“Baghdad ha perduto la sua bellezza e non ne è rimasto che il nome.
Rispetto a ciò che essa era un tempo, prima che gli eventi la colpissero e gli occhi delle calamità si rivolgessero a lei, essa non è più che una traccia annullata, o una sembianza di emergente fantasma.”
Ibn Battuta
Pagine
▼
31 marzo 2016
Lettera di papa Francesco ai cristiani iracheni: «Siete richiamo a riscoprire il Mistero pasquale»
By Tempi
Inizia domani la visita, organizzata da Aiuto alla chiesa che soffre, di una delegazione di vescovi italiani a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Qui si trovano i cristiani perseguitati dallo Stato islamico e fuggiti da Mosul e dalla Piana di Ninive.
Della delegazione fanno parte il direttore di Acs Italia Alessandro Monteduro, il vescovo di Ventimiglia-San Remo, Antonio Suetta, un rappresentante dell’arcidiocesi di Bologna, don Massimo Fabbri, ed il vescovo di Carpi, monsignor Francesco Cavina, che ha raccontato come è nato questo viaggio in questa intervista a tempi.it. Monsignor Cavina porterà con sé come doni un aiuto finanziario, dei paramenti liturgici e una lettera autografa di papa Francesco. Ne trascriviamo di seguito il testo.
Della delegazione fanno parte il direttore di Acs Italia Alessandro Monteduro, il vescovo di Ventimiglia-San Remo, Antonio Suetta, un rappresentante dell’arcidiocesi di Bologna, don Massimo Fabbri, ed il vescovo di Carpi, monsignor Francesco Cavina, che ha raccontato come è nato questo viaggio in questa intervista a tempi.it. Monsignor Cavina porterà con sé come doni un aiuto finanziario, dei paramenti liturgici e una lettera autografa di papa Francesco. Ne trascriviamo di seguito il testo.
D.S.M., 19 marzo 2016
A Sua Eccellenza Rev.ma Mons. Francesco Cavina Vescovo di Carpi
A Sua Eccellenza Rev.ma Mons. Francesco Cavina Vescovo di Carpi
Cara Eccellenza, ho appreso con gioia che Lei, insieme a S. E. Mons. Antonio Suetta, su invito della Sezione italiana della Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, si recherà ad Erbil per incontrare i cristiani iracheni che sono stati costretti ad abbandonare le proprie città, case, proprietà, radici storiche e culturali per non rinunciare alla loro appartenenza a Cristo.
Mi compiaccio vivamente per questa iniziativa che esprime amicizia, comunione ecclesiale e vicinanza a tanti fratelli e sorelle, la cui situazione di afflizione e di tribolazione mi addolora profondamente e ci invita a difendere il diritto inalienabile di ogni persona a professare liberamente la propria fede. Non dobbiamo mai dimenticare il dramma della persecuzione e delle persone che si trovano a vivere nell’insicurezza, nella precarietà, nella povertà, nella impossibilità di assicurare un’adeguata educazione ai propri figli e di accedere alle più elementari e necessarie cure sanitarie.
La misericordia ci invita a chinarsi su questi nostri fratelli per asciugare le loro lacrime, per curare le loro ferite fisiche e morali, per consolare i loro cuori affranti e forse smarriti. Non si tratta solo di un atto doveroso di carità, ma di un soccorso al proprio stesso corpo, perché tutti i cristiani, in virtù del medesimo battesimo, sono “uno” in Cristo.
In realtà, la testimonianza di fede, coraggiosa e paziente, di tanti discepoli di Cristo rappresenta per tutta la Chiesa un richiamo a riscoprire la fonte feconda del Mistero pasquale da cui attingere energia, forza e luce per un umanesimo puro.
Come segno della mia prossimità a questi figli e fratelli iracheni sono lieto di affidarle un contributo finanziario, unitamente ad alcuni oggetti liturgici per la celebrazione della Santa Liturgia nella quale si rende presente il Signore Gesù sorgente di coraggio, di speranza, di fedeltà e di unità.
Eccellenza, nel formulare ogni miglior auspicio per l’esito positivo del viaggio, di cuore imparto la benedizione apostolica, che estendo all’intera Chiesa irachena.
E, per favore, pregate per me.
