade, lavoro e soprattutto sicurezza. Lo fanno perché vittime di violenze. Violenze non sistematiche ma continue. Poche settimane fa proprio vicino alla mia chiesa hanno ucciso un uomo che ha lasciato una vedova e quattro figli piccoli. Ho saputo che sei famiglie imparentate con quell’uomo hanno già lasciato la zona. Una volta noi sacerdoti eravamo al corrente di ciò che i nostri fedeli facevano. Eravamo i loro referenti. Ora le famiglie partono e non lo dicono neanche a noi. Hanno paura di tutto. Liquidano per poco i propri beni, se li hanno,e fuggono via. E’ molto triste. Quelle case abbandonate molte volte in tutta fretta non saranno mai più abitate da cristiani che non avranno più soldi per acquistarle o che hanno un unico pensiero in mente: fuggire all’estero.”
La Chiesa, come istituzione, cosa fa per cercare di arginare il fenomeno?
“La chiesa non ha fatto nulla e non ha il potere di far nulla né per i cristiani rimasti in Iraq né per coloro che ora vivono all’estero. Molti sacerdoti cercano i modi per stare vicini ai propri fedeli. Non possiamo cambiare il corso degli eventi legati a scelte politiche fatte negli scorsi anni, ma possiamo far sentire la presenza della chiesa ed aiutarli come possiamo. Siamo rimasti in Iraq per il popolo, per i poveri, perché nel nostro paese il rapporto tra sacerdoti e fedeli è ancora molto stretto tanto che se un sacerdote è costretto ad abbandonare la zona in cui opera molte famiglie tendono a seguirlo. Proprio come è successo a Dora, dal 2004 teatro di molte violenze che hanno colpito la comunità e dove i rapimenti dei sacerdoti hanno svuotato la zona dei suoi abitanti cristiani.”
Nella chiesa dell’Ascensione ci sono molte attività che attirano i fedeli?
“C’è un asilo che accoglie bambini dai tre ai cinque anni e c’è una piccola infermeria dotata di laboratorio di analisi e farmacia dove ogni servizio è a titolo gratuito e dove nei quattro giorni di apertura lavorano, stipendiati dalla chiesa, quattro medici tra cui un musulmano che visitano, fanno ecografie ed eventualmente indirizzano i pazienti verso strutture più attrezzate. Questo servizio è molto apprezzato dai musulmani della zona che rappresentano il 90% dei pazienti, a volte anche solo per avere farmaci gratuiti senza neanche chiedere di essere visitati dai medici. ”
Per quanto riguarda la sicurezza?
“Sicurezza è una parola che a Baghdad ha ancora un significato strano. Il popolo iracheno ha dovuto imparare a sue spese dei comportamenti particolari. Quando vado a visitare le famiglie, ad esempio, viaggio con un autista e con una catechista perché due uomini in macchina destano sospetti mentre la presenza di una donna fa pensare ad una famiglia ed attira meno attenzione.”
Le chiese sono protette?
“Davanti ad ogni chiesa c’è un posto di blocco formato da una pattuglia della polizia ed una dell’esercito ma c’è chi pensa che in alcuni casi siano deleteri. Non solo non sono in grado di assicurare protezione in caso di attacco preordinato e ben organizzato quanto come rappresentanti del governo possono essi stessi diventare bersaglio e coinvolgere chi e cosa sta loro vicino.”
Padre Nissan, come si potrebbe uscire da questa situazione?

“Difficile dirlo. Senza dubbio non avere ancora un governo a mesi dalle elezioni è grave. Lo stato dovrà poi risolvere quelli che adesso, come ho già detto, sono i problemi di tutti i giorni: sicurezza, acqua, elettricità, trasporti, rifiuti. E’ necessario concentrare ogni sforzo nel creare posti di lavoro per i giovani che sono la vera speranza del futuro ma che non siano legati però ad una precisa appartenenza politica. Il governo non deve dimenticare la cosa più importante: il passato ci ha divisi ma il futuro non potrà prescindere da ciò che siamo, 'tutti' siamo: iracheni.”

Father Jamil Nissan, parish priest in Baghdad:"I am really worried."

By Baghdadhope*

The territory of the Church of the Ascension in Baghdad is the largest among those of the other Chaldean Catholic churches in the city. It is located in the district of Hay Al Hamin in Baghdad Jadida, a predominantly Shiite area at south east of the city centre. The parish priest, since 32 years ago, is Father Jamil Nissan who told to Baghdadhope about a life of light and shadow, marked by the hope of not seeing the disappearing of the Christians from the country but also by the increasing difficulties the community is facing.
"I'm saddened," said Father Nissan "saddened by what is happening to my people, my confession and to my country."
Fr. Nissan is, and shows to be, fiercely Iraqi. "No offense," he says "but I would not change a square metre of my country with all Italy. I love my country and its people but I am more and more worried. The Christians are disappearing. If we talk about numbers this phenomenon is clearly visible. Although the flight from the country of Christians already begun since 1991, from the time of the first Gulf War and the beginning of the embargo, before 2003 the Church of the Ascension had over 4,000 families. Since the beginning of 2010 I personally visited 860 families, mostly Chaldean but also Christians of other confessions, and I still have to visit about 600 other families, to be optimistic. A bid decrease. Each year about 50 children are missing for the first communion compared to the previous year, in 2010 I celebrated 16 wedding in 6 months while the average was about 100 and 37 baptisms per year against about 200 of the past. "
Why Christians are fleeing?
"They do it because to live in Iraq, and in Baghdad in particular, is not easy. 7 years after the war we are still lacking basic services: water, electricity, garbage collection, roads, employment and especially security. They do because they are victims of violence. Violence that is not systematic but continuous. A few weeks ago right next to my church someone killed a man who left a widow and four children. I learned that six families related to that man have already left the area. Once we, as priests, were aware of what our people did. We were their referents. Now the families leave and not even tell us. They are afraid of everything. They undersell their asset, if they have, and run away. It’s really sad. Those abandoned houses often in a hurry will never be inhabited by Christians who no longer have money to buy they or have only one thought in mind: to flee abroad."
What does the Church, as an institution, do to try to stem the flow?
"The church did nothing and has no power to do anything neither for the Christians in Iraq nor for those who now live abroad. Many priests look for the ways to stay close to their faithful. We cannot change the course of events related to political choices made in previous years, but we can make feel the presence of the church and try to be helpful. We stayed in Iraq for the people, the poor people, because in our country the relationship between priests and believers is still very tight so that if a priest is forced to leave the area where he operates many families tend to follow him. Just as how happened in Dora, the scene, since 2004, of violence that hit the community and where the kidnappings of priests emptied the area of its Christian inhabitants."
In the Church of the Ascension are there many activities for the faithful?

