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6 aprile 2016

Mons. Cavina: situazione drammatica dei cristiani iracheni a Erbil

 
Sono 120mila i cristiani iracheni fuggiti da Mosul e dalla Piana di Ninive che si trovano a Erbil, in Kurdistan. La sezione italiana della Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre ha organizzato una spedizione sul luogo per assistere queste persone guidata dal presidente Alessandro Monteduro. Tra coloro che hanno preso parte al viaggio, anche il vescovo di Carpi, mons. Francesco Cavina, che ha raccontato a Maria Laura Serpico in quali condizioni vivono i cristiani iracheni che hanno trovato rifugio a Erbil:
  
 Mi sembra che la risposta più vera sia una situazione drammatica, anche se questa parola può indicare tutto e nulla. In realtà, però, i cristiani che sono fuggiti da Mosul e dalla Piana di Ninive vivono in una situazione di grandissima precarietà, chiusi in campi profughi, dove si trovano ad affrontare condizioni di vita che sono quasi al limite della sopravvivenza. Cito un caso di uno dei campi che abbiamo visitato – ne abbiamo visitati 7 – dove l’acqua c’è, quando c’è; la luce c’è, quando c’è… Quindi famiglie di sei, sette persone che si trovano a vivere in container di dodici metri quadrati: lì mangiano, vivono, dormono nella promiscuità più assoluta con bambini e anziani. E’ terribile vedere gli occhi di questi bambini, velati di una tristezza che veramente ferisce il cuore.
Quindi sono costretti ad abbandonare l’Iraq…
Tendenzialmente nei cristiani non c’è la volontà di lasciare l’Iraq. Loro, sia i profughi che i cristiani di Erbil che non hanno subito l’occupazione dell’Is,  vogliono rimanere in Iraq. Questo ce lo hanno ripetuto in tantissimi modi. Per rimanere in Iraq, però, hanno bisogno assolutamente di percepire che la comunità cristiana occidentale sia loro vicina. E questo è quanto ci ha ricordato ad esempio il Patriarca di Baghdad, che nei giorni in cui eravamo ad Erbil era presente e diceva: “Noi abbiamo bisogno di percepire che la Chiesa ci è vicina, la Chiesa universale”. Perché? Perché i musulmani ricevono tanti aiuti dall’esterno e hanno la percezione che i cristiani siano abbandonati a loro stessi. Il fatto, quindi, che ci siano vescovi, che ci siano delegazioni che dal mondo occidentale vengono a visitarci, mostra ai musulmani che noi non siamo soli, non siamo abbandonati e che dietro di noi c’è la Chiesa.
Perché i cristiani iracheni sono disposti a perdere tutto pur di non rinunciare alla loro appartenenza a Cristo?Questa è veramente la cosa straordinaria che questi cristiani ci insegnano: a non avere paura, cioè, di professare apertamente la nostra fede. Loro riconoscono, e ce lo hanno ripetuto in diverse occasioni, che il Signore è la ricchezza più grande della vita. Si può perdere tutto, ma non si può perdere il Signore, perché se si perde il Signore si perde la speranza.
Cosa vi ha raccontato l' arcivescovo caldeo di Erbil, mons. Bashar Matti Warda?
Intanto, ci ha ricordato che i cristiani in Iraq vivono una serie di difficoltà che nascono dalla persecuzione, che nascono dalla crisi economica, e dice anche che proprio perché i cristiani, nonostante questa difficoltà, vogliono rimanere in Iraq, il loro modo di essere in Iraq deve necessariamente cambiare, cioè deve assumere la caratteristica della missionarietà. Per “missionarietà” intendeva dire che i cristiani in Iraq devono sentire di appartenere alla società irachena, devono porsi all’interno della società come cittadini a pieno titolo, prendere atto di una responsabilità che i cristiani hanno, anche dal punto di vista politico, sociale e civile.