Francesco
«I cristiani hanno il coraggio e la forza per lottare contro i terroristi»
By Tempi
Rodolfo Casadei
Le persecuzioni e le tragedie hanno avvicinato fra loro le Chiese dell’Iraq, hanno stimolato un ecumenismo di sostanza e non formale, hanno fatto fare esperienza della carità sotto forma di solidarietà e di accoglienza fra comunità di confessione diversa. Ma sul piano politico hanno frammentato e mandato in diaspora il già rimpicciolito universo dei cristiani iracheni. Da un milione e mezzo che erano alla vigilia dell’invasione del Kuwait nel 1990, sono scesi ai 250 mila o poco più attuali. Nel frattempo, il numero dei partiti che rivendicano la loro rappresentanza è salito a 9 (al tempo di Saddam Hussein erano due, semiclandestini).Dopo l’invasione dei loro storici insediamenti nella Piana di Ninive nell’estate del 2014 da parte dell’Isis, sono pure sorte milizie confessionali che ostentano l’obiettivo di liberare i territori occupati dai jihadisti. Non una o due, ma ben quattro: il numero dei cristiani diminuisce vorticosamente, quello dei partiti e delle milizie che rivendicano di agire a loro nome s’impenna. Da sud (Baghdad) a nord (piana di Ninive) si incontrano i Leoni delle Brigate Babilonia, le Ninevah Plain Protection Units (intorno a Kirkuk), le Ninevah Plains Forces (Teleskoff) e i Dwekh Nawsha (Baqofa e Alqosh).
Le gerarchie ecclesiastiche sono molto scettiche riguardo al fenomeno, e il patriarca caldeo Louis Sako appare il più critico di tutti. Recentemente ha emesso un comunicato per precisare che non c’è nessun tipo di rapporto fra la Chiesa caldea e le Brigate Babilonia, che sono in effetti completamente dipendenti dai finanziamenti e dalle forniture di armi di una milizia sciita estremista. Ma si è anche espresso in termini critici sul fenomeno in generale: «Pensare che il nostro trionfo possa dipendere dalla creazione di fazioni armate isolate per combattere a difesa dei nostri diritti potrebbe condurre ad un altro olocausto, come è già successo in passato», ha scritto il patriarca. «L’unica soluzione legittima ed efficace è quella di arruolarsi nelle forze armate regolari, come l’esercito iracheno o quello che fa capo alla Regione autonoma del Kurdistan iracheno».
Matti Yusuf Yacoub è il presidente dell’Unione patriottica della Mesopotamia, uno dei numerosi partiti che si contendono il sempre più ridotto mercato del voto cristiano.
Questa formazione vanta di essere una delle più antiche, di aver lottato contro il regime di Saddam Hussein al prezzo di molti “martiri” e di essere stata la prima a costituire una milizia armata, le Ninevah Defence Forces. Il suo obiettivo è la creazione di un cantone cristiano che si autogovernerebbe e che avrebbe le proprie forze armate nel contesto di un Iraq o di un Kurdistan (se quest’ultimo dovesse diventare uno stato indipendente) federali.
Questa formazione vanta di essere una delle più antiche, di aver lottato contro il regime di Saddam Hussein al prezzo di molti “martiri” e di essere stata la prima a costituire una milizia armata, le Ninevah Defence Forces. Il suo obiettivo è la creazione di un cantone cristiano che si autogovernerebbe e che avrebbe le proprie forze armate nel contesto di un Iraq o di un Kurdistan (se quest’ultimo dovesse diventare uno stato indipendente) federali.
«Dovevamo mostrare a tutti gli iracheni e al mondo – spiega a Tempi – che i cristiani hanno il coraggio e la forza per lottare contro i terroristi. In dicembre a Teleskoff i nostri uomini hanno combattuto coi peshmerga per respingere l’offensiva dell’Isis, e abbiamo avuto il nostro primo caduto. Il nostro partito ha un programma nazionale, fondato su princìpi umanistici, stato di diritto, inviolabilità della persona, federalismo, riconoscimento del valore del diritto internazionale, convivenza pacifica con tutti i popoli; e un programma nazionalista che prevede la creazione di un’entità autonoma all’interno di uno stato federale. Noi vogliamo rappresentare gli interessi dei popoli originari di questa terra: siriaci, assiri, babilonesi, caldei, aramei. Chiunque si riconosca in queste identità fa parte del nostro progetto».Gli facciamo presente che la frammentazione politica e militare della minoranza cristiana suscita ironie e scetticismo. «La difficoltà di unire politicamente i cristiani iracheni dipende dal fatto che gli attuali partiti cristiani sono in realtà succursali dei partiti iracheni maggiori, riflettono dunque le divisioni politiche a livello nazionale. La pluralità delle milizie dipende prevalentemente dal dato geografico: le istituzioni nazionali sono in crisi, e da sud a nord i cristiani devono fare riferimento a chi ha il potere effettivo sul terreno se vogliono organizzarsi militarmente. Per me l’importante è che dopo che ci saremo liberati dell’Isis, tutte queste milizie confluiscano in un’unica forza armata».