"There is a kindergarten for children aged from three to five and a small infirmary with a chemical analysis laboratory and a pharmacy where each service is free and where in the four opening days work, paid by the church, four doctors including a Muslim one who examine the patients, make ultrasound examinations and, if necessary, send patients to best equipped facilities. This service is very much appreciated by the Muslims of the area who represent the 90% of patients, sometimes just to get free medicine without asking to be examined by the doctor.”
What about security?
"Security is a word that in Baghdad still has a strange meaning. Iraqi people had to learn particular behaviors. When I go to visit a family, for example, I travel with a driver and a female catechist because two men in a car arouse suspicion while the presence of a woman suggests to be a family and attracts less attention."
Are the churches protected?
"In front of every church there is a roadblock made by a police and a army patrol but someone thinks that in some cases they are harmful. Not only they are unable to secure protection in case of a well organized and preordained attack but as government representatives they may themselves become targets and involve who and what is near to them.”
Fr. Nissan, how can you get out of this situation?
"It’s hard to say. Without any doubt not to have a government months after elections is serious. The state must then resolve what now, as I said, are the problems of everyday life: security, water, electricity, transport and waste. It 's necessary to concentrate all efforts in creating jobs for young people who are the true hope of the future but jobs not related to a specific political affiliation.The government must not forget the most important thing: the past divided us but the future cannot disregard what we are, we "all" are: Iraqis!"

19 luglio 2010

L'arcivescovo indiano, Francis Assisi Chullikatt, è il nuovo osservatore della Santa Sede all'Onu di New York

By Radiovaticana

Benedetto XVI ha nominato oggi come nuovo osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite di New York il 57.enne arcivescovo indiano, Francis Assisi Chullikatt, finora nunzio apostolico in Iraq e in Giordania. Si completa così il cambio della guardia alla rappresentanza vaticana del Palazzo di vetro, dopo che il Papa, lo scorso 30 giugno, aveva nominato nuovo nunzio apostolico in Polonia l’arcivescovo Celestino Migliore, che dal 2002 ricopriva la carica di osservatore pontificio all’Onu.
Entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede nel 1988, il presule ha prestato servizio nelle rappresentanze pontificie di Honduras, Africa meridionale, Filippine e anche presso l’Onu di New York; quindi ha lavorato presso la Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. Fino al 29 aprile 2006, quando Benedetto XVI lo ha nominato arcivescovo titolare di Ostra e nunzio apostolico per la Santa Sede in Giordania e Iraq, al posto dell’arcivescovo Fernando Filoni, attuale sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato.

البابا يعين السفير البابوي في العراق والأردن مراقبا للكرسي الرسولي لدى منظمة الأمم المتحدة

By Radiovaticana

عين البابا بندكتس السادس عشر هذا السبت المطران فرنسيس أسيزي شوليكات رئيس أساقفة أوسترا شرفا والسفير البابوي في العراق والأردن عينه مراقبا للكرسي الرسولي لدى منظمة الأمم المتحدة خلفا لرئيس الأساقفة شليستينو ميلويريه، الذي عينه البابا الأسبوع الماضي سفيرا بابويا في بولندا.

المطران شوليكات له من العمر سبعة وخمسون عاما، وُلد في محلة بولغاتي بالهند وسيم كاهنا في العام 1978. مجاز في الحق القانوني الكنسي. التحق بالسلك الدبلوماسي للكرسي الرسولي في العام 1988. خدم في البعثات الدبلوماسية في هندوراس، أفريقيا الجنوبية والفيليبين. عمل أيضا في قسم العلاقات مع الدول التابع لأمانة سر دولة حاضرة الفاتيكان قبل تعيينه سفيرا بابويا لدى العراق والأردن خلفا للمطران فرناندو فيلوني.

O arcebispo indiano Francis Assisi Chullikatt è o novo Observador Permanente da Santa Sé junto das Nações Unidas, em Nova Iorque

By Radiovaticana

O Santo Padre nomeou observador permanente da Santa Sé junto da organização das Nações Unidas, em Nova Iorque, o arcebispo D. Francis Assisi Chullikatt, até agora núncio apostólico no Iraque e na Jordânia.

Pope Appoints New Permanent Observer to UN

By Radiovaticana

The Holy Father has appointed an Indian Archbishop as the Permanent Observer of the Holy See to the United Nations in New York. Archbishop Francis Assisi Chullikatt is the new representative to the UN succeeding Italian Archbishop Celestino Migliore who currently serves as the Apostolic Nuncio to Poland.
Archbishop Chullikatt is now the Apostolic Nuncio to Iraq and Jordan. The Archbishop was born in Bolghatty, Kerala, India on March 20, 1953. He was ordained priest in the Diocese of Verapoly, India on the 3rd of June 1978. On 29th of April 2006 he was appointed Titular Archbishop of Ostra with his posting as the Apostolic Nuncio to Jordan and Iraq. On the 25th of June 2006 Ordained Bishop Titular Archbishop of Ostra. Prior to his appointment as Nuncio, Archbishop Chullikatt had worked in the Representations of the Holy See in Honduras, in various countries of Southern Africa, in the Philippines, at the United Nations in New York and, finally, in the Secretariat of State in the Vatican.

Mons Sako (Kirkuk) “Buoni sacerdoti per rimanere e sperare”

By Baghdadhope*

Foto by Ankawa.com

I nomi dei due giovani sacerdoti ordinati a Kirkuk il 16 luglio, secondo quanto riferito a Baghdadhope da Mons. Louis Sako (Arcivescovo caldeo della città), sono P. Qais Momtaz Habib e P. Aymen Aziz Hormez. Entrambi hanno frequentato il seminario caldeo di san Pietro conseguendo il baccalaureato in Teologia.
Padre Aymen è sposato da due anni perché la chiesa cattolica caldea prevede la figura del sacerdote spostato a patto che lo sia da prima della sua ordinazione. Padre Qais tornerà a Roma per studiare Teologia Dogmatica.
Secondo Mons. Sako quattro diaconi permanenti saranno ordinati tra quattro settimane. “Queste ordinazioni” sono le parole del prelato “sono un segno di speranza per la comunità cristiana perché avere buoni pastori è un impulso a rimanere e sperare.”

