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24 ottobre 2018

Sui passi del vescovo martire Rahho

By Roma Sette

Un pellegrinaggio in ricordo dei martiri, un pellegrinaggio da una chiesa antica a una moderna, dal centro alla periferia, come direbbe Papa Francesco. Lunedì 22 ottobre diverse parrocchie di Roma, insieme al Centro missionario diocesano, all’associazione Finestra per il Medio Oriente, alla Comunità missionaria di Villaregia, all’associazione Archè e alla Fondazione Giovanni Paolo II, hanno voluto ricordare l’arcivescovo di Mosul dei Caldei Faraj Rahho, rapito nel marzo di dieci anni fa e ritrovato morto pochi giorni dopo. Dopo la morte del giovane sacerdote Ragheed Ganni, parroco della chiesa dello Spirito Santo, a Mosul, il vescovo aveva deciso di non mandare più sacerdoti in quella chiesa ma di celebrarvi lui stesso la Messa ogni domenica sera. Fu catturato proprio mentre andava a svolgere il suo servizio lì, mentre alcuni laici che con coraggio avevano deciso di accompagnarlo furono barbaramente uccisi.
«Ci siamo radunati nella basilica di Sant’Agnese fuori le Mura a via Nomentana – racconta don Massimiliano, uno degli organizzatori -, che ricorda il sacrificio di una martire di milleottocento anni fa, quando essere cristiani poteva costare la vita anche a Roma. Lì è stata proclamata la Parola e don Maurizio Modugno, parroco di San Valentino al Villaggio Olimpico, ci ha raccontato di avere avuto un nonno iracheno. Funzionario di ambasciata a Beirut, aiutò i profughi americani che fuggivano dalla Turchia all’inizio del Novecento, e per questo rischiò anche lui la condanna a morte».
Dalla basilica di Sant’Agnese si è sviluppata una processione di oltre ottanta persone, che ha percorso via Nomentana: anziani, adulti, bambini del catechismo. Recitando il Rosario a gruppetti. «Il corteo – riferisce ancora don Massimilianosi è fermato in uno slargo a via Chisimaio, in ricordo di quella Chisimaio, in Somlia, dove è vissuto un altro martire dei nostri tempi, sconosciuto come monsignor Rahho. Il suo nome è Pietro Turati, classe 1919, frate dal 1940, con un grande desiderio di andare in missione». Un sogno coronato nel 1948, quando ottiene di essere inviato a Mogadiscio. Comincia così a lavorare per i poveri, in varie città, fin quando scoppia la guerra civile, nel 1991, e tutti i religiosi abbandonano il territorio somalo, non più sicuro per nessuno. «Tutti, ma lui no, e infatti verrà ucciso da ignoti, dopo una vita spesa per il prossimo. Chi, nella sua Italia, si ricorda di lui e del suo sacrificio?». In quello slargo ventoso, prosegue il racconto del sacerdote, «ci viene detto, a commento della lettera di Pietro, che al martirio siamo chiamati tutti: al martirio quotidiano. Alla pazienza, che nel testo greco è chiamata “upomene”, cioè capacità di restar sotto, sotto botta, sotto pressione, nel matrimonio, coi figli, al lavoro, nel traffico: di accettarlo per amore».
La tappa successiva di questo singolare pellegrinaggio della memoria è Santa Maria Goretti, al quartiere africano, dove negli anni Settanta è vissuto il vescovo Rahho da giovane studente. «Lì abbiamo pregato con i vespri dell’ufficio dei martiri, officiati dal parroco don Santiago, e abbiamo proiettato un power point che raccontava di lui, di Ragheed Ganni, di una minoranza cristiana oppressa e terrorizzata. Lorenzo Rengo, catechista parrocchiale, ci ha raccontato di un monsignor Rahho giovane sacerdote, all’inizio un po’ impacciato con l’italiano ma sempre simpatico e disponibile. Era un futuro martire – conclude don Massimiliano -, ma loro non lo sapevano».