Gli effettivi delle cosiddette milizie cristiane sono stimati ottimisticamente a 3 mila, fra loro ci sono anche volontari stranieri (soprattutto americani) e alcuni iracheni che cristiani non sono. La loro efficacia militare è limitata non per mancanza di volontà o di addestramento, ma di mezzi: dei tremila stimati sicuramente meno di un terzo dispone stabilmente di un’arma.
Il fenomeno delle milizie sembra dunque soprattutto una forma alternativa e vicaria dell’azione politica da parte di partiti che altrimenti avrebbero troppo poca visibilità e non saprebbero come competere per la lealtà dei potenziali elettori. «La storia del mondo mostra che tutti i popoli passano attraverso le stesse lotte, finché trovano i loro autentici leader, quelli in cui riporre le loro speranze. Ma non c’è dubbio che i nostri popoli avranno sempre bisogno di forme di protezione da parte della comunità internazionale. Sono popoli che hanno subito genocidi, come anche recentemente il Parlamento europeo e il Congresso americano hanno riconosciuto, e che sono sempre esposti al rischio del genocidio».
Il fenomeno delle milizie sembra dunque soprattutto una forma alternativa e vicaria dell’azione politica da parte di partiti che altrimenti avrebbero troppo poca visibilità e non saprebbero come competere per la lealtà dei potenziali elettori. «La storia del mondo mostra che tutti i popoli passano attraverso le stesse lotte, finché trovano i loro autentici leader, quelli in cui riporre le loro speranze. Ma non c’è dubbio che i nostri popoli avranno sempre bisogno di forme di protezione da parte della comunità internazionale. Sono popoli che hanno subito genocidi, come anche recentemente il Parlamento europeo e il Congresso americano hanno riconosciuto, e che sono sempre esposti al rischio del genocidio».
30 marzo 2016
Christians now fearing extintion after years of religious persecution and terror attacks
By Express (UK)
Tom Batchelor
Tom Batchelor
After a weekend of religious ceremonies to mark Easter, a senior Christian leader has issued a fresh warning about the threat his faith is now facing in a volatile Middle East.
On Sunday, more than 70 people - including dozens of children - were murdered in a suicide bombing on a park in the city of Lahore which was aimed at Christians.In Iraq, Christians have suffered under the barbaric rule of Islamic State militants who have forced them to flee their homes or face severe punishments or even death for refusing to ascribe to the Muslim faith.
Father Muyessir al-Mukhalisi, a priest at Saint George's Chaldean Church in east Baghdad, said his people were now "threatened with extinction".
He added: "This is a harsh word but every day we are being depleted. Our people are travelling, migrating."Millions of Iraqis have been forced to leave their homes after the jihadist group seized a third of the country.
Members of the Christian minority have moved from northern towns and villages to the capital or other cities, and many have joined the masses fleeing to Europe.Their numbers fell to a few hundred thousand from about 1.5 million before the US-led invasion in 2003.
In Mosul, which fell to ISIS in 2014, Christians faced an ultimatum: pay a tax, convert to Islam, or die by the sword.
The jihadists then stripped hundreds of Christian families of their possessions as they fled.Huda Meti Saeed, who left the city with her husband and three young children two years ago, told Reuters: "We cannot return. Our neighbours came and took our house. They wanted to take us hostage and take all our valuables."
Christianity in Iraq dates back to the first century and the country is traditionally home to many different churches, both Catholic and Orthodox.
But now Christians say they are often denied freedom of expression in the predominantly Muslim country, and like many Iraqis, lack security, basic services and economic opportunity.
Driven from their homes by ISIS, Iraqi Christians face choice of flight or fight
By PBS
Jane Ferguson, Irbil, Nineveh Plain in Northern Iraq
Jane Ferguson, Irbil, Nineveh Plain in Northern Iraq
Iraqi Christians celebrate Easter’s Holy Week, a time of rebirth, hope, salvation. But many here see little hope in their ancestral lands. They have fled ISIS’ grip for the nearby safety of Irbil city, and they have no idea if they can ever go home.
Father Douglas Bazi has worked to raise awareness around the world of the plight of Iraq’s Christians. Yet even he understands why most choose to leave a nation they struggle to feel a part of.
Father Douglas Bazi: Mar Elias Church, Erbil: The bigger problem here is when the Christians feeling that we are not belong to this land again — anymore. Without — with this feeling, I am not feeling that I belong to Iraq. So, why I am here? Why should I be target every time?
And don’t — please, don’t blame my people when they, because always they say, oh, it’s a shame, the Middle East without — without Christians. It’s really a shame. The Christians, they are leaving.
