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12 dicembre 2016

Rimanere è difficile ma possibile

By Città Nuova
Michele Zanzucchi

Intervista con mons. Bashar M. Warda, arcivescovo caldeo di Erbil, un uomo deciso. Di fronte alle emergenze sa sostenere la sua comunità, sa dare linee di azione, sa incoraggiare. Insegna e ascolta, pensa e decide. Mi riceve nella sala di ricevimento dell’episcopio di Erbil, nel sobborgo cristiano di Ankawa.

Come ha passato la sua giornata?
Ho cominciato con la Bibbia, poi due ore di insegnamento nel collegio di filosofia e teologia, poi come faccio tre volte alla settimana ho ricevuto la gente, che cerca lavoro, che ha problemi familiari, che ha discussioni di soldi, qualcuno vuole anche confessarsi. Ho pranzato con i preti. Poi due ore di lettura, sto preparando una lettera pastorale sul Natale a partire dal Vangelo di Matteo. Poi ancora ho ricevuto gente. E cenerò con le suore. È la vita intensa di un vescovo in una terra non proprio semplice.
Le sta a cuore la dignità dei rifugiati cristiani qui ad Erbil. Cosa fate?
L’impegno per la dignità di tutti i nostri fedeli è prioritario. C’erano 25 campi profughi dopo la grande fuga da Qaraqosh e Mosul dell’agosto 2014. Oggi ne è rimasto solo uno, quello di Ashti. Abbiamo realizzato una grande operazione di ricerca di appartamenti e case in affitto, spesso obbligandoci a mettere due o tre famiglie negli stessi locali. Ma ora sembra che questa situazione stia migliorando. Una casa è meglio di un container. Aiutiamo i nostri fedeli in due modi: o pagando loro l’affitto, o dando un generico contributo per la loro vita. I soldi li raccogliamo da tante Ong cattoliche o cristiane, ma soprattutto con la comunione dei nostri fedeli.
Da poche settimane la città di Qaraqosh, una delle più cristiane dell’Iraq, è stata liberata dal Daesh. Quali prospettive?
Certamente la comunità cristiana ha accolto con sollievo la notizia della liberazione di Qaraqosh. Ma è stata scoccata nel costatare subito i danni arrecati alle loro case. Non so quante famiglie di Qaraqosh (almeno tremila) siano ora disponibili a tornare sul posto. Le condizioni psicologiche, economiche e di sicurezza non permettono ancora un ripopolamento della città. Ancora per un po’ tutti preferiamo vivere qui ad Ankawa. Il governo certamente cercherà di favorire il ritorno degli abitanti nelle loro case, anche per poter rimettere in moto la macchina dell’economia, ma la gente è veramente impaurita per tornare. Serviranno garanzie certe per l’incolumità della gente, servirà un cambiamento politico atto a rassicurare, forse anche internazionale.
Cambiamenti politici?
Sì. C’è certamente l’incognita Trump, che certamente peserà sul panorama mediorientale. Il Daesh verrà sconfitto prima o poi, ma il grave è l’ideologia di esclusione e violenza che si è diffusa tra un certo numero di musulmani iracheni. La democrazia non funziona appieno, perché qui in Iraq funziona ancora il sistema tribale. Bisognerà agire sull’educazione e sulla cultura per cambiare le mentalità e permettere una vera convivenza pacifica e quindi la sicurezza per i cristiani e per le altre minoranze. Il progetto già avviato di una università cattolica può portare frutti che si vedranno magari tra un secolo, ma vale la pena di dare la propria vita per questo tipo di progetti che porta a una migliore educazione, perché l'educazione è senza dubbio la via per la pace.
Ecumenismo attivo, qui in Kurdistan?
La collaborazione è buona con le altre Chiese cristiane, nonostante talvolta vi siano vedute tradizionali un po’ diverse. Con i musulmani abbiamo rapporti diretti costanti, ci si fa visita ad esempio per le condoglianze, si arriva anche a discutere di educazione, perché sappiamo tutti che per cambiare le mentalità serve la cultura. Di tutto ciò parliamo molto amichevolmente.
È di attualità la questione dell’indipendenza curda?
Secondo la dottrina sociale della Chiesa ogni popolo deve essere padrone della propria terra e del proprio governo. Ma dipende anche dalle condizioni politiche e sociali. I curdi sono circa 25 milioni, ma vivono in quattro Paesi in condizioni molto diverse. Qui in Iraq sono forse i più favoriti, ma la vita da queste parti dipende dall’amicizia con Baghdad, mai dimenticarlo: l’eventuale indipendenza o maggiore autonomia verrà vista assieme agli iracheni di Baghdad.
Come viene vissuto il Vangelo nella Chiesa caldea, oggi, in Kurdistan?
Le persone fedeli al Vangelo oggi si prendono cura degli altri, prega, usa i propri talenti per trovare soluzione ai tanti problemi della guerra, si occupa degli yazidi… E magari ricorda a certi musulmani che contro di essi è stato commesso un tentativo di genocidio. Oggi si evangelizza soprattutto con l’esempio più che con le parole. È difficile cambiare il pensiero altrui con tanti discorsi, non si può convincere un musulmano dell’esistenza di un Dio Trinità, ma si può vivere, per così dire, “trinitariamente”. Ho invitato un musulmano a insegnare nella nostra università cattolica, anche questa è una testimonianza. L’amicizia coi musulmani apre tante strade, e soprattutto diffonde uno spirito di amicizia.
Speranze per un reale cambiamento di clima politico e sociale non sembra che ve ne siano molte…
C’è una speranza di pace, e c’è soprattutto la speranza di educare alla pace. Anche i musulmani più illuminati oggi si rendono conto che senza pace non si può vivere. Si tratta quindi di mettere in atto una operazione di tutte le forze politiche, sociali e religiose dell’Iraq per cercare la vera pace, quella possibile, non quella ideale.
È tempo di riconciliazione, oppure bisognerà aspettare?
È sempre il tempo buono della riconciliazione, del perdono e della pace. La soluzione dell’attuale conflittualità è più religiosa che politica. Per far ciò noi cristiani dobbiamo portare il Cristo, dobbiamo proclamarlo con la nostra vita, e gli altri potranno così vederlo. Siamo sempre meno, noi cristiani, ma possiamo sempre e comunque testimoniare Gesù.
È tempo anche di emigrazione per tanti cristiani…
Quando viene da me una famiglia che vuole emigrare all’estero, gli chiedo sempre se ha fatto bene i suoi calcoli, se ha i mezzi e le risorse psichiche di stare un paio d’anni in Giordania o in Libano per attendere il visto per espatriare in Canada o in Australia, o in Francia. E se poi hanno fatto bene i calcoli per poter vivere laggiù economicamente e cristianamente. Non è una buona decisione quella di emigrare, ma la libertà non può mancare nel prendere queste decisioni, troppa gente è traumatizzata da quanto ha vissuto. Cerco comunque di incoraggiare tutti a rimanere, anche perché poi è difficilissimo tornare indietro. Per chi parte non ho soldi da offrire, ma per chi rimane li trovo sempre. Nella catechesi per il Natale dirò proprio queste cose, cioè perché è bene restare in queste terre.
Rimanere anche se cresce la mentalità integralista?
Sì, rimanere e testimoniare Gesù. Cresce la mentalità fondamentalista, cresce la corruzione, cresce il disagio sociale, non c’è lavoro… Tutto vero. Ma dobbiamo lavorare riportando l’attenzione di politici, uomini di religione, della gente comune sulla persona umana. Ad esempio mettendosi dalla parte delle vittime e dei poveri, sempre.