Nell’Iraq delle violenze, ordinati due sacerdoti e quattro diaconi a Kirkuk


by Layla Yousif Rahema

"Un segno di vitalità e speranza”. Così l’arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako, commenta l’ordinazione di due nuovi sacerdoti avvenuta oggi, 16 luglio, nella cattedrale della sua diocesi. E si può dire che luglio ha visto una vera e propria fioritura di ordinazioni sacerdotali, che hanno infuso nuova linfa vitale alla comunità cristiana, prostrata dal perdurare delle violenze settarie e dell’instabilità politica che affligge l’Iraq.
Insieme ai due sacerdoti oggi sono stati ordinati quattro diaconi permanenti. Prima di loro, il 9 luglio, era stata la volta di un altro sacerdote consacrato il 9 luglio a Dohok, nel nord; mentre un quarto sacerdote sarà ordinato il 23 luglio a Karamless, nella diocesi di Mosul. Anche la Chiesa siro-cattolica di Bartella e Karakosh ha avuto nuovi sacerdoti in questo mese.
“E’ un segno di vitalità e speranza veder questi giovani consacrati al Signore e al servizio dei loro fratelli che vivono in una grande sofferenza, in questo tempo di tribolazione e di buio”, dichiara mons. Sako ad AsiaNews.
Oggi, alla funzione celebrata da mons. Sako, hanno partecipato numerosi fedeli uniti nella preghiera e nella gioia, “perché questi nuovi preti possano portare il messaggio di Dio, che è l'amore e la pace, a tutti senza distinzione” racconta il presule. Nella sua omelia l’arcivescovo ha ricordato ai nuovi sacerdoti di vivere il dono di Dio come lo ha vissuto Maria, come un rapporto personale che cambia la vita: “Come Lei, dobbiamo ‘conservare queste cose nel cuore e meditarle’ (Lc 2,19.51). La preghiera è un vero e proprio scudo di protezione, a condizione che sia nell’umiltà. Maria ha detto ‘sono la serva di Dio’, anche noi siamo servi del Signore. La preghiera è il carattere distintivo che fa vedere alla gente Cristo nel nostro apostolato”.

Msgr. Sako (Kirkuk): "Good priests to stay and hope"

By Baghdadhope*

Photo by Ankawa.com

The names of the two young priests ordained in Kirkuk on July 16, according to what referred to Baghdadhope by Msgr. Louis Sako (Chaldean Archbishop of the city), are Fr. Qais Momtaz Habib and Aymen Aziz Hormez. Both attended the Chaldean seminary of Saint Peter and got the baccalaureate in Theology.
Fr. Aymen got married two years ago as the Chaldean Catholic church can have married priests on condition that their marriage dates back to before their ordination.
Fr. Qais is going to be back in Rome to study Dogmatic Theology.
According to Msgr. Sako in four weeks four permanent diacons will be ordained.
"These ordinations" are the prelate's words "are a sign of hope for the Christian community because to have good parsons is a push to stay and hope."

Amidst the violence of Iraq, two priests and four deacons ordained in Kirkuk


by Layla Yousif Rahema

"A sign of vitality and hope." Thus, the Chaldean archbishop of Kirkuk, Msgr. Louis Sako, describes the ordination of two new priests held today, July 16, in the cathedral of his diocese. It can be said that July saw a real flowering of priestly ordinations which have infused new life into the Christian community, prostrated by continuing sectarian violence and the political instability that plagues Iraq.
Together with the two priests, four permanent deacons were ordained today. Before them, on July 9, it was the turn of another priest consecrated July 9 in Dohok, in the north, while a fourth priest will be ordained on July 23 in Karamless in the diocese of Mosul. Even the Syro-Catholic Church of Bartella and Karakosh were gifted with new priests this month.
"It 's a sign of vitality and hope to see these young people consecrated to the Lord and to the service of their brothers living in great suffering, in this time of tribulation and darkness," said Msgr. Sako to AsiaNews.
Today, the mass celebrated by Msgr. Sako, was attended by many faithful, united in prayer and joy, "so that these new priests may bring the message of God who is love and peace to all without distinction" the prelate said. In his homily, the Archbishop reminded the new priests to live the gift of God as Mary did, as a personal relationship that changed her life: "Like Her, we must 'keep all these things, reflecting on them in our heart' (Lk 2 19:51). Prayer is a true shield of protection, provided that it is done in humility. Mary said, 'I am the handmaid of the Lord', we too are servants of the Lord. Prayer is the distinctive characteristic that allows people to see Christ in our apostolate".

16 luglio 2010

Iraq/Syria: Helping Iraqi refugees - Bishop thanks charity for emergency relief aid

By Aid to the Church in Need 16/7/2010

By John Pontifex

The bishop coordinating a massive relief operation for Iraqi Christians fleeing to Syria has thanked a leading Catholic charity for its ongoing emergency help – medicine, food aid and schooling. Bishop Antoine Audo SJ of Aleppo, north-west Syria, turned to Aid to the Church in Need as a refugee crisis broke following the 2003 overthrow of Iraqi dictator Saddam Hussein and the charity has helped ever since.
The charity’s latest refugee package for Syria of $29,000 comes amid reports showing that Iraqis continue to face huge problems on entering the country. Exhausted after a long and sometimes tortuous journey, the refugees arriving in the Syrian capital, Damascus, and Aleppo receive help first and foremost for urgent operations and other medical aid.
Coordinated by Chaldean Catholic parishes in both cities, the relief operation also includes basic food stuffs – tea, butter, sugar and cooking oil – distributed monthly. In response to urgent pleas for help from young families, Bishop Audo has opened a school for refugee children in Aleppo and both there and in Damascus youngsters are receiving educational support from parish volunteers. Speaking from Aleppo in an interview with Aid to the Church in Need, Bishop Audo said: “When the Iraqi Christians arrive in Syria, they only have the Church to help support them. It is the Church which is there for them. We are the ones providing adequate aid.” Highlighting the importance of the aid programme, he said: “We ask ACN – all the benefactors – to pray for us. We thank them for their generosity and support and we promise to continue praying for them.”
The bishop said Iraqi refugee numbers had halved from an all-time high of 50,000. Within a year of arriving in Syria, most refugees gain visas to the West including the USA, Canada and Australia. Bishop Audo explained that, although Syria is the neighbouring country of choice for most emigrating Iraqis, the authorities in Damascus rarely grant permanent residency visas or work and housing permits. Although the number of Iraqis arriving in Syria has fallen, the bishop stressed that this should not be seen as a sign that the suffering of Christians had abated. Instead, those remaining behind – mostly the elderly – are determined to stay and look after the family home while the younger generation go abroad. The Chaldean-rite bishop, who is a Jesuit, said: “I do not think the situation for Christians in Iraq is improving. It is still difficult especially in Mosul [city, north Iraq]. In Baghdad, it varies a lot. Life can be quite normal and then suddenly there can be attacks on the churches and acts of persecution against the people.” His comments come after Pope Benedict XVI told the new Iraqi ambassador to the Holy See that the beleaguered country should “give priority to improved security, particularly for the various minorities”. At the meeting earlier this month in which Habeeb Mohammed Hadi Ali al-Sadr presented his credentials to the Pontiff, the Pope stressed his concern that if at all possible, Christians resolve to stay in their ancestral homeland. But he added: “Iraqi Christians need to know that it is safe for them to remain in or return to their homes and they need assurances that their properties will be restored to them and their rights upheld.” Aid to the Church in Need is prioritising help for the Middle East after Pope Benedict XVI told the charity that “Churches in the Middle East are threatened in their very existence.”
As well as helping Iraqi Christian refugees in Syria, ACN is providing aid for those fleeing to Turkey and Jordan.