So, why you put shame on my people? Why not put shame to those actually force people to leave?
The number of Christians in the Middle East has fallen from 14 percent of the population in 1910 to 4 percent in 2010. Before 2003, there were around 1.5 million Christians in Iraq. Now it is believed less than 200,000 remain.
And many of those have been displaced from their villages by the Islamic State. These Christians fled their town as ISIS fighters approached, losing everything they have ever known in just a few terrifying hours.
Now they live in Father Douglas’ church yard. They cannot go home, but they have nowhere else to go. Compared to many refugees in this war, they are lucky. The global Christian community is supporting them, and some have been offered new lives in Europe.
But Hekmat Peter doesn’t just want to go home. He wants to go back in time, to when neighbors lived in harmony.
Hekmat Peter: Christian Refugee (through interpreter): We don’t want a place for Christian people only, but like we used to live. Our town was surrounded by 30 villages of Muslims. So we want to live together in peace, like we did for many years.
Fighting back will not solve the problem either, says Father Douglas. He believes resolutely that Christians should never take up arms against their attackers.
Father Douglas Bazi: We don’t believe in war at all. We don’t believe that the rights should be taken by weapon. And, actually, as a Christian, we don’t have militia belong to the Christian. So, as a Christian, we don’t have a militia.
Those people, if they want to go to the military and to serve there and be paid, this is their choice. We are never giving a blessing to war.
These men disagree. They are Christians who have come together into a small band of soldiers, coached by Americans and local Kurdish fighters called the Peshmerga.
They named themselves the Nineveh Plains Forces, after this area north of Mosul where many Christian villages were attacked. With less than 300 men fighting, their presence here is almost entirely symbolic. But their commander believes they can help their people.
Safaa Khamro: Commander, Nineveh Plains Forces (through interpreter): Now we have only one unit. We need the help of the Kurds. We have to increase our numbers. If we have enough forces, we can protect the Christians in this Nineveh area.
Commanders here say these soldiers don’t have enough heavy weaponry to be stationed at the front line permanently. Instead, they wait here about a mile from the front line. And when there is an attack by ISIS, they move there quickly to back up Peshmerga forces.
For these soldiers, the fight is very personal. This 23-year-old volunteer calls himself George. His whole family fled their village, and he says ISIS fighters are now living in his home.
And how does it feel to have ISIS living in your house?
George: Nineveh Plains Forces: It’s a bad feeling, so aggravated, so angry, so mad. So, since they started here and created this force, I hear about it, and I came and volunteered to defend, to do everything. I really want to kill some of them. So, it’s like an angry inside of me, angry what they did to us.
He thinks there is too much bad blood here for things to be the same again.
If Da’esh, or ISIS, are defeated and they are pushed out of Mosul, is it going to be difficult for Christian communities here to live side by side with their neighbors?
George: Yes, I think it’s going to be hard and difficult.
George blames his Muslim neighbors for not standing up to ISIS.
George: They saw a lot of, like, bad things, and killing, kidnapping. So, I don’t think so. I don’t think they can communicate with them again.
The men practice house searches amongst the remnants of the very communities they hope to protect.
This Christian town emptied out in August 2014 when ISIS rushed in here and took over. Soon after, the Kurdish Peshmerga forces pushed them out. But the 1,000 or so Christian families who lived here never came back. The town now lies abandoned.
Some houses are being used to house Peshmerga and Christian forces. And the front line is about one mile in that direction. That’s where ISIS positions are. It’s now eerily silent here, except for some warplanes that fly overhead.
A couple of miles away, where the Nineveh Plains meet mountains, the Saint Hormuzd Monastery retains the defensive position it has kept for over 1,500 years. From its peaceful courtyard, the front line of fighting can be seen in the distance.
But it’s a crumbling relic of Christianity, empty of the vibrant people it once was built to serve, looking out over a land many in its community feel is slipping away from them.
29 marzo 2016
Il Cardinale austriaco Christoph Schönborn in visita ai campi profughi del Kurdistan iracheno
By Baghdadhope*
Fonte Kathpress (Austria)
Fonte Kathpress (Austria)
L'arcivescovo di Vienna, Cardinale Christoph Schönborn ha visitato i campi profughi cristiani nella regione autonoma del Kurdistan.
Nell'estate del 2014 circa 120.000 cristiani sono stati costretti ad abbandonare le proprie case ed i propri villaggi dalle milizie armate dell'Isis cercando rifugio in quella regione dove ancora vivono come profughi. Quei cristiani, ha affermato il Cardinale Schönborn, vorrebbero più di ogni altra cosa ritornare alle proprie case ma sono scettici sull'effettiva possibilità di farlo anche a causa della profonda sfiducia che ormai essi nutrono verso i musulmani.
