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3 marzo 2016

Sacerdote a Erbil: peggiorano le condizioni dei profughi di Mosul, senza casa né lavoro


Molte famiglie cristiane non riescono a pagare l’affitto e “devono abbandonare le case” per rientrare “nelle tende e nei caravan”. Il lavoro “scarseggia” e quanti hanno avuto sinora un impiego, nella maggior parte dei casi “non ricevono lo stipendio”; solo di recente “almeno 250 compagnie sono fallite o hanno dovuto licenziare tutti i dipendenti”. Intanto cresce la cosiddetta “discriminazione della lingua”, perché a chi non parla curdo “vengono aumentati i prezzi delle derrate e, negli ospedali, accade che siano rifiutate le cure”. Dalle parole di p. Jalal Yako, rogazionista originario di Qaraqosh, responsabile di uno dei campi profughi - un migliaio di persone, in maggioranza cristiane ma con presenze musulmane - alla periferia di Erbil, nel Kurdistan irakeno, emerge un quadro critico per i profughi di Mosul e della piana di Ninive.
Da oltre un anno e mezzo le famiglie cristiane della regione hanno dovuto abbandonare le loro case e i loro beni, per sfuggire alle violenze delle milizie dello Stato islamico (SI). L’illusione di poter presto rientrare nelle abitazioni da cui sono fuggiti, ha lasciato spazio all’esigenza di trovare una sistemazione nella regione curda; tuttavia, oggi la crisi economica determinata dal calo dei proventi del petrolio e il costo della vita stanno rendendo sempre più precaria la realtà quotidiana. 
“All’indifferenza per il Medio oriente - racconta il sacerdote ad AsiaNews - per questa parte del mondo in cui si consumano drammi e conflitti, la nostra gente risponde con la fede, con l’attaccamento alla terra, con il desiderio di partecipare in massa alle funzioni della Quaresima. Ma è evidente un sentimento di sfiducia e disillusione”. La maggior parte dei profughi, o almeno quanti non sono fuggiti all’estero, “non sembra più disposta a credere di poter tornare un giorno nelle proprie case. Quanti sono riusciti a trovare sistemazione in un alloggio, oggi non riescono a pagare gli affitti perché non ci sono più soldi”. “Molti hanno perso il lavoro - spiega p. Jalal - e anche quanti hanno un impiego da tempo non ricevono il salario. Ultimamente ho sentito che 250 compagnie sono fallite, i cantieri restano a metà, incompiuti”. 
Per i profughi al problema della casa e del lavoro si aggiunge anche quello della lingua: “Se non sei del posto, se non parli curdo ma arabo - sottolinea il sacerdote - faticano ad accettarti. Vi è una discriminazione della lingua che si traduce in un aumento dei prezzi, nel rifiuto di cure mediche e questo finisce per colpire anche i cristiani. Anche nel mio campo, Asthi Uno, che ospita famiglie di Qaraqosh, Mosul, Bartella, il sentimento prevalente è quello della stanchezza”. 
A lenire il sentimento di sfiducia e abbandono vi è la fede, il desiderio di vivere le celebrazioni e i riti della Quaresima in una prospettiva di comunità. “Celebriamo messe tutti i giorni, le persone affollano le chiese - racconta p. Jalal - e osservano con devozione il digiuno del venerdì, giorno in cui partecipano anche alla Via Crucis all’aperto. E poi recitiamo l’Angelus tutti i giorni. Di recente, grazie all’aiuto di una parrocchia italiana, abbiamo costruito un campanile per richiamare la comunità alle funzioni e dare un segno visibile della nostra presenza, testimoniando la nostra fede”. 
“Fra le altre iniziative di queste settimane - racconta il sacerdote - c’è anche quella di far passare in processione tra le famiglie la statua della Vergine, per far sentire la presenza di Maria in mezzo a Noi. È una riproduzione della Madonna di Fatima, che abbiamo ricevuto da una parrocchia francese, alla periferia di Parigi. La gente fa lunghe code per pregare davanti alla statua e donazioni come questa, così come la campana dall’Italia, sono un bel gesto di comunione fra chiese, un modo per non farci sentire trascurati e dimenticati”. 
Il sacerdote non risparmia accuse ai governi occidentali, che fomentano guerre e si mostrano indifferenti alla presenza e alla permanenza di tutti i popoli, di tutte le etnie, di tutte le minoranze che nella storia hanno reso ricca la regione mediorientale. “Anche solo la presenza cristiana - spiega - è un mosaico che abbellisce questa zona, dobbiamo valorizzare la presenza di queste culture e non imporre le divisioni su basi etniche, confessionali, identitarie”. Certo, aggiunge, il valore della convivenza è stato minato dalle violenze degli ultimi mesi, “da vicini di casa che hanno approfittato dell’arrivo dello Stato islamico per depredare le case cristiane di beni e averi. Spesso - aggiunge - sono stati proprio i nostri vicini, musulmani, i primi a rivoltarsi contro di noi”. 
Nonostante le difficoltà e le sofferenze, fra i cristiani resta sempre saldo il valore del perdono, della riconciliazione, che assumono un significato maggiore in questo Anno della Misericordia indetto da papa Francesco: “I cristiani, anche se hanno subito un male, un torto, un’offesa - spiega il sacerdote - non cercano vendetta, non uccidono, non impugnano le armi. Anche se il dolore è grande, il perdono resta sempre un valore così come è grande il desiderio di testimoniare la fede”. L’esempio è una bambina di nome Miriam, di dieci anni, che vive nel campo profughi di p. Jalal e che ricorda a tutti “che il perdono è la cosa più grande. In mezzo a queste sofferenze e difficoltà è una vera testimone della gioia, canta, sorride, e ripete a tutti che vuole fare dono della sua vita per gli altri. È una bambina molto forte - conclude - e non smette mai di ricordarci che bisogna essere sempre capaci di perdonare, perché questo è uno degli insegnamenti più belli dell’essere cristiano”.