15 luglio 2010

Iraq's once-envied health care system lost to war, corruption

By McClatchy Newspapers May 17, 2009

By Corinne Reilly
BAGHDAD — Dr. Zinah Jawad leaned over her patient and peered into his glazed eyes. It doesn't look good, she said, shaking her head.
The man had arrived at Baghdad Teaching Hospital's emergency department a few hours earlier with a high fever and dizziness. Now he lies shaking, sweat soaking his dirty clothes.
The Teaching Hospital's emergency room is cleaner than most in Baghdad. In fact, it's widely considered the best in the Iraqi capital. Still, flies buzz overhead, and on busy days there aren't enough beds or oxygen tanks. Across the room, a crude sign made with binder paper and tape marks the department's two-bed cardiac unit, which lacks a reliable defibrillator.
Jawad, a second-year medical resident, turns to the sick man's wife, who's perched anxiously on a ripped chair at his bedside. "We suspect meningitis," she says.
If Jawad is correct, the man probably will die long before she can confirm her diagnosis. Her chances of getting antibiotics to treat him are even slimmer.
The hospital can't perform the lab test she needs. Its stock of drugs and basic supplies is so unreliable that doctors routinely dispatch patients' relatives to fetch medicines, IV fluids and syringes from private merchants or the black market.
Jawad can't explain the shortages. Her department is always careful in placing its orders with the national health ministry, which supplies all of Iraq's public hospitals. Often, though, the medicines never show up.
"No one can tell us why," Jawad said. "It is as if they just disappear somewhere."
Stories of missing drugs, of desperately ill-equipped doctors and of patients left to suffer the consequences are everywhere in Iraq's public health care system. Some hospitals are filthy and infested with bugs. Others are practically falling down. More and more, the blame is being placed on Iraq's U.S.-backed government, which by many accounts is infested with corruption and incompetence.
There's no doubt that years of economic sanctions, followed by years of war, have taken a heavy toll on all public services in Iraq. However, with violence down and some tentative sense of normalcy returning, improvements in health care should be coming far faster than they are, according to doctors, patients, aid organizations and some public officials.
They fault widespread problems at all levels of Iraq's government, and the examples they cite are troubling. Health ministry workers routinely siphon drugs from hospital orders to make extra cash on the black market. Bribery is rampant. Millions of dollars meant for clinics and equipment have gone missing. Millions more have been wasted on government contracts to buy expired medicines.
The health ministry's inspector general openly admits the problems. Even so, the culprits are rarely punished.
Corruption and ineptitude aren't limited to health care, of course; they're endemic in most Iraqi public institutions. When it comes to public health, however, the repercussions are devastating, and they bring into sharp focus the failures that are threatening Iraq's American-financed effort to rebuild itself as a democracy at peace with itself and with its neighbors.
"It costs lives every day," said a fourth-year resident at Baghdad Teaching Hospital who asked not to be named for fear of retaliation by his superiors. "The security situation is better now. The government has money. So you tell me why I can't get basic medicines at the best ER in Baghdad."
No one keeps statistics on how many deaths might be avoided if equipment and medicine were more available, but anecdotal evidence suggests that the numbers are significant.
Pediatrician Ali Alwan said the situation isn't so dire at Baghdad's Yarmouk Hospital, where he now works. But he said that children die of diarrhea and other highly treatable conditions every day at the small hospital he left four months ago in Jalawla, northeast of Baghdad.
"A lot more would survive if we had more medicines," Alwan said. "I try not to think about how many."
Ali Mohammad Abed, a student teacher from Baghdad's Bayaa neighborhood, said he thinks his 2-month-old nephew died because the public children's hospital where he was taken last month didn't have the tools to diagnose him.
"We noticed a strange color around his lips," Abed said. "They couldn't do the tests they needed to figure out what was wrong. He died the next day."
Dhiya Francis, who works at a hotel in Baghdad's Karrada neighborhood, thinks his brother would still be alive if doctors had been able to perform the operation he needed to clear a blood vessel in his heart.
Francis said his family found a private hospital to do the surgery, but they couldn't afford it.
"The government hospital said they didn't have the equipment," he said, crying. "If the private hospitals can do it, why can't the government?"
Before the 1990s, Iraq had perhaps the best health care system in the Middle East. Nearly two decades of international sanctions and war have changed that.
For nearly two years in 2006 and 2007, when Iraq's sectarian violence was at its worst, the national health ministry was controlled almost completely by Shiite Muslim militias. In many neighborhoods, Sunnis avoided hospitals for fear of being killed in them.
Today, for the most part, Iraqis feel safe enough to go where they want, including to doctors. Hospitals are no longer overwhelmed by victims of the violence.
Progress beyond that has been minimal, however. Government health care is free in Iraq, but patients who can afford to do so usually seek private care, because the public facilities are so ill equipped. In rural areas and far-flung villages, the situation is dramatically worse.
The shortages of drugs, equipment and basic supplies are among the biggest problems, doctors said.
Even at Baghdad Teaching Hospital, the emergency department's shelves often run dry of antibiotics, painkillers and life-saving drugs for heart attack victims.
"Much of the time we don't have IV fluid, so the family will go out to buy it and bring it to us," second-year resident Jawad said. "The pharmacies know they are desperate, so they charge them three or four times the normal price."
The department also lacks most basic diagnostic machines. Its lone defibrillator breaks regularly. Patient samples often must be sent out for testing because the lab can't handle them.
"We must be careful to only use the dependable labs," Jawad said. "There are many that give incorrect results, or they leave the samples to expire."
At the Hospital of Radiotherapy and Nuclear Medicine, a dirty, rundown cancer treatment center in Iraq's capital, administrators said the hospital rarely runs out of chemotherapy drugs. Patients and low-level workers told a different story, however. They said the cancer patients often must bring their own medicines.
Excluding the semi-autonomous northern region of Kurdistan, Iraq has four radiation machines for treating cancer patients, said Dr. Ahmed Abdulqadir, the hospital's deputy director. Three are at the Hospital of Radiotherapy and Nuclear Medicine; the fourth is in Mosul, in northern Iraq.
"If you need a new machine, there's no real process to get it," lamented a fourth-year resident, who didn't want his name published so he could speak candidly. "You're told to ask so many different administrators, and then none of them does anything about it. It's a mess."
At Yarmouk Hospital, a 600-bed facility where entire wings are blocked off for fear they'll fall down, nurses complain of constant shortages. One said the hospital regularly uses water as a substitute for ultrasound gel.
"One day we will have a lot, and the next day it will all be gone," she said.
Huda Fadhil, sitting at her ailing mother's bedside, said doctors at Yarmouk had sent her out several times to fetch supplies the hospital lacked.
"I just got back from buying this," she said, holding up a plastic syringe. "With all the fortunes this country has, the hospitals don't have syringes? It's crazy."
The shortages are so endemic that some hospitals refuse to treat noncritical patients if they come without friends or relatives to act as runners on their behalf.
At Baghdad Teaching Hospital, an old man who came alone to have fluid drained from his abdomen said that doctors told him they couldn't perform the procedure until he brought a helper.
"I keep telling them I have no one," he said, rubbing his bloated belly.
Patients said bribery is so widespread that the sick now accept it as part of the process of getting treatment from hospital and clinic workers. Those who're able sometimes use payoffs or personal connections at the health ministry to avoid long waits for surgeries or hard-to-get tests such as MRIs.
"My case is a simple one, so I haven't paid any bribes," said Widad Jalal, who was admitted to Yarmouk for a lung infection. "But many times you do. This is not hidden. It's common."
Doctors and pharmacists said that drugs and other supplies are routinely stolen from the public health care system and sold to private merchants who jack up the prices.
All drugs that enter Iraq by way of government contracts are marked with health ministry stamps. They're never meant to end up at private drug stores, but they often do, said Husham Hussein, who works mornings stocking shelves at a public hospital and runs his own pharmacy in the afternoons.
He said that sometimes health ministry administrators skim off the top of ministry orders. Other times, he said, workers steal supplies off the hospital shelves. Hussein described one common scheme, in which clinic employees falsify paperwork for nonexistent patients, then walk off with drugs and other supplies.
"The leak of materials from the hospitals to the private pharmacies is well known," Hussein said. " But no one really tries to stop it. That's why so many people do it."
By many accounts, health ministry buyers routinely take bribes from manufacturers to purchase unnecessary equipment or medicines of such low quality that doctors refuse to use them.
Bassim Shareef Nuseyif, a member of the Iraqi parliament's health committee, said he's aware of at least one case in which the health ministry bought millions of dollars worth of expired drugs.
"I can't tell you if this was corruption or negligence," Nuseyif said. "But either way, it is very bad."
Nuseyif told of an instance in 2007 in which provincial officials took roughly $9 million in central government funding to buy new equipment for hospitals and clinics in the southern province of Wasit. The equipment still hasn't shown up, Nuseyif said.
"We know this is happening other places," he said.
Iraq's public health care system has seen some improvements in the past year or so, and there's no doubt that some problems aren't easily solved, foremost among them a shortage of doctors. As many as 15,000 are estimated to have fled because of the war, and few of them have come home. Foreign companies and investors, which Iraq desperately needs, also have been hesitant to return.
The health ministry budget is now roughly $3.5 billion, up from $16 million in 2002, but health ministry officials said their share of the national budget, about 3 percent, is far from adequate, and many lawmakers agree. Now, moreover, lower oil prices have forced the government to cut spending by billions.
Last year, the government spent about $800 million buying medicines, officials said, but while health spending has increased from $62 per capita in 2007 to $100 in 2008, doctors said they haven't seen improvements to match.
Corruption may be a big reason why. There are no approximations specific to the health ministry, but the U.S. has estimated that 10 percent of the central government's money is lost to corruption.
One Iraqi official, Radhi Hamza al Radhi, told U.S. lawmakers in late 2007 that the Iraqi government's Public Integrity Commission had uncovered losses of about $18 billion across all ministries.
Jobs often go to people with the right connections, regardless of their qualifications.
"This ensures that the corruption can continue," said Saif Abdul Rahman, a senior adviser to Iraqi Vice President Tariq Hashimi. "Until we institutionalize hiring, I don't expect that to change."
Nuseyif, the parliamentarian, said that problems such as Iraq's shortage of doctors probably would be far less severe if not for the bribery and theft.
"These things tend to push out the honest and the efficient professionals," he said.
Graft also appears to be delaying badly needed renovations at Iraqi health care facilities.
Roughly 40 percent of Iraq's 210 public hospitals are awaiting major repairs, according to the government's own figures. At Yarmouk, entire wings are too decrepit to use. Gaping holes pock the ceilings and big brown bugs scurry through the hallways. The elevators haven't worked in years. Relatives must carry the sickest patients up and down the stairs.
Nuseyif said he's visited hospitals where large sums supposedly were spent on renovations, but he could see no evidence of improvements.
"When you go to look at these hospitals, it is clear the money didn't go where it was meant to," he said." There is no accounting or monitoring, and the people stealing the money know this."
Mustafa al Hiti, another health committee member, said ministry administrators and provincial officials sign contracts for renovations and equipment at costs far below what was allocated, and then pocket the difference.
"Things end up breaking down quickly, or they are useless," he said. "The contracts are not made with reputable companies in Europe or the West."
Last year, the health ministry forwarded about 150 corruption cases to the Public Integrity Commission, but authorities said such efforts rarely amount to much.
The commission is supposed to be the government's most powerful anti-corruption body, but it's widely considered weak and ineffective. Its officials have said that less than 3 percent of cases they investigate end with convictions, and they've complained of corruption even among the commission's own ranks.
The health ministry's inspector general, who's charged with improving the department and rooting out corruption, acknowledged there are problems but downplayed their severity.
Adel Mohsin Abdullah, who's held his position since 2003, said his office conducts audits on health ministry spending but that the findings aren't public. "We've uncovered some problems, mostly with the contracts," he said. "We're working to fix them."
Abdullah named "human resources issues" among ministry administrators as the biggest obstacle to better health care in Iraq.
"The problem is half corruption and half a lack of ability," Abdullah said. "When we have a better department, you will see the improvements in our hospitals."
He declined to discuss specific examples. "Please don't embarrass me with these kinds of questions," he said, adding that the situation inside public hospitals isn't as bad as many doctors describe.
Asked what the ministry has done to get rid of unqualified employees, Abdullah said the health department is still developing procedures to evaluate the performance of its 170,000 workers.
"We are still in the stage of determining who should be replaced," he said. "These things take time."
(Reilly reports for the Merced Sun-Star. McClatchy special correspondents Jenan Hussein, Sahar Issa and Hussein Kadhim contributed to this article.)

