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5 aprile 2016

«Quando torniamo a casa? Aspettare ancora un’ora è troppo»

By Tempi
Rodolfo Casadei

 È un po’ cinico farlo notare, ma è la pura verità: anche in Iraq come in tanti paesi del mondo ci sono campi profughi di serie A e di serie B; e degli insediamenti all’interno della diocesi di Erbil dove gli sfollati tutti o quasi sono cristiani (ben 57 contando quelli piccoli e quelli grandi, i principali sono 8), si potrebbe fare una graduatoria da una a cinque stelle come per gli hotel.
Ashti Uno, periferia nord-est di Ankawa, supera a malapena la stella. Non sarà un caso se fra l’ottobre del 2014 e oggi le famiglie ospitate sono scese da 300 a 250: chi poteva ha trovato di meglio. Spaccato in due sezioni da una strada di quartiere che lo attraversa, il campo ospita schiere di prefabbricati monolocale allineati a formare lunghi corridoi ingombri di beni e cose della vita quotidiana. Tre metri per cinque per ospitare famiglie che spesso sono composte di sei-sette persone. Metà di essi sono collocati all’interno di due capannoni industriali, al riparo dalle intemperie ma anche lontano dal sole e dalla sua luce; l’altra metà sta all’aperto, le troppo piccole finestre lasciano entrare un po’ di aria e un po’ di luce, ma per proteggere dalla pioggia e dal sole chi percorre i vialetti creati dalle file di caravan (così qui chiamano questa specie di container) i residenti li hanno trasformati in gallerie collocando lastre di ondulato di traverso alle pareti superiori dei monolocali che stanno uno dirimpetto all’altro. A parte le dimensioni minuscole, il difetto più grave di quelli all’aperto è che sono stati collocati direttamente sul terreno, che regala umidità e muffa ai pavimenti. «Dopo che avrà partorito, mia figlia verrà a stare qui da me col bambino per un po’», commenta preoccupata una signora. «Ho tanta paura che mio nipote si ammali». Dentro ai capannoni i pavimenti non hanno il problema dell’umidità, ma della polverosità: la superficie è una graniglia che perde sabbia ad ogni tentativo di lavaggio. Gli uni e gli altri sono infestati dai ratti, che rodono i contenitori di plastica che contengono generi alimentari.
Nato nell’ottobre 2014, dopo un anno mezzo il campo dispone solo di due strutture sociali: la chiesa (dotata anche di un simbolico campanile in legno traforato provvisto di campana) e un asilo infantile di una trentina di metri quadrati inaugurato ufficialmente il martedì dopo Pasqua (grazie al sostegno dell’italiana Focsiv). Lo Sport Center, dove ho trascorso la notte di Natale del 2014, ospite di Talal e della sua famiglia, cristiani cacciati da Mosul nel giugno di quell’anno, è un filo meglio: tutti i prefabbricati sono staccati dal suolo e i residenti hanno provveduto ad allargare le proprie competenze costruendo con materiali vari piccole verande adiacenti al monolocale che attrezzano a uso cucina. Questo ha reso più stretti i viottoli di accesso ai prefabbricati, ma di questo nessuno si lamenta.
E quante stelle dare al villaggio Ozal, a Kasnazan? Sono case in muratura quelle dove sono alloggiate 850 famiglie cristiane profughe da Qaraqosh, Mosul e Bartellah. Il bagno e la doccia sono fra le pareti domestiche, e non in comune lontano decine di metri dalla propria abitazione, come accade in tutti i campi di prefabbricati. Ma ci si vive in condizioni davvero poco invidiabili. I villini sono tutti uguali, quattro locali ripartiti su due piani: sotto un ampio soggiorno, sopra tre stanze più piccole. Dentro devono starci due-quattro famiglie, mai meno di 12-15 persone. «Ci sono due bagni sui due piani, ma una doccia sola che usiamo a turno», spiega Anna, profuga da Mosul. «La Chiesa ci paga l’affitto, che è di 500 dollari al mese, e un quantitativo di elettricità che è pari a tre ore al giorno. Se ne vogliamo di più, ce la dobbiamo pagare noi. L’acqua è disponibile un giorno sì e un giorno no. Ma in un certo senso ce l’abbiamo sempre: quando piove, come in questi giorni, ci sono infiltrazioni dappertutto e sui soffitti si formano macchie di muffa».
L’unico campo profughi a cinque stelle di nostra conoscenza è quello sorto dentro al compound della parrocchia di sant’Elia ad Ankawa. I corridoi fra i caravan sono molto stretti, ma in compenso ognuno di essi è dotato di finestre più grandi della media ed è sollevato da terra grazie a supporti di cemento e di ferro. Ma soprattutto l’insediamento è dotato di strutture invidiabili: due scuole materne coloratissime e fornitissime di ausili educativi, una biblioteca più comoda di quelle di quartiere a Milano, con divani in pelle e lampade a stelo, un laboratorio alimentare con forni e frigoriferi che vende ai clienti esterni, uno di sartoria dotato di una dozzina di macchine per cucire, un salone per parrucchiere; e ancora un’aula per i computer, una sala per le proiezioni cinematografiche e una hall per il ballo. Sul campo di pallavolo del cortile parrocchiale si alternano squadre femminili e squadre maschili –negli altri insediamenti non ci sono strutture sportive.
