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25 ottobre 2018

Sulle tracce dei dispersi dell’Is

By L'Osservatore Romano (Il Settimanale)
Laurence Desjoyaux

Dal 2012 mi reco regolarmente in Iraq per realizzare dei reportage sui cristiani e sulle altre minoranze del paese. Ho seguito con sgomento l’invasione del sedicente stato islamico (Is)nel giugno 2014 e la conseguente ondata di rapimenti. Quasi 6500 yazidi sono stati presi nella regione di Sinjar, poi, alcuni giorni dopo, circa 150 cristiani sono stati rapiti nella piana di Ninive, mentre altre decine di migliaia di loro, giustamente allertati dall’esp erienza dei concittadini, sono fuggiti dinanzi all’avanzata dell’Is. Nel corso dei mesi, le prime persone rapite, principalmente donne, sono riuscite a fuggire. Attraverso la loro testimonianza, hanno tracciato un quadro cupo dell’organizzazione jihadista. Nadia Murad, a cui è stato appena conferito il premio Nobel per la pace 2018, ha così raccontato la vendita delle donne nei mercati e la schiavitù sessuale a partire dal 2015. Io stessa ho ascoltato racconti analoghi da una decina di donne intervistate. A dicembre 2017, dopo una vasta offensiva della coalizione internazionale, l’Is è stato ufficialmente dichiara to sconfitto in Iraq. Molto lentamente la vita è ripresa a Mosul e in tutta la piana circostante. Ma per migliaia di famiglie yazide e cristiane è impossibile voltare pagina: aspettano ancora il ritorno dei loro parenti.
Ad Arbil, capitale del Kurdistan iracheno, Khairi Bozani, ministro degli affari religiosi del Kurdistan iracheno e direttore degli affari yazidi, tiene aggiornata un lista precisa di questi “dispersi” dell’Is. Al primo agosto 2018, comprendeva 3102 persone: 1440 donne e ragazze e 1662 uomini e ragazzi. Da parte sua, l’organizzazione irachena Shlomo, che si è posta come obiettivo di registrare e documentare i crimini commessi dall’Is, parla di 58 dispersi cristiani. La liberazione, a partire da ottobre 2016, delle città controllate dal sedicente stato islamico ha suscitato grande speranza nelle famiglie dei dispersi.
In effetti, man mano che le forze irachene avanzavano, sono stati ritrovati alcuni yazidi e una decina di cristiani. È il caso di Cristina, 6 anni, il cui rapimento era stato ampiamente mediatizzato. È stata scoperta al termine della battaglia di Mosul, città in cui era stata “adottata” da una famiglia musulmana. Maryam invece è ricomparsa il 28 agosto 2017. L’ho incontrata a Qaraqosh, a casa di un parente, dove ora vive, e mi ha raccontato i suoi mesi di calvario. Rapita insieme a suo marito in questa città cristiana della piana di Ninive nell’agosto 2014, ha trascorso qualche mese a Mosul prima di essere rivenduta per 1500 dollari a una famiglia di Tel Afar. «Guardavo tutto il giorno fuori dalla finestra e immaginavo che mio marito venisse a cercarmi...», racconta. Quando l’esercito iracheno entra a Tel Afar, tre anni dopo l’inizio della sua prigionia, un jihadista prende Maryam per portarla con sé verso la Siria. «Ma si è perso lungo il cammino e ci siamo ritrovati faccia a faccia con un checkpoint dei peshmerga curdi. Ero libera». Il suo ritorno è però offuscato dall’assenza del marito di cui non sa più nulla. Come lei, le fa miglie dei 58 cristiani ancora dati per dispersi si ritrovano oggi in un vicolo cieco. Non hanno nessuna notizia dei loro parenti. Ritrovarli, se non emergono nuovi elementi, sembra quasi impossibile. Sono come un minuscolo ago nel pagliaio del dopo Is.

Per gli yazidi la situazione è diversa perché il numero dei dispersi è enorme. Più di tremila persone sono ancora trattenute dall’Is. Dove si trovano ora? La sconfitta del sedicente Stato islamico in Iraq, nel 2017, e oggi in Siria,  per logica avrebbe dovuto portare alla liberazione dei prigionieri, ma così non è stato. «Noi applichiamo alla situazione irachena la nostra vi- sione ereditata dalla seconda guerra mondiale» afferma padre Patrick Desbois. «Ma qui le persone rapite non sono raggruppate in campi, sono sparpagliate in centinaia di famiglie». Il sacerdote, fondatore della ong Yahad in Unum, conosce molto bene le due situazioni. Da un lato conduce da anni indagini nei paesi dell’Europa dell’est sulla “Shoah par balles” [per fucilazione], dall’altro, colpito dai genocidi degli yazidi, da tre anni sta raccogliendo le testimonianze di decine di donne, adolescenti e bambini che sono stati rapiti dall’Is e poi liberati. Riassume così la situazione: «È come se, nel 1944, ogni tedesco avesse avuto tre ebrei nel suo giardino». Khairi Bozani concorda: «L’esercito libera una zona, i jihadisti muoiono o fuggono, poi l’esercito riparte, ma di fatto l’Is è sempre lì, per lo meno nella mente della gente. Le tribù di quei villaggi che hanno accolto il sedicente stato islamico e collaborato con l’organizzazione restano in Iraq, con gli yazidi che hanno comprato». Il che è vero soprattutto per i bambini, irrintracciabili dopo diversi anni di prigionia. Le equipe di Khairi Bozani hanno setacciato le città liberate di recente per negoziare il loro riscatto. La tariffa è sempre la stessa: 15.000 dollari per i ragazzi, 25.000 per le ragazze.
La ricerca delle persone scomparse passa anche per la Siria. Lo testimoniano le circa mille donne che sono state ritrovate. È sorprendente constatare che le famiglie dell’Is le hanno portate con loro dall’Iraq in Siria, mentre avrebbero dovuto considerarle un peso durante la fuga. Per padre Desbois è il segno che queste donne, come i bambini indottrinati, fanno par- te del progetto futuro dell’Is: «Le “disperse” sono diventate in qualche modo Is, o almeno così credono i jihadisti, oppure la strategia è di servirsene come arma terroristica, per esempio, per commettere attentati». I parenti dei dispersi stanno dunque conducendo una difficile lotta contro il tempo. Più i giorni passano, più questi prigionieri — sono circa 3000 — perdono la loro identità. I bambini rapiti in tenera età non hanno più la memoria della loro vita precedente. Quanto alle donne, «bisogna accettare di vedere l’islamizzazione forzata e integrata come un lavaggio del cervello», sottolinea padre Desbois, consa pevole di sollevare una questione che molti preferirebbero ignorare. «E poi ci sono i bambini», sospira infine il sacerdote. La questione dei “bambini dell’Is” è ricoperta da una pesante cappa di piombo. Le donne schiave che hanno avuto figli con i loro rapitori non possono portarli con sé quando vengono liberate. Da una parte sanno che quei bambini non saranno accettati nella società yazida, dall’altra, quando la liberazione avviene nel quadro di un arresto in Siria, i bambini vengono tolti loro e messi in una specie di asilo nido accanto alle prigioni dei jihadisti. «Ho visto donne molto forti, che sono riuscite a sopravvivere in situazioni terribili, crollare mentre parlavano di quei figli e mi mostravano le loro foto», racconta il sacerdote. Lui pensa che sia proprio per i loro bambini che alcune di queste donne non vogliono lasciare il proprio carceriere.