La chiesa gestisce i campi in cui ancora vivono circa 10.000 persone, diversi appartamenti presi affitto per ospitarne altre, due centri sanitari, centri di distribuzione del cibo, 14 scuole ed una università cattolica.
Sebbene sia comprensibile che molti cristiani vogliano fuggire in Occidente, ha sottolineato il Cardinale Schönborn, la loro fuga rappresenterebbe una grande perdita per l'intero Iraq e per questa ragione il sostegno a quelle comunità è quanto mai importante per spingerli a rimanere nella loro terra.
Durante la visita nel Kurdistan il Cardinale Schönborn ha incontrato vari membri della chiesa irachena come il Patriarca caldeo Mar Louis Raphael I Sako, il vescovo caldeo di Erbil, Mons. Bashar M. Warda, quello siro cattolico di Mosul, Mons. Boutrous Mouche e quello siro ortodosso di Mosul, Mor Nicodemus David Sharaf; e vari membri dell'establishment curdo come il Ministro degli Interni Kerim Sinjari che ha spiegato come il Kurdistan che ospita 1.8 milioni di rifugiati interni iracheni - cristiani, musulmani e yazidi - e 250.000 profughi siriani, ha bisogno dell'aiuto internazionale per continuare a farlo.
Sinjari ha anche approfittato della visita del Cardinale austriaco per avvertire l'Europa a non essere troppo ingenua riguardo all'accoglienza dei musulmani tra i quali si potrebbero confondere islamisti fondamentalisti. Secondo quanto dichiarato dal Cardinale Schönborn questo avvertimento deve essere preso sul serio ed è più che mai necessario mantenere aperto il dialogo con l'Islam.
Nell'estate del 2014 circa 120.000 cristiani sono stati costretti ad abbandonare le proprie case ed i propri villaggi dalle milizie armate dell'Isis cercando rifugio in quella regione dove ancora vivono come profughi. Quei cristiani, ha affermato il Cardinale Schönborn, vorrebbero più di ogni altra cosa ritornare alle proprie case ma sono scettici sull'effettiva possibilità di farlo anche a causa della profonda sfiducia che ormai essi nutrono verso i musulmani.
La chiesa gestisce i campi in cui ancora vivono circa 10.000 persone, diversi appartamenti presi affitto per ospitarne altre, due centri sanitari, centri di distribuzione del cibo, 14 scuole ed una università cattolica.
Sebbene sia comprensibile che molti cristiani vogliano fuggire in Occidente, ha sottolineato il Cardinale Schönborn, la loro fuga rappresenterebbe una grande perdita per l'intero Iraq e per questa ragione il sostegno a quelle comunità è quanto mai importante per spingerli a rimanere nella loro terra.
Durante la visita nel Kurdistan il Cardinale Schönborn ha incontrato vari membri della chiesa irachena come il Patriarca caldeo Mar Louis Raphael I Sako, il vescovo caldeo di Erbil, Mons. Bashar M. Warda, quello siro cattolico di Mosul, Mons. Boutrous Mouche e quello siro ortodosso di Mosul, Mor Nicodemus David Sharaf; e vari membri dell'establishment curdo come il Ministro degli Interni Kerim Sinjari che ha spiegato come il Kurdistan che ospita 1.8 milioni di rifugiati interni iracheni - cristiani, musulmani e yazidi - e 250.000 profughi siriani, ha bisogno dell'aiuto internazionale per continuare a farlo.
Sinjari ha anche approfittato della visita del Cardinale austriaco per avvertire l'Europa a non essere troppo ingenua riguardo all'accoglienza dei musulmani tra i quali si potrebbero confondere islamisti fondamentalisti. Secondo quanto dichiarato dal Cardinale Schönborn questo avvertimento deve essere preso sul serio ed è più che mai necessario mantenere aperto il dialogo con l'Islam.
Amer Saka, Catholic Priest, Gambled Away Over $500,000 Meant For Refugees: Reports
By Huffington Post (Canada)
Jesse Ferreras
Police in London, Ont. are investigating a Catholic priest after he allegedly gambled away over $500,000 meant for refugees.
Jesse Ferreras
Police in London, Ont. are investigating a Catholic priest after he allegedly gambled away over $500,000 meant for refugees.
Father Amer Saka of the St. Joseph Chaldean Catholic Church confessed to bishop Emanuel Shaleta last month that the money had disappeared in games of chance, The Toronto Star reported.
He was suspended right away, Shaleta told the newspaper. Saka subsequently received treatment.
Precisely how the money was gambled away isn't clear.
