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21 marzo 2016

Speranza in Iraq: quattro diaconi ordinati tra i profughi di Erbil


Un volto diverso dell’Iraq, non quello che si svuota dei cristiani ma che si rafforza nella fede. E’ quanto rappresentano quattro giovani seminaristi siro-cattolici, che nella Solennità di San Giuseppe vengono ordinati diaconi nella cappella del campo profughi di Ankawa a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. Anche loro profughi, ma testimoni di speranza. A seguirli nella preparazione, don George Jàhola della diocesi siro-cattolica di Mosul.
 Al microfono di Gabriella Ceraso, il sacerdote spiega le radici di queste quattro nuove vocazioni:
La situazione difficile che vivono, anche il confronto con l’aggressore, il male, forse spinge di più per questa via, soprattutto se tutti quanti sono stati educati e preparati allo zelo per la Chiesa. Vorrei sottolineare anche che tutti quanti sono stati nel campo, tra i profughi, proprio per dare aiuto. Quindi hanno già una idea di come lavorare con la gente.
Loro sono della diocesi siro-cattolica di Mosul, tutta profuga, vero?

Sì, sono tutti profughi della città di Karakosh, sono usciti da quel contesto per aiutare la diocesi ma anche per incoraggiare la gente.

La loro ordinazione avviene nella cappella del campo profughi di Erbil, un luogo emblematico di sofferenza...

Sì, certamente perché  è un campo che accoglie più di mille famiglie e passeggiando tra le “vie” di questo quartiere vediamo la sofferenza, non soltanto nella realtà, ma nelle facce della gente. Ma loro hanno scelto questa chiesetta invece di scegliere una bella chiesa costruita, per dimostrare che vogliono stare tra la gente, per il servizio, e di questo sono convinti.

E come risponde la comunità a questa loro scelta?

Nella nostra diocesi le vocazioni non sono mai mancate. Oggi ci sono questi ragazzi ma ce ne saranno altri, quindi la gente aspetta, nella preghiera, questi ragazzi ma anche altri.

È una testimonianza di un Iraq diverso quella che lei ci dà, di un Iraq che si rafforza nella fede

L’Iraq è vero che si sta svuotando dalla presenza dei cristiani, ma quelli che rimangono sono legati fortemente alla terra ma anche alla fede, perché dobbiamo portare qui la nostra testimonianza, in questa terra. Gesù ci ha chiamati qui e quindi quei pochi che rimarranno saranno come lievito per altre vocazioni nei prossimi anni.
Lei ha detto che questi futuri sacerdoti sono loro stessi profughi. Mi viene in mente quello che il Papa dice sempre dei sacerdoti, che devono stare nel loro gregge e sentire l’odore delle loro pecore …

Sicuramente questi giovani e altri preti, suore, sono stati affianco alla gente, vivevano tra di loro, nelle tende, vicini a chi soffre. Quindi è veramente un esempio da imitare. La Chiesa non ha fatto mancare nulla in quanto al sostegno, ma abbiamo bisogno anche di supporto internazionale, politico, per dare testimonianza in questa terra; una testimonianza che funziona anche tra la gente non cristiana; ammirano il nostro modo di fare, di amare, ma anche di valorizzare l’uomo in quanto tale.
Quindi come dice lei c’è bisogno di un sostegno a livello politico e internazionale perché continuiate a fare questo lavoro?
Sì e anche per proteggere questa comunità secolare che si trova in questa terra.