Iraq: Tarek Aziz, Mons. Warduni (Baghdad) "Operare con giustizia e misericordia"

By SIR 14 luglio 2010

“Non spetta certo a noi, uomini di chiesa, esprimere pareri su fatti come questi di rilevanza politica. Posso soltanto dire di operare con giustizia e misericordia”.
Così il vicario patriarcale di Baghdad, mons. Shlemon Warduni, commenta al SIR la consegna, da parte delle forze americane, del numero 2 di Saddam Hussein, Tarek Aziz, alle autorità irachene.
Il fatto è stato denunciato dall’avvocato di Aziz, Badie Aref, che da Amman, ha dichiarato che la vita del suo assistito “ora corre un grave pericolo. Egli teme che possa venire ucciso o che gli siano vietate le necessarie cure mediche”. Aziz, di fede cristiana, si consegnò agli Usa nel 2003, subito dopo la deposizione di Saddam Hussein. Processato per il coinvolgimento con il regime, è stato condannato dal tribunale speciale iracheno a sette anni di prigione. “La giustizia deve fare il suo corso ma senza dimenticare la misericordia – aggiunge il presule caldeo – va, infatti, tenuta presente la condizione particolare in cui si era costretti ad agire sotto il passato regime, quando non era concesso dissentire o esprimere pareri diversi. Personalmente credo che non avrebbe voluto la guerra. Era molto rispettato dai governi di quel tempo”. Nel 2003 Aziz fu ricevuto da Giovanni Paolo II che si adoperò a lungo per scongiurare la guerra. Aref non ha escluso di volersi recare in Vaticano per perorare la causa umanitaria di Aziz.