But Shaleta believes Saka has a "serious gambling problem and that these funds may have been used for this purpose."
But Shaleta believes Saka has a "serious gambling problem and that these funds may have been used for this purpose."
"Since there is an investigation going on, we cannot confirm what he's saying," he said.
Shaleta added that Saka was taken to Southdown Institute, a facility that offers addiction and mental health services for clergy members.
The London police began a fraud investigation after they received a complaint from the Diocese of Hamilton in February, CTV News reported.
The London police began a fraud investigation after they received a complaint from the Diocese of Hamilton in February, CTV News reported.
The diocese had been overseeing efforts by numerous groups, including one led by Saka, to sponsor Syrian and Iraqi refugees in Canada.
Saka was trusted with handling funds after families donated money to support loved ones fleeing war in the Middle East.
But, instead of holding the money for refugees, it was gambled off, Shaleta told the London Free Press.
"They deposited it for their loved ones (and) he was supposed to return it when their relative came," he said.
"They deposited it for their loved ones (and) he was supposed to return it when their relative came," he said.
"They trusted him, this money was not for him. It was to be given back to the refugees."
Sponsoring a family of four refugees for a year costs a minimum of approximately $20,000, on top of $7,000 in startup costs, according to Lifeline Syria.
The Diocese of Hamilton is now overseeing sponsorship for the refugees that Saka had been helping, CTV News noted.
Christians in Iraq: Should They Stay or Should They Go?
By The Guardian
Giles Fraser
Giles Fraser
The Isis frontline was only an hour's drive south, so maybe I was a bit on edge.
But Fr Emmanuel was really starting to wind me up. Instead of sharing a meal and discussing the humanitarian needs of the Iraqi church, we had begun to argue about why Christianity was dwindling in the Middle East.
He said that Europeans who welcomed Christian refugees from Syria and Iraq were "completing the uncompleted mission of Isis".
Western liberals like me were complicit in the de-Christianisation of the Middle East by allowing Iraqi Christians too easy a route out of their historic homeland, he said. There are push and pull factors to Christians abandoning the Middle East. Isis is the push and we are the pull. Well, let's just say I didn't take too kindly to the comparison with Isis. As tensions mounted, one of the bishops present suggested we say the Lord's Prayer together, each in our own language."Aboon D'bashmayo..." he began. Our Father, which art in heaven.
Fr Emmanuel prayed in Aramaic, the language in which Jesus first taught the prayer to his disciples. It's a language that's still used by Christians in an area that stretches from the edge of Iran through northern Iraq and across the Nineveh plains into north-eastern Syria -- yes, much of it Isis territory. Fr Emmanuel's church was formed in the first century and by those known to the apostles -- as opposed to my church which was formed in the 16th century by a priapic bully looking for a divorce. A bit more humility, I said to myself. Listen again to his argument.
But Fr Emmanuel was really starting to wind me up. Instead of sharing a meal and discussing the humanitarian needs of the Iraqi church, we had begun to argue about why Christianity was dwindling in the Middle East.
He said that Europeans who welcomed Christian refugees from Syria and Iraq were "completing the uncompleted mission of Isis".
Western liberals like me were complicit in the de-Christianisation of the Middle East by allowing Iraqi Christians too easy a route out of their historic homeland, he said. There are push and pull factors to Christians abandoning the Middle East. Isis is the push and we are the pull. Well, let's just say I didn't take too kindly to the comparison with Isis. As tensions mounted, one of the bishops present suggested we say the Lord's Prayer together, each in our own language."Aboon D'bashmayo..." he began. Our Father, which art in heaven.
Fr Emmanuel prayed in Aramaic, the language in which Jesus first taught the prayer to his disciples. It's a language that's still used by Christians in an area that stretches from the edge of Iran through northern Iraq and across the Nineveh plains into north-eastern Syria -- yes, much of it Isis territory. Fr Emmanuel's church was formed in the first century and by those known to the apostles -- as opposed to my church which was formed in the 16th century by a priapic bully looking for a divorce. A bit more humility, I said to myself. Listen again to his argument.
Christianity is being wiped from the Middle East, he said. In 2003 there were 1.5 million Christians in Iraq. Now it's about 300,000 and still dropping fast. Isis is murdering Christians all over the place. In Mosul, Fr Emmanuel's home town, Christians were especially targeted after the US invasion of Iraq. Back in 2008, Mosul's archbishop was snatched from his car and discovered in a shallow grave a week later.
And when Isis arrived in 2014 -- welcomed by the majority of the local population, Fr Emmanuel insists -- the Christian community had "N" for Nazarene daubed on its doors. The Isis message to Christians is: convert or die.
