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30 giugno 2020

Emergenza Covid-19, medici irakeni a rischio collasso. Don Paolo: situazione ‘critica’

By Asia News


Celebrati nel mondo per la loro lotta in prima linea contro il Covid-19, i medici e più in generale tutto il personale sanitario in Iraq deve affrontare, oltre al virus, sfide durissime che mettono ancor più a repentaglio la loro stessa vita. Dal mancato pagamento degli stipendi alla carenza di dispositivi di protezione, fino alle minacce verbali e fisiche - che non di rado si trasformano in attacchi - dei parenti di malati e  vittime, la “prima linea” contro il virus si fa sempre più critica mentre i casi sono in continuo aumento. 
“Stiamo collassando” racconta all’Afp Mohammed, medico in un reparto Covid-19 a Baghdad che chiede l'anonimato nel timore di rappresaglie. “Non ce la faccio più a lavorare. Non riesco nemmeno a concentrarmi sui casi dei miei pazienti” aggiunge al termine di un turno durato 48 ore. “Conosco di persona 16 dottori che si sono infettati nell’ultimo mese”.
In Iraq vi sono 47mila casi ufficiali di coronavirus, ma il numero potrebbe essere di gran lunga maggiore e la situazione critica, soprattutto in zone a rischio come i campi profughi. Il numero delle vittime si aggira attorno alle 2mila, con cento morti solo nell’ultima settimana.
Nella regione autonoma del Kurdistan le infezioni hanno superato quota 5mila, di cui 200 riguardano operatori della sanità; le vittime sono più di 160. Contro le condizioni precarie di lavoro, i dottori hanno annunciato che non cureranno più altre patologie se non quelle legate al Covid-19.
Shevan Kurda
, un dottore 30enne, racconta di turni di lavoro di 10 ore al giorno, ma solo per trattare i pazienti affetti dal coronavirus. Egli deve ricevere ancora tre stipendi del 2019 e i salari di aprile e maggio di quest’anno. 
Dal Kurdistan alla capitale, vi è poi una carenza diffusa di dispositivi di protezione personale. All’Al-Kindi Training Hospital di Baghdad i medici hanno solo cinque maschere N95 al mese; qualcuno fra il personale sanitario investe parte del proprio stipendio - pari a 750 dollari al mese - per comprarne altre.
Wael, 26enne medico di un altro nosocomio della capitale, riferisce di una situazione psicologica durissima: “Prima della pandemia, era possibile recuperare da stress e pressione del lavoro vedendo amici e famiglia. Ora passo dalla stanza di isolamento del lavoro a quella in casa mia” senza poter vedere nessuno.
Interpellato da AsiaNews, don Paolo Thabit Mekko, responsabile della comunità cristiana a Karamles, nella piana di Ninive (nord dell’Iraq), conferma che la situazione è “critica” e i casi “in continuo aumento”, anche se “ieri le guarigioni hanno superato i nuovi contagi”.
 A Baghdad, prosegue don Paolo, “gli ospedali sono in difficoltà perché gli spazi sono pochi” e ora “molti nuovi contagiati non vanno nemmeno nelle strutture ospedaliere” perché corre voce “che restare a casa sia meglio”. Non si vuole correre il pericolo di “essere esposti a un'ulteriore, e ancora maggiore, carica virale”. 
In questa fase di rinnovata emergenza la Chiesa caldea “cerca di aiutare i più bisognosi, pagando le medicine, del cibo. Il patriarcato nelle scorse settimane ha stanziato fondi e risorse alle parrocchie e ai privati, per affrontare questa pandemia”. Sul fronte ospedaliero, aggiunge don Paolo, iniziano a emergere “limiti e bisogno di nuovi aiuti; vi sono voci relative alla mancanza di ossigeno in alcuni ospedali del sud, poi si parla di accordo fra Baghdad e Teheran per l’invio di dottori iraniani ma si tratta di notizie frammentarie e confuse”.
I contagi continuano a crescere anche negli altri Paesi del Medio Oriente e nel Nord Africa, che secondo le ultime stime dell’Organizzazione mondiale della sanità hanno superato il milione. Al 28 giugno, infatti, nell’est e sud del Mediterraneo si contano 1.025.478 casi e 23.461 vittime. Una situazione che preoccupa gli esperti, soprattutto nelle zone teatro ancora oggi di conflitti sanguinosi o violenze interne come Siria, Yemen e Libia.