Iraq: Tarek Aziz. Mgr. Warduni (Baghdad) "Be just and compassionate"

By SIR July 14, 2010

“It is certainly not up to us, as men of the Church, to pass opinions on such facts of political interest. All I can say is that one should be just and compassionate”.
This is how the patriarchal vicar of Baghdad, mgr. Shlemon Warduni, comments for SIR the US forces’ handing over Saddam Hussein’s right-hand man Tarek Aziz to the Iraqi authorities.
The fact was reported by Aziz’s lawyer, Badie Aref, who said, from Amman, that his client’s life “is now in grave danger. He fears he may be killed or be denied essential medical assistance”. Aziz, who is Christian, surrendered to the US in 2003, just after Saddam Hussein’s dethronement. Tried for his involvement in the regime, he was sentenced by the Iraqi Special Court to seven years in prison.
“Justice must run its course, but mercy must not be forgotten – the Chaldean prelate adds –. The special circumstances in which people were forced to act under the old regime, when they could not dissent or express any contrary opinion, should be borne in mind. Personally, I think he would not have wanted the war. He was widely respected by the governments of that time”. In 2003, Aziz was received by John Paul II, who worked long and hard to avert the risk of a war. Aref did not rule out the option to go to the Vatican and plead Aziz’s humanitarian cause.

Il vescovo di Tikrit: in Iraq la comunità cristiana è isolata

By Avvenire 14 luglio 2010

La comunità cristiana «è isolata, è un bersaglio dei fondamentalisti e non è aiutata dalle politiche del governo». Così l'arcivescovo di Tikrit Mikhael Al-Jamil ha descritto, nel corso di una conferenza stampa organizzata dall'associazione Salvaimonasteri a Montecitorio, l'attuale situazione dei cristiani residenti in Iraq, concentrati soprattutto nella parte settentrionale del Paese.
Una situazione che, però, secondo il neoambasciatore iracheno presso la Santa Sede Habbeb Mohammed Hadi Ali Al-Sadr non è così drammatica. «La comunità gode di ogni libertà e Baghdad provvede alla sua sicurezza», ha assicurato il diplomatico. Diversa l'opinione di Salvaimonasteri che, nel corso della conferenza, ha mostrato una petizione presentata alle Nazioni Unite e sottoscritta da politici, docenti e cattolici di tutto il mondo per denunciare l'emergenza della tutela dei diritti umani per i cristiani in Iraq.
«Buona parte della comunità già è andata via. Manca il rapporto con le istituzioni locali», ha sottolineato la presidente dell'associazione Elisabetta Valgiusti, ricordando che la petizione è stata redatta subito dopo l'attentato a un convoglio di bus di studenti cristiani diretti all'università di Mossul, che ha provocato 4 vittime e 171 feriti. Il vescovo Al Jamil ha spiegato come, a dispetto di altre minoranze, «i cristiani pur non avendo armi, non facendo parte della lotta, siano comunque visti come propaggine dell'Occidente aggressore». A danneggiarli è l'idea di creare un nuovo Medio Oriente, che prevede il loro "sradicamento". Secondo l'ambasciatore iracheno Al-Sadr, tuttavia, i cristiani sono tutelati dal governo, che «ha provveduto alla sicurezza degli edifici di culto aprendo inchieste sugli attentati». La Costituzione, tra l'altro, «sancisce la piena uguaglianza tra musulmani e cristiani, i quali godono di totale libertà», ha aggiunto il diplomatico sottolineando che se il terrorismo colpisce la comunità è «per attirare l'attenzione dei media più di quanto non accada colpendo i musulmani».

Nota di Baghdadhope: Mons. Mikhail Al Jamil ha il titolo di vescovo di Arcivescovo titolare della sede di Takrit (Tagritum) dei Siri per la chiesa siro cattolica. E' anche visitatore apostolico in Europa e procuratore presso la Santa Sede.

14 luglio 2010

Mortalità in Iraq

By EMRO-WHO

Secondo quanto riportato dal sito dell'ufficio regionale per il mediterraneo orientale (EMRO) dell'Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2007 l'aspettativa di vita dell'iracheno medio era di 59.1 anni se maschio e di 62.2 anni se femmina.

USA consegnano Tareq Aziz ad autorità irachene, rischia la vita

By ASCA- AFP


Amman, 14 lug - Gli Stati Uniti h
anno riconsegnato alle autorita' irachene Tareq Aziz, ex vice primo ministro dell'Iraq ai tempi del regime di Saddam Hussein. Lo ha annunciato il suo avvvocato Badie Aref, secondo il quale Aziz sarebbe ora in pericolo di vita.
'Dovevano rilasciarlo. Gli americani hanno violato il codice della Croce Rossa perche' lo hanno consegnato ai sui nemici. La sua vita e' in pericolo ora'', ha detto Aref, chiedendo l'intervento delle organizzazioni internazionali.
Aziz, 73 anni, cristiano caldeo, si era consegnato ai militari statunitensi nell'aprile del 2003 e nel 2009 ha subito una prima condanna a 15 anni per omicidio ed altri sette per il ruolo avuto nell'espulsione dei curdi dal nord dell'Iraq. Colpito da due attacchi di cuore durante questi anni di prigionia, la famiglia ne aveva chiesto la liberazione per motivi di salute.