And when Isis arrived in 2014 -- welcomed by the majority of the local population, Fr Emmanuel insists -- the Christian community had "N" for Nazarene daubed on its doors. The Isis message to Christians is: convert or die.
In the face of all this, the church's leadership tells its people to be brave, to stay and endure, that in them the very existence of Christianity in the Middle East is at stake. And that's true -- it is.
But my problem is that Fr Emmanuel and much of his church's leadership do not practise what they preach. After an attempt on his life, Fr Emmanuel now operates out of the German spa town of Wiesbaden. And until last November the leadership of his church, the Assyrian Church of the East, was based a little further west than its name suggests, in Chicago, Illinois.
But my problem is that Fr Emmanuel and much of his church's leadership do not practise what they preach. After an attempt on his life, Fr Emmanuel now operates out of the German spa town of Wiesbaden. And until last November the leadership of his church, the Assyrian Church of the East, was based a little further west than its name suggests, in Chicago, Illinois.
I totally understand why they want to be far from Mosul. But they shouldn't emotionally strongarm their congregations into staying when they themselves won't.
Iraqi Christians have every right to place the protection of their families higher up the list of priorities than the historical continuity of Christianity in the Middle East. And I say this in full knowledge that this is holy week, when Christians are called to follow in the way of the cross. But going the way of the cross is not something academic in Mosul -- Isis is still crucifying Christians. Yes, I'd probably run away too. So did the disciples, remember.
Iraqi Christians have every right to place the protection of their families higher up the list of priorities than the historical continuity of Christianity in the Middle East. And I say this in full knowledge that this is holy week, when Christians are called to follow in the way of the cross. But going the way of the cross is not something academic in Mosul -- Isis is still crucifying Christians. Yes, I'd probably run away too. So did the disciples, remember.
"And forgive us our trespasses, as we forgive those who trespass against us," Fr Emmanuel and I continued.
Yes, forgive even those murderous bastards of the black flag. Yes, forgive them even when they think that our forgiveness makes us weak and foolish. For the death of Christ is not a martyrdom operation designed to expand the muscle of the Christian tribe. Either the church survives because of its message of reconciliation -- an idea Fr Emmanuel wasn't so keen on -- or it has no business surviving. We are not saved by men with Kalashnikovs. Nor by the numerical vitality of our pews. We are saved by being forgiven. The terrifying existential vulnerability of the Iraqi church reminds me that everything is on the line in trusting so audacious a claim.
Yes, forgive even those murderous bastards of the black flag. Yes, forgive them even when they think that our forgiveness makes us weak and foolish. For the death of Christ is not a martyrdom operation designed to expand the muscle of the Christian tribe. Either the church survives because of its message of reconciliation -- an idea Fr Emmanuel wasn't so keen on -- or it has no business surviving. We are not saved by men with Kalashnikovs. Nor by the numerical vitality of our pews. We are saved by being forgiven. The terrifying existential vulnerability of the Iraqi church reminds me that everything is on the line in trusting so audacious a claim.
The Guardian view on Christianity in the Middle East: the burden of the cross
By The Guardian
Tomorrow, Good Friday, the long agony of the Christians of Iraq and Syria will continue.
These countries have a far older Christian tradition than western Europe – it was to Damascus that Saint Paul was travelling when he was struck down and converted – but it really does seem as if it is now coming to an end. More than a decade of war has seen the Christian people of Iraq driven from their homes, sometimes three times, as the frontlines have passed over them, until a remnant has found shelter in Kurdistan. In Syria the Christian minorities were somewhat sheltered by the Assad regime, which means these communities have a degree of sympathy for it that is not shared by the western nations they look to as their other protectors. They, too, have been displaced in immense numbers.
These countries have a far older Christian tradition than western Europe – it was to Damascus that Saint Paul was travelling when he was struck down and converted – but it really does seem as if it is now coming to an end. More than a decade of war has seen the Christian people of Iraq driven from their homes, sometimes three times, as the frontlines have passed over them, until a remnant has found shelter in Kurdistan. In Syria the Christian minorities were somewhat sheltered by the Assad regime, which means these communities have a degree of sympathy for it that is not shared by the western nations they look to as their other protectors. They, too, have been displaced in immense numbers.
In the territories controlled by Islamic State, the treatment of Christians, as of Yazidis, has been recognised as genocide by the US. It is Isis that destroyed the ancient communities around Nineveh, now Mosul, and Isis that has institutionalised the rape of captive women and children. In the rest of Syria and Iraq, the outbreaks of murderous hostility to Christians are much less organised, although both Sunni and Shia forces, when they are not slaughtering each other for their heresies, have proved capable of slaughtering Christians for their religions too. Nor should we forget the supposedly more moderate Sunni jihadis supported by Saudi Arabia and the Gulf states. Any part of the world where crucifixion is deployed as a quasi-judicial punishment, even when mostly inflicted on corpses, is one from which Christians have very good reasons to flee.
