Pagine

17 novembre 2006

Chi salverà i cristiani iracheni?

Che Sarkis Aghajan Mamendu, Ministro delle Finanze del Governo Regionale del Kurdistan, sia stato di grande aiuto ai cristiani iracheni – lui stesso è un fedele della Chiesa Assira dell’Est – è dimostrato dalle onorificenze religiose a lui concesse nello spazio di soli tre mesi.
In una sorta di corsa contro il tempo le tre chiese più rappresentative dell’Iraq gli hanno infatti riconosciuto il merito di avere aiutato i cristiani come nessun altro aveva fatto prima.
Nuovi villaggi costruiti per loro nella zona curda – e pazienza se molte voci accusano lo stesso governo curdo di aver nello stesso tempo “pulito” altri villaggi dalla presenza cristiana - e nuove chiese – e pazienza se sempre le stesse voci fanno notare che di ben altro aiuto, meno spirituale, avrebbero bisogno i cristiani costretti a lasciare le proprie case – sono stati i motivi che hanno giustificato queste “investiture” ufficiali....
by Baghdadhope
A cominciare, ad agosto, è stata la Chiesa Cattolica Caldea, seguita ad ottobre da quella Siro Ortodossa e da quella Assira dell’Est. Ben tre patriarchi, rispettivamente Mar Emmanuel III Delly, Moran Mor Ignatius Zakka I Iwas e Mar Dinkha IV, hanno sancito la definitiva affermazione di Aghajan a guida politica della intera comunità cristiana con parole altisonanti: “Le generazioni future, i nostri testi, i nostri luoghi di culto, e le nostre associazioni ricorderanno la sua generosità ed il suo nome, che rimarrà scolpito nei cuori della comunità cristiana” (Mar Delly) “Tutti, da est ad ovest, lodano la sua infinità generosità nel servire la cristianità. Come disse San Paolo 'Colui che dona con gioia è benedetto da Dio' Lei è un esempio di qualità bibliche ed umane e noi invitiamo tutti a seguire le sue orme” (Mor Zakka) “La onoriamo con la Croce di Gesù Cristo che la proteggerà da tutti i mali… per la sua fede ed il suo amore verso la chiesa, il paese e la gente” (Mar Dinkha)
Eppure c’è chi, magari riconoscendo alcuni meriti ad Aghajan, ritiene che queste investiture abbiamo creato e creeranno non pochi problemi. La costruzione di nuove chiese, ad esempio, secondo l’opinione di alcuni fedeli, ma anche di alcuni sacerdoti, non ha fatto altro che attirare l’attenzione di chi, politicamente o religiosamente motivato o meno, ha visto in essa una disponibilità finanziaria da sfruttare.
In un paese dove i rapimenti arrivano a coinvolgere centinaia di vittime nello stesso episodio la minaccia del crimine è efficace quanto il crimine stesso. Così un sacerdote della Chiesa Assira dell’Est è stato costretto la scorsa settimana ad abbandonare Mosul ed a rifugiarsi nel nord dell’Iraq per porre fine alle vessazioni cui era sottoposto da tempo: donare “volontariamente” ingenti somme di denaro alle forze dei Mujahideen islamici per proteggere i fedeli della sua chiesa da rapimenti ed uccisioni. Le stesse ragioni che hanno obbligato un sacerdote dell’Antica Chiesa Assira dell’Est a lasciare la cittadina di Telkaif ed a trasferirsi nell’estrema provincia settentrionale di Dohuk.
Questi episodi, come quello riportato da ASIA NEWS, di un ordigno che ha danneggiato l’ottocentesca Dominican Clock Church di Mosul il primo di novembre,
(http://www.asianews.it/view.php?l=it&art=7767) dimostrano come la violenza verso la comunità cristiana irachena sia mirata a diffondere il terrore al suo interno per spingerla a “lasciare” il territorio.
Così è già stato ad esempio per il quartiere di Dora, nella parte meridionale di Baghdad, dove due terzi delle famiglie cristiane che vi abitavano sono fuggite, e dove cinque chiese, un monastero, un seminario e l’unica facoltà teologica in Iraq, il Babel College, hanno interrotto le proprie attività, (http://baghdadhope.blogspot.com/2006/10/milizie-irachene-stanno-conducendo-una.html) e così pare stia accadendo a Mosul, le cui istituzioni cristiane sono state oggetto di violenza già in passato, ma che sta assistendo ad un incremento della stessa che difficilmente si può pensare sia occasionale, e che ha avuto la sua massima espressione nella barbara uccisione di Padre Paul Iskandar, sacerdote della Chiesa Siro Ortodossa rapito il 10 ottobre scorso e ritrovato cadavere il giorno dopo, la testa e gli arti spiccati dal tronco. Un rapimento che ha scosso l’intera comunità cristiana.
Padre Paul Iskandar non è stato il primo sacerdote rapito, un vescovo siro-cattolico, due monaci e tre sacerdoti cattolici caldei erano stati infatti già sequestrati, ma è stato il primo ad essere ucciso, e senza motivazioni apparenti visto che delle due richieste fatte dai rapitori: che la chiesa siro-ortodossa si dichiarasse pubblicamente contro le parole pronunciate da Papa Benedetto XVI a Ratisbona a settembre e considerate offensive per l’Islam, e che venisse pagato un riscatto per la sua liberazione, la prima fu subito soddisfatta, mentre non fu neanche dato il tempo di farlo per la seconda.
Mosul quindi è ora diventata una zona “che scotta” per i cristiani che vi abitano o che vi si sono rifugiati per sfuggire alle violenze incontrollate di Baghdad. Una zona da cui - è prevedibile se la situazione non dovesse migliorare - essi fuggiranno verso l’estero o verso l’estremo nord, quel Kurdistan dove Sarkis Aghajan Mamendu li sta aspettando a braccia aperte ma che niente assicura possa davvero rappresentare per loro un porto sicuro.
Il Kurdistan pacificato di oggi, che l’America presenta come prova, seppur parziale, del successo della “democratizzazione forzata” del paese, altro non è che il prodotto della realpolitik della classe politica curda che ha deciso di capitalizzare gli eventi degli ultimi anni ad essa favorevoli, che l’hanno di fatto resa semi-indipendente dal governo di Baghdad, cancellando anni di lotte intestine che hanno fatto migliaia di morti e che hanno diviso in due la regione curda solo apparentemente unificata a maggio del 2006. (Fino a maggio 2007 i quattro ministeri chiave delle Finanze, dei Peshmerga, della Giustizia e degli Interni, saranno ancora doppi)
Una riunificazione che però potrebbe vacillare e trasformare di nuovo il “pacificato” Kurdistan in una regione pericolosa se gli antichi contrasti dovessero riaffiorare e se, per ipotesi, l’obiettivo di “riportare Kirkuk nella regione del Kurdistan” (Kurdistan Regional Government Unification Agreement, 21 gennaio 2006) venisse avversato con la forza dal governo centrale desideroso di non rinunciare ai ricchissimi giacimenti petroliferi della zona, il cui presidente, è bene ricordare, è quel Jalal Talabani, leader del Patriotic Union of Kurdistan (PUK) che per decenni fu nemico giurato di Masoud Barzani, presidente del Kurdistan Democratic Party (KDP) nonchè zio dell’attuale primo ministro del Kurdistan Regional Government (KRG) Nechirvan Idris Barzani. Se ciò dovesse accadere i cristiani della regione o quelli che vi avessero trovato rifugio si troverebbero di nuovo tra due fuochi, ed in quel caso neanche il pluridecorato Sarkis Aghajan potrebbe salvarli.