6 luglio 2010

Ucciso un altro cristiano a Mosul

By Asia News

di Layla Yousif Rahema


Continua l’agonia della comunità cristiana di Mosul, la città più pericolosa d’Iraq. Ieri 5 luglio, in una vera e propria esecuzione mirata, ha perso la vita l’ennesimo cristiano. Siro-ortodosso, Behnam Sabti - 54 anni - lavorava come infermiere all’ospedale statale Al Jumhuriyia di Mosul. Un ordigno fissato sotto la sua auto è esploso mentre l’uomo era alla guida, uccidendolo sul colpo. Fonti locali di
AsiaNews, anonime per motivi di sicurezza, si dicono convinte che il movente dell’omicidio sia proprio “l’identità religiosa” dell’uomo. Sposato e padre di tre figli, Kemal sarà sepolto a Bashiqa, nel suo villaggio natale nel nord del Paese. Secondo gli ultimi dati, diffusi a fine giugno dai ministeri iracheni della Difesa, della Salute e dell’Interno, la violenza su scala nazionale è diminuita. Nonostante ciò, la gente si dice sfiduciata e ancora vive nel terrore. Il numero degli iracheni uccisi in modo violento, nel mese di giugno, è sceso a 284, rispetto ai 437 dello stesso mese del 2009. Se l’Iraq sta vivendo uno stallo politico dovuto al protrarsi delle trattative sulla formazione del nuovo governo dopo le elezioni del 7 marzo scorso, Mosul affronta “un vero vuoto di sicurezza”, come raccontano le fonti di AsiaNews. In quella che oggi è la roccaforte di “Al Qaeda in Mesopotamia”, si verificano due tipi di violenze: da una parte quelle terroristiche indirizzate contro gli abitanti locali – in gran parte sciiti - e le minoranze; dall’altra quelle jihadiste che colpiscono le truppe americane i loro alleati delle forze di sicurezza irachene.
Le strade di Mosul sono pattugliate dall’esercito Usa, circa 18 battaglioni dell’esercito iracheno sono dispiegati in tutta la città, insieme a centinaia di poliziotti e checkpoint. Ciò nonostante, la situazione rimane altamente insicura, come rivelano gli stessi ufficiali americani. E i problemi “aumenteranno quando gli Usa completeranno il ritiro”, dichiara Didar Abdulla al-Zibari, un membro del locale consiglio provinciale.

Another Christian killed in Mosul

By Asia News

by Layla Yousif Rahema

The agony continues for the Christian community of Mosul, the most dangerous city in Iraq. Yesterday July 5, in a targeted attack yet another Christian was killed. 54 year old Syrian Orthodox, Behnam Sabti worked as a nurse at the Jumhuriya state hospital of Mosul. A bomb fixed under his car exploded while the man was driving, killing him instantly. Local sources, anonymous for security reasons, tell AsiaNews, they are convinced that the motive of the murder was the man’s "religious identity". Married with three children, he will be buried in Bashiqa Kemal, his native village in the north.

According to the latest data, released in late June by the Iraqi ministries for Defence, Health and the Interior, violence has declined on a national scale. Nevertheless, people are still despondent and living in fear. The number of Iraqis killed violently, in June, fell to 284 compared with 437 the same month in 2009.
If Iraq is experiencing a political stalemate due to protracted negotiations on forming a new government after March 7 elections, Mosul faces "a real security vacuum", sources tell AsiaNews. In what is now the “Al Qaeda stronghold in Mesopotamia", two types of violence take place, terrorism directed against the locals - mostly Shia - and minorities, and jihadist violence targeting American troops and their allies of the Iraqi security forces.
The streets of Mosul are patrolled by the U.S. military, about 18 Iraqi army battalions are deployed throughout the city, along with hundreds of police and checkpoints. Nevertheless, the situation remains highly uncertain, as revealed by the same American officials. And the problems "will increase when the U.S. completes the withdrawal," says Didar Abdulla al-Zibari, a member of the local provincial council.

3 luglio 2010

Ordinazione episcopale in Iraq, nuovo vescovo di Erbil: Mons. Bashar Warda

By Baghdadhope*

Dopo la cerimonia di professione religiosa di alcune suore caldee svoltasi ieri a Karamlesh i vescovi ed i sacerdoti che vi hanno partecipato si sono spostati ad Erbil dove alle 10.00 di oggi sarà ordinato il nuovo vescovo della cittadina, Mons. Bashar Warda.

Mons. Warda, nominato lo scorso 24 maggio, riceverà in dono l'anello e la croce pettorale dalla parrocchia di Mar Eliya a Baghdad dove fu parroco dal 2001 al 2006.

Episcopal ordination in Iraq, the new bishop of Erbil: Msgr. Bashar Warda

By Baghdadhope*

After the ceremony of the final vows of some Chaldean nuns held yesterday in Karamlesh, the bishops and the priests who attended it went to Erbil where today at ten o' clock the new bishop of the city, Msgr. Bashar Warda, will be ordained.

Msgr. Warda, appointed on the last
24 of May, will receive the ring and the pectoral cross by the church of Mar Eliya in Baghdad where he worked as parish priest between 2001 and 2006.