Where should they go, and what should we do to help them? Neither question has an easy answer. The fantasy that western military intervention could ever produce a more secure and stable Middle East has been discredited since the invasion of Iraq. In the end, the conclusion of that crime and folly, as well as those of local actors, including the Assad regime, has been that Europe itself is less secure and stable, and the countries we supposedly liberated are a ghastly wasteland. But neither can we offer all of the refugees asylum here. That would likely be impractical politically, even if it were feasible in terms of resources. It doesn’t follow that the refugees have any moral duty to stay where they are. Still less should anyone in this country or in Europe lecture them to that effect. There is something rather unpleasant about the spectacle of Christian leaders, some of them from the churches and communities most affected, preaching from the safety of Europe about the duty of these communities to remain where they are so that the tradition of Christianity in those countries is not broken. People in danger will make their own decisions about where to go, and their choices must be respected.
Nonetheless, the hope must be that these people can return to their ancestral homes once peace comes. There is nowhere in the region that would be suitable for large-scale resettlement anyway. Even in those countries where there is no active and ongoing persecution, Christians are second-class citizens at best. Even in Iran, where there are guaranteed places for Christians in parliament, and a Christian is the captain of the national football team, there is no real concept of religious freedom and the legal penalty for converting to Christianity can be death. In Egypt things are slightly better since the fall of the regime, which had encouraged a great deal of violence against the ancient Christian communities there, but it can’t be easy for Christians to feel safe.
We have to hope that this will not be a permanent condition, and that the Christian minorities there will once more find an honoured place among their neighbours, as they have done for most of the past 2,000 years. In the meantime there is still a great deal that the west can accomplish, even if our powers are not miraculous. Although it would be counterproductive as well as wrong to discriminate in their favour when deciding which refugees to help, it is just as important to ensure that we do not go along passively with the discrimination that Christians do suffer even in refugee camps. The aid that we give must be sustained: the generous aid this government has given to refugee camps in Turkey, Lebanon and Jordan has done far more good than the scattering of bombs so noisily dropped on Isis. In the end, though, what the Christians of the Middle East need is the same as their Muslim neighbours, or anyone else – peace, justice and security. There may be very little that this government can do on the ground, but those should be the aims of our policy.
24 marzo 2016
About 1 Million Christians Have Fled Syria Since 2011, says Chaldean Catholic Bishop
About a million Christians have fled Syria since the civil war started, Chaldean Catholic bishop Antoine Audo said last week, which amounts to 66 percent of the total population of 1.5 million Christians present in the country before March 2011.
“I think now there are maybe 500,000. Two-thirds have left mainly due to the insecurity,” the Aleppo priest said in Geneva where he had gone to attend a side event of the UN Human Rights Council.
The northern city of Aleppo witnessed an even larger proportion of migration of Christians, with only 40,000 now remaining in the city, out of the population of 160,000, before the conflict began.
Audo said that all of Aleppo’s three cathedrals have been destroyed because of violence perpetrated in the city during the last five years.
The bishop expressed his perplexity as to why the militants always targeted Christian sites in particular with the intent to destabilize a population, which they also did in Homs and several other cities.
He refused to blame President Bashar al-Assad for the conflict, and said that Christians were never targeted during his regime.
According to him, “there is no persecution of Christians” by the Assad government, but the Christians were only “targeted” by jihadists such as ISIS to “destabilize the Syrian society and transform the war into a confessional war.”
He believed that if national polling were to be done, as many as 80 percent of Christians would vote for Assad, and that he would emerge victorious with over 50 percent overall support, including of the Sunnis.
The Assad regime and a coalition of Saudi Arabia and the West have been in a gridlock for years. The international community have pushed hard in the UN to have Assad step down as President, a demand which Damascus never agrees to discuss, calling it a “red line” in negotiations, which must not be crossed.
The Bishop told the reporters that since the ceasefire implemented on February 27, the basic necessities of water and electricity are being restored.
Russian President Vladimir Putin has withdrawn his troops from Syria, suggesting that the conflict is coming nearer to its end.
“I consider the mission set for the defense ministry and the armed forces on the whole has been accomplished,” Putin said in a statement on March 14, adding that the pullout was “in accordance with the situation on the ground [in Syria].”
Last month, Pope Francis had met with Russian Orthodox Patriarch Kirill in Havana, Cuba, where they signed a joint declaration