Pagine

30 dicembre 2020

Il Papa in Iraq e il rinnovo dell'intesa con Israele

By AGI
Nicola Graziani

Papa Francesco visiterà l'Iraq dal 5 all'8 marzo e farà tappa a Bagdad, alla piana di Ur, legata alla memoria di Abramo, a Erbil, e a Mosul e Qaraqosh, nella piana di Ninive.
"A suo tempo sarà pubblicato il programma del viaggio, che terra' conto dell'evoluzione dell'emergenza sanitaria mondiale", è stato spiegato.
Come spesso accade in diplomazia, il peso delle parole è inversamente proporzionale al tono della voce.
Ecco allora che quasi nessuno si accorge di come, poco dopo l’annuncio del viaggio di Papa Francesco in Iraq (paese che rappresenta in questo momento il cuore di tutti i problemi di una regione problematica come il Medioriente), qualcuno abbia sollecitato la chiusura dei negoziati tra Santa Sede e Israele.
Pierbattista Pizzaballa, dell’Ordine dei Frati Minori, è il patriarca latino di Gerusalemme cui Bergoglio ha voluto di recente imporre il pallio. Insomma, tra loro c’è grande assonanza. Pizzaballa non ha usato toni forti, quindi la questione è importantissima, anche se in pochi se ne sono accorti. 
Qualche giorno fa, commentando la prossima visita papale, il francescano che vive da trent’anni in Terrasanta ha sottolineato: “Una grande sfida, perché la pandemia si sta spandendo anche in Iraq e dubito che a marzo saranno tutti vaccinati. È un bel gesto di solidarietà verso il mondo cristiano iracheno che ha sofferto tantissimo e che da trent’anni è sotto continua pressione”.
L’idea che se ne ricava è che la decisione del viaggio sia stata presa in condizioni, se non eccezionali, di rado ricorrenti. Non si ha l’impressione di un pieno ritorno – auspicabile – alla normalità, quanto piuttosto di una leggera forzatura dei tempi e dei modi. Segno che si vogliono stringere le viti e far ripartire la macchina, magari per cogliere l’attimo in cui si sono allentate le maglie della politica mediorientale dopo il cambio di inquilino della Casa Bianca. Un cambiamento di scenario che segue e forse consegue il raggiungimento di una serie di accordi tra Israele e alcuni paesi arabi, ultimo dei quali il Marocco. Un’eredità anche dell’era Trump, sicuramente una base su cui partire per il lavoro dei prossimi anni.
Non a caso il Custode ha ricordato un particolare interessante: buona la conclusione di tutte queste intese, ma resta pur sempre da rinnovare quella che Israele ha firmato in un dicembre di diversi anni fa (era il 1993) proprio con la Santa Sede. “È necessario chiudere”, ha sottolineato, “Come Chiesa viviamo in una sorta di limbo giuridico che va risolto. Anche aprire un conto bancario oggi è una via crucis. Questo perché non abbiamo una identità giuridica chiara. Sono cose che devono essere risolte”.
Quando, 27 anni fa esatti, venivano stabilite le relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele sembrava l’inizio di una nuova fase.
Tutt’oggi, effettivamente, si considera quello uno dei punti più alti del pontificato di Giovanni Paolo II, arrivo di un cammino iniziato con la storica visita alla sinagoga di Roma. Da allora però, nonostante altri passi siano stati compiuti nel 1997, la piena collaborazione è rimasta un obiettivo cui puntate piuttosto che un traguardo raggiunto.
L’impasse nasce da ostacoli di carattere fiscale ma riguarda anche l’amministrazione dei beni della Chiesa a Gerusalemme e dintorni. Sembrano ritocchi, ma quella Santa è Terra dove l’immobiliare conta e non poco ai fini della stessa sopravvivenza. Nel corso dell’ultimo anno, poi, le cronache hanno dovuto registrare casi di occupazione da parte dei coloni israeliani di lotti in Cisgiordania di proprietà ecclesiastica, con conseguente riacutizzarsi delle diffidenze reciproche. Su queste pesa anche il precedente, risalente alla tarda primavera, della sentenza con cui la Corte distrettuale di Gerusalemme ha respinto in maniera definitiva l’istanza presentata dal Patriarcato greco ortodosso che chiedeva di annullare la vendita di tre proprietà immobiliari patriarcali all’organizzazione di coloni ebrei Ateret Cohanim.
La partita se possibile è ancora più grande, se il cardinale Pietro Parolin, ancora nel 2019, si rivolgeva all’ambasciatore israeliano Oren David rimarcando la bontà di quelle intese, ma anche altre due cose. La prima, per l’appunto, quanto sia necessario “addivenire ad un accordo sulle questioni finanziarie, che ci auguriamo possa presto concludersi”. La seconda: “una rinnovata e proficua collaborazione con la Chiesa cattolica in Israele”, affinché “il Paese possa dimostrare con fierezza la viabilità della sua democrazia garantendo a tutti uguali diritti e pari opportunità per la costruzione di un futuro di pace e concordia”.
Passaggio, quest’ultimo, che venne tradotto come un esplicito riferimento legge sullo «Stato della nazione ebraica», madre di quasi tutti i timori delle minoranze non ebraiche del Paese mediorientale.
Inoltre, appena pochi mesi fa, la possibilità che Israele annettesse una serie di insediamenti ebraici in Cisgiordania aveva spinto sempre Parolin ad una chiara presa di posizione. Rivolgendosi all’ambasciatore israeliano come a quello degli Stati Uniti, il porporato aveva manifestato “la preoccupazione della Santa Sede circa possibili azioni unilaterali che potrebbero mettere ulteriormente a rischio la ricerca della pace fra Israeliani e Palestinesi e la delicata situazione in Medio Oriente”.
Di seguito era stata ribadita la linea che da sempre è quella di Oltretevere: Israele e Palestina hanno il diritto di esistere e di vivere in pace e sicurezza, dentro confini riconosciuti internazionalmente.
In una parola: il quadro era confuso quanto basta a bloccare i lavori della commissione bilaterale che dovrebbe portare a compimento gli accordi tra Santa Sede e Israele.
E oggi Pizzaballa ricorda che si vive in “un incubo” e che lui “sono 25 anni che sente dire che si è ad un passo dalla conclusione”, ma la conclusione non arriva mai. Dal momento del suo intervento la situazione politica israeliana è tornata a ingarbugliarsi, e si andrà per la quarta volta in due anni ad elezioni anticipate. Non si sa se lo stallo che ne è all’origine e che ora probabilmente durerà fino almeno alla fine della primavera spingerà a cercare di chiudere almeno questo capitolo.
Ma la Chiesa sa aspettare.
Magari non altri 27 anni.