2 luglio 2010

I monaci cristiani iracheni? Impareggiabili maestri di vino

By Teatro Naturale 26 giugno 2010 n° 25 anno VIII
di Riccardo Lagorio

Probabilmente sono trascorsi 8000 anni da quando le popolazioni della Mesopotamia iniziarono a spremere uva, attendere un conveniente periodo per la fermentazione del mosto ed infine utilizzarne il risultato per cerimonie civili e religiose.
Nasceva così, grazie all’operosità di archetipi vignaioli, la cultura di uno dei prodotti più consumati al mondo, prendeva corpo il vino più antico al mondo, celebrato da assiri e hittiti. Malgrado i periodi bui di repressione cristiana – la più recente ha coinciso con il governo di Saddam Hussein, che mise al bando i costumi, finanche alimentari, della cittadinanza caldea e maronita del Kurdistan iracheno, che ha per capitale Erbil - sopravvive nei monasteri e nelle comunità cristiane l’usanza di produrre il vino.
Se per i monasteri è quasi d’obbligo poter contare su un quantitativo ancorché minimo del prezioso liquido per celebrare il mistero dell’eucarestia; per i contadini è fonte di reddito integrativo alla frutta ed alla verdura che dalle colline prende la strada delle città.
Peraltro nelle scarse fonti letterarie del VII secolo, prima dell’avvento della religione islamica, c’è evidenza di diffuso consumo d’alcool nei territori musulmani al tempo di Maometto, prima che lo stesso le dichiarasse haram (tabù).
Accanto allo scritto di Al Bukhari che registra un elevato numero di bevande alcoliche presenti nella penisola arabica, il lavoro di Omar Ibn al Khattab descrive bevande ottenute fermentando uva, datteri, orzo, frumento o miele.
I villaggi di Dhok, Haudian, Diana e Sersenk, a circa 400 chilometri da Erbil, e di Koisangiak, a 200 chilometri dalla capitale, sono tra i maggiori centri produttori di vino mentre la scuola di Shaklawa, diretta da monaci e che dista meno di un’ora e mezza di strada da Erbil, si distingue per la lunga tradizione di produzione di vino, accertata da oltre cinquecento anni.
Si può affermare senza errore che i maggiori produttori di vino in Iraq e in Mesopotamia sono proprio i monaci che vivono nei monasteri ed utilizzano il vino anche come strumento di ospitalità ai visitatori.
Akram Sliwa Sheer conduce uno dei tanti negozietti di alcolici che si possono trovare nel quartiere di Ankawa vicino alla chiesa dedicata a San Giuseppe, ma soprattutto intrattiene regolari rapporti con i piccolissimi produttori di vino delle colline anche grazie all’esperienza pastorale del fratello nel monastero di Shaklawa.
“Sono gli stessi cittadini a volere aperti i loro negozi tradizionali. In quest’area di Erbil, dove vivono perlopiù cristiani, si sono sempre venduti alcolici – dice - il governo attuale ci ha dato la possibilità di mantenere i nostri negozi; anzi stanno nascendo dei pub dove possiamo ritrovarci senza nessun pericolo perché i potenziali contestatori non hanno accesso”.
Nel suo negozio, come negli altri negozi della città che vendono alcolici, non è possibile trovare in vendita vino iracheno, ma dopo una amichevole chiacchierata Akram non esita a offrire tre tipologie di vino rosso che proviene dal nord del Paese.
Non è data sapere la varietà di uva utilizzata, ma solo che si tratta di black grapes, uva nera. Esiste un’altra tipologia di uva (il termine varietà sarebbe in questo caso troppo… sofisticato) denominata king grapes, che ha bisogno di più lavoro per crescere e con quella, dice, si produce pochissimo vino.
Alle temperature estive che sfiorano i 50 gradi l’uva ottiene un elevato grado zuccherino. I vini sono presentati in improbabili bottiglie, usate originariamente per contenere arak od ouzo greco, whisky o altro ancora, chiuse ermeticamente da tappi a vite.
Il primo che è stato per così dire stappato proviene dalle uve dell’orto del monastero di San Mattia a Bahshika, nel nord dell’Iraq.
Porta colore rosso intenso con riflessi mattonati, piacevolmente speziato di cannella e noce moscata al naso, alla bocca è vigoroso, imponente, piacevolmente grondante di susina appassita e lampone.
Il vino del secondo bicchiere è dell’orto della chiesa di Alkosh, all’interno della zona protetta di Ninive.
Il liquido è denso, seducente, dal colore rosso intenso inaccessibile quasi. Ha poco più di un anno di vita.
L’olfatto è impressionato dal profumo di nocciola e frutta secca, scorgo un vago aroma di pepe e rosa che si dilata in bocca, la corteggia, la conquista, la penetra con ruvida grazia.
Il gusto è lungo, infinito, di elevata alcolicità ammorbidita dal grado zuccherino.
Il terzo vino proviene dalle campagne di Shaklawa; ha cinque anni ed è considerato da Akram un vino prezioso.
Il colore è ambra, sul fondo della bottiglia si scorgono sedimenti. Il naso percepisce le note alcoliche amplificate poiché manca del tutto della armonia dei precedenti bicchieri.
Si distingue per l’abboccato secco e le evidenti note alcoliche che lungi dall’essere stucchevoli conquistano per semplicità e compostezza.
Malgrado la piacevolezza dei vini, stiano tranquilli i vignaioli italici: non potranno mai temere la concorrenza dei monaci iracheni sotto il profilo commerciale.
Tuttavia questi elaborati enoici sono un appuntamento culturale imperdibile per raccontare la storia e la vita attuale delle comunità cristiane del Kurdistan iracheno, un orgoglioso drappo sventolato per esibire la propria tormentata appartenenza religiosa.

Il Papa all’Iraq: Formate un nuovo governo e garantite la libertà religiosa

By Asia News

La speranza di un nuovo governo; la sicurezza per le minoranze e per i cristiani in particolare; il rispetto per i diritti umani e soprattutto della libertà religiosa sono alcuni dei temi del discorso che Benedetto XVI ha pronunciato oggi alla presentazione delle lettere credenziali del nuovo ambasciatore irakeno presso la S. Sede, Habbeb Mohammed Hadi Ali Al-Sadr.
Quasi come in un’accurata analisi sul Paese, il pontefice ha anzitutto augurato che “la formazione di un nuovo governo proceda velocemente, così che la volontà del popolo per un più stabile e unificato Iraq possa essere compiuta”.
Il 7 marzo scorso gli irakeni sono andati a votare per il nuovo parlamento e governo, sfidando minacce dei terroristi e l’insicurezza cronica del Paese. Ma da allora non è stato formato alcun governo per il conflitto- competizione che oppone Iyad Allawi, laico, vincitore di stretta misura sul partito di Al Maliki, sciita. Il papa ha ricordato “il grande coraggio” testimoniato dagli irakeni alle elezioni e domanda che esso sia corrisposto.
Il secondo tema affrontato dal papa è quello della sicurezza e del posto dei cristiani nell’Iraq contemporaneo. Benedetto XVI accenna in breve alle violenze e alla fuga dei cristiani che hanno ridotto quasi del 50% le comunità. Ricordando l’importante contributo sociale delle comunità cristiane nel campo dell’educazione e dell’assistenza, egli ha affermato che “i cristiani irakeni hanno bisogno di sapere che c’è ormai sicurezza per loro nel rimanere o nel ritornare alle loro case; ed essi necessitano garanzie che le loro proprietà verranno riconsegnate e i loro diritti difesi”.
Benedetto XVI ha pure esortato al rispetto dei diritti umani “nelle leggi e nella pratica” per rendere “sana” la società irakena. E ha sottolineato che “fra i diritti da rispettare per promuovere il bene comune, sono primari il diritto alla libertà religiosa e di culto, perché essi rendono abili i cittadini a vivere secondo la loro dignità trascendente come persone fatte ad immagine del loro divino Creatore. Spero perciò e prego che questi diritti non solo vengano inscritti nella legislazione, ma si diffondano in modo profondo nel tessuto della società”.
Ricordando poi l’imminente Sinodo dei vescovi sul Medio oriente, che tratterrà pure del dialogo e della collaborazione fra cristiani e musulmani, il papa ha aggiunto: “Spero che dalle difficili esperienze del passato decennio, l’Iraq possa uscire quale modello di tolleranza e di cooperazione fra musulmani, cristiani e altri al servizio di coloro che sono più bisognosi”.
Nel suo discorso il pontefice ha citato pure “i molti atti tragici di violenza commessi contro membri innocenti della popolazione, sia musulmani che cristiani” e ha ricordato “l’esempio di quegli uomini e donne che, avendo scelto la via coraggiosa della testimonianza non violenta… hanno perso le loro vite in codardi atti di violenza”. Fra essi il papa ha menzionato mons. Paulos Faraj Rahho, arcivescovo caldeo di Mosul, morto in cattività per un rapimento nel marzo 2008(v. foto del suo funerale), e p. Ragheed Ganni, sacerdote di Mosul, ucciso all’uscita della chiesa dopo la messa domenicale nel giugno 2007.
“Possa il loro sacrificio – ha continuato il papa – e quello di molti altri come loro, rafforzare nel popolo irakeno la determinazione morale necessaria per strutture politiche che garantiscano una più grande giustizia e stabilità”.