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23 settembre 2016

La guerra giusta

By Il Foglio
Matteo Matzuzzi

All’inizio di settembre, un gruppo di combattenti cristiani ha riconquistato il villaggio di Badanah, uno dei principali centri assiri occupati dagli squadroni califfali due estati fa, poco dopo la presa di Mosul. Il trionfo è stato documentato da video e foto postati su Facebook e a commentare la vittoria è stato Bahnam Abush, il comandante delle Unità di protezione della piana di Ninive, la meglio equipaggiata (e finanziata) della miriade di milizie cristiane che sul terreno contrastano gli avamposti dello Stato islamico, tentando la reconquista delle terre loro sottratte. La novità che Abush vuole sottolineare è che per la prima volta l’operazione dei suoi uomini è stata appoggiata dalle forze della coalizione, e cioè dagli Stati Uniti. Oggi, ha aggiunto, “aumenta la speranza che i cristiani rimarranno nella terra dei loro avi”.  
Alle Unità di protezione della piana di Ninive arrivano soldi dall’estero, le comunità assire in America, Australia ed Europa da tempo sostengono le milizie, con raccolte fondi e donazioni ragguardevoli. L’addestramento è continuo, giovani e meno giovani ogni mese raggiungono i campi dove si approntano le strategie da mettere in pratica sul terreno.
All’inizio, poco dopo l’arrivo dell’armata di Abu Bakr al Baghdadi, i volontari non avevano nulla: i più fortunati potevano contare su vecchie divise dell’esercito iracheno, fucili pochi e scadenti, nessuna idea su come fare la guerra, pur avendone viste tante. Oggi, secondo stime ufficiose, sono mille gli uomini sotto addestramento, forse duemila. Tante benedizioni dall’estero, poche in patria, soprattutto dalle alte gerarchie episcopali irachene. Un paradosso? Non secondo il Patriarca caldeo di Baghdad, Raphaël I Sako, che di milizie cristiane non vuole neanche sentire parlare. “Pensare che il nostro trionfo possa dipendere dalla creazione di fazioni armate isolate per combattere a difesa dei nostri diritti potrebbe condurre a un altro olocausto”, diceva all’inizio dell’anno, confermando invece pieno sostegno all’esercito regolare. E così la pensano anche tanti altri uomini ai vertici delle numerose chiese locali. Il timore non è solo quello delle rappresaglie in guerra, bensì delle cicatrici che una battaglia condotta da eserciti cristiani contro gruppi sunniti potrà lasciare nell’Iraq del domani.
Tutto vuole, la chiesa, meno che i liberatori di Ninive siano considerati dei crociati. Motivazioni che Abush rispedisce al mittente, spiega che l’unico nemico (comune) è lo Stato islamico e che l’appello a congiungersi sotto le insegne dell’esercito iracheno è inutile, visto che quell’esercito è perennemente sull’orlo del collasso. “Noi ci siamo uniti per combattere il terrorismo e Daesh e per liberare la nostra terra, proteggere la nostra dignità e il nostro onore”, ha detto Michael Rai Staef, reclutatore di Qaraqosh, altro centro occupato dai jihadisti. Unite, però, le milizie non lo sono, i gruppi maggiori (due su tutti) si contendono la supremazia, vantando chi l’appoggio occidentale, chi quello dei peshmerga curdi. Non tutti, però, nel clero si schierano contro le milizie, visto che nel febbraio di un anno fa, l’arcivescovo Youhanna Boutros Moshe, della chiesa siro-cattolica di Mosul, visitò uno dei campi di addestramento delle Unità di protezione della piana di Ninive, salutando e benedicendo i volontari, incoraggiandoli “ad andare avanti” e ricordando – a mero scopo motivazionale – che quella terra era loro “prima ancora di Cristo”.
Un distacco tra le milizie e le gerarchie però c’è, al punto da essere sorto un conflitto verbale tra lo stesso Sako e la Confederazione assira d’Europa, che al presule ha ricordato che non gli Stati Uniti bensì il legittimo governo iracheno sostiene le milizie della piana di Ninive: “Una partecipazione a guida assira è essenziale se si vuole che gli assiri tornino a Ninive, cosa che anche il patriarca dovrebbe augurarsi”. Sako non cambia idea, vede dietro le armi che riforniscono i combattenti il solito occidente, percepito come la causa primaria d’ogni sciagura mesopotamica. Sottigliezze e ragionamenti geopolitici non hanno respiro corto: le chiese cristiane – e anche la Santa Sede – alzano il muro e sfoderano le cifre, incontestabili: nel 2003, prima della caduta di Saddam Hussein, i cristiani erano un milione e mezzo. Oggi sono stimati tra i trecento e i quattrocentomila. Che poi il vecchio rais non fosse un paladino della democrazia e che le minoranze anziché tutelarle spesso le ricoprisse di gas letali, è un altro discorso. I cristiani si sono trovati in mezzo alle lotte intestine e furibonde tra sciiti e sunniti, comunità a loro volta divise da faide interne irrisolvibili.
Ecco perché non resta che un’opzione, l’esodo. Le chiese lo sanno e lo denunciano, vuoi con la vis araba dei patriarchi che gridano contro l’Europa che ammalia come una sirena i siriani e gli iracheni, convincendoli a rischiare la vita per trovare l’Eldorado sulle coste greche o siciliane, vuoi con la prudenza della diplomazia vaticana, presente nella regione con la capillare rete dei nunzi. Tutti, però, concordano su un punto: presto ci sarà la svolta, la grande battaglia per la riconquista di Mosul, il luogo simbolo predato dai jihadisti il 7 agosto del 2014, con le chiese profanate, le statue dei santi e della Madonna fatte a pezzi, gli altari ricoperti dalle nere bandiere dell’armata califfale, le campane gettate a terra. I monasteri rasi al suolo, le tombe prese a colpi di piccone. 
Agli abitanti, cristiani, dopo aver contrassegnato con la “n” di nazareno le loro abitazioni, furono date tre possibilità: convertirsi all’islam, pagare la jizya (cioè la tassa per i non musulmani), andarsene. Pena la morte. Il risultato è che tutti hanno lasciato la regione, tranne i vecchi e i malati o chi s’è rassegnato alla sciagura, quasi fosse un’incomprensibile punizione divina. Un esodo di circa centoventimila persone che “hanno scelto di mantenere la fede”, dicono dalle nunziature del vicino e medio oriente in contatto con il Vaticano, dove il dossier siro-iracheno è maneggiato con cura e grande delicatezza. Ma il quadro è chiaro e lo testimoniano le parole gravi che il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato, ha pronunciato qualche giorno fa al Palazzo di vetro dell’Onu, intervenendo al summit per i rifugiati e i migranti, dove ha parlato di “persecuzione religiosa” che vede nei cristiani “di gran lunga il gruppo più perseguitato”. Al punto da leggere in diversi rapporti – citati dal porporato – che è in atto una “pulizia etnico-religiosa che Papa Francesco definisce una forma di genocidio”.
La battaglia di Mosul, più volte annunciata e rimandata, è lo spartiacque, almeno così recitano i bollettini diplomatici. Spazzare via gli squadroni di al Baghdadi dalla città significherebbe infliggere un colpo duro – se non letale – alla speranza di radicare un Califfato in terra irachena. Certo, rimarrebbe Raqqa, magari Aleppo. Ma l’Iraq sarebbe forse liberato, anche se non stabile. Battaglia, quella della piana di Ninive, che s’ha da fare. Le chiese lo dicono pubblicamente (anche quella cattolica), l’attacco è necessario e mai come in questo caso non vi sono remore. C’è chi invoca gli stivali sul terreno stranieri (magari contingenti arabi), c’è chi vuole affidarsi agli iracheni, chi guarda con ottimismo all’organizzazione dei curdi. Sull’obiettivo, tutti concordi. Anche con la consapevolezza che appena scatterà l’attacco si concretizzerà quel dramma umanitario annunciato, con centinaia di migliaia di sfollati e profughi (c’è chi parla di un milione), che premerebbero a ridosso del Kurdistan iracheno che già dà asilo a chi dalla piana di Ninive ha trovato lì riparo e salvezza. L’esodo è certo, i cristiani sono preparati alla nuova peregrinazione, consapevoli che questa è l’unica via per continuare a vivere nelle terre dei padri.
L’uso delle armi è contemplato, dopotutto l’operazione rientrerebbe nella cornice teorizzata dal Papa, e cioè la necessità di fermare l’aggressore ingiusto. E’ la “responsabilità di proteggere”, che lo stesso Parolin, nei suoi  interventi all’Onu più volte ha sottolineato, rimarcando il diritto di chi ha perso la casa di poter fare ritorno nella propria terra. Anche perché il timore maggiore è quello dello sradicamento delle comunità cristiane dal vicino e medio oriente, elemento che da sempre rappresenta il perno della stabilità politica e sociale. Si pensi alla Giordania, dove il re Abdallah teme – assieme ai possibili sconfinamenti dei jihadisti in rotta – il depopolamento cristiano. Molti se ne sono già andati, e il problema è che tra i primi a lasciare la Siria e l’Iraq si contano le “generazioni migliori e più preparate”, dicono i nunzi, e cioè coloro che avrebbero dovuto pensare alla ricostruzione quando il flagello sarà passato. Una presenza, quella cristiana, considerata fondamentale.
Chi non se n’è ancora andato dall’Iraq, resiste, aspetta, prega. “Niente espellerà la cristianità dal medio oriente, nonostante le difficoltà, fino a quando ci saranno cristiani decisi a rimanere nella propria terra d’origine, fieri della propria identità e della propria missione in questa parte del mondo”, assicura il Patriarca caldeo di Baghdad. Ed è proprio questo senso della missione che risalta, tra le tende degli immensi campi dove chi è fuggito dalla piana di Ninive ha trovato riparo. La tentazione di maledire Dio per aver perso tutto non c’è, anzi: ogni tenda adibita a cappella ha il suo tabernacolo, le messe sono affollate, “al rosario del martedì partecipano centinaia di persone, i giovani non si riescono neppure a contare”, diceva un vescovo latino, quasi incredulo dallo spessore e dalla forza di tale testimonianza. Lo si vede in Iraq, lo s’è visto ad Aleppo, dove il giorno dopo l’attentato alla cattedrale latina, con un razzo spedito sulla cupola durante la santa eucaristia, tra i banchi c’era più gente che ventiquattr’ore prima. Riprendere Mosul, a ogni costo, è l’ultima speranza, quella su cui fanno affidamento tutti per infliggere il colpo di grazia al “cancro”. S’attende il momento giusto, “entro la fine dell’anno”, dice con sicurezza chi ne sa.