Tutto merito del parroco, padre Douglas Bazi, uomo veloce non solo con la lingua ma anche nella realizzazione di progetti, grazie alla sua capacità di relazioni pubbliche planetarie. E modesto. Anziché vantarsi delle proprie eccellenze, di cui beneficia il centinaio di famiglie accampate nella sua parrocchia, fa il punto sulla sfida enorme di fronte a cui si è trovata la Chiesa di Erbil, e come vi abbia fatto fronte: «Non dimenticate mai che questa è una diocesi che in una notte è passata da 25 mila a più di 100 mila cristiani. E che ha deciso di fare come Gesù con le folle: guarire e insegnare. Abbiamo trovato alloggio, cibo e medicine per tutti, in collaborazione coi donatori; abbiamo aperto quattro scuole e due università, e nessun bambino e nessun ragazzo ha perso l’anno scolastico».
La diocesi di Erbil è caldea, ma la maggioranza degli sfollati è siriaca (cattolica e ortodossa) e in città c’era solo una parrocchia (cattolica) di tale rito. Allora i siriaci si sono specializzati nell’edificazione di chiese prefabbricate negli insediamenti: se ne contano cinque fra Ozal, Ashti 1, Ashti 2 e il piccolo santuario di Mar Shmoni. Alcune sono sorte come tende, poi sostituite da costruzioni prevalentemente in legno. È il caso di Ashti 1: «La nostra chiesa era costituita da due grandi tende legate e cucite insieme», spiega padre Jalal, rogazionista, responsabile ecclesiale del campo. «Ad agosto un temporale le ha strappate e sradicate. Con l’aiuto di Fraternité Irak (francesi) e della diocesi di Padova abbiamo costruito questa chiesa, che abbiamo chiamato Tenda della Trasfigurazione».
Il grande esodo dei cristiani dalla Piana di Ninive è avvenuto nella notte fra il 6 e il 7 agosto, poche ore dopo la celebrazione della festa della Trasfigurazione. Sulla parete dietro all’altare ci sono quattro immagini. Tre riproducono il volto della Vergine Maria, una quello di Gesù. «Questa chiesa è l’unico ambiente comunitario di questo campo profughi», spiega padre Jalal. «È qui che si fanno le feste, le assemblee, le distribuzioni di generi alimentari se fuori piove. Ma soprattutto qui si viene a pregare, a offrire le proprie sofferenze a Dio. Dopo venti mesi di questa vita precaria, questa gente è molto provata, i conflitti scoppiano per un nonnulla. Il sentimento di incertezza del futuro dura da troppo tempo, genera depressione e tristezza cronica. Adesso poi anche la speranza di emigrare in Europa si è affievolita: cominciano ad arrivare al campo persone respinte dalla Turchia o che hanno aspettato inutilmente di passare in Grecia».
Il numero preciso dei profughi cristiani che sono emigrati e quello di quanti sono rimasti nessuno li può dire con certezza. Le contabilità variano a seconda degli interlocutori. «Prima della crisi eravamo 52 mila qui nel nord dell’Iraq, adesso siamo solo 25 mila», dice Yohanna Petros Moshe, l’arcivescovo siriaco cattolico di Mosul. «Alcuni si sono trasferiti a Kirkuk e a Sulaymaniyya, ma la maggioranza è emigrata all’estero. Ci sono 1.200 famiglie in Giordania, 1.500 in Libano, 700 in Turchia, 600 in Francia. Molti di loro vogliono tornare qui, ma solo se saranno liberati i loro territori occupati dall’Isis». «Quel che so io è che dall’inizio della crisi fino al Natale scorso da qui sono partite 5 mila famiglie», dice padre Douglas Bazi.
Subito dopo il cancello che separa la chiesa prefabbricata dal resto di Ashti 1 (lato est), sulla destra si incontra uno dei più fantasiosi alloggi del campo. Sfruttando alcuni muretti preesistenti e componendo materiali vari (dal pannello di formica al telone dell’Unhcr, dall’ondulato di lamiera a quello trasparente in vetroresina), quattro giovani famiglie di Qaraqosh hanno creato una specie di appartamento con tanto di atrio e quattro piccoli locali all’interno. Ci vivono 13 persone, fra poco 14 perché una mamma è incinta al sesto mese. La stanza che fa da salotto è quasi comoda. Nell’atrio e nel locale cucina sono ammassate attrezzature e alimenti da difendere in una quotidiana lotta contro i topi. Problema: nessuno dei locali dispone di finestra. Si respira sempre la stessa aria, più quella che filtra dalle fessure qua e là. Dopo qualche minuto si ha la sensazione di vivere in una caverna come gli uomini preistorici. Una sola delle persone residenti ha più di cinquant’anni: è la mamma di una delle giovani spose. Si rivolge a padre Jalal e gli fa la domanda che gli ripete da un anno tutte le volte che lo incontra: «Quando torniamo a Qaraqosh? Aspettare ancora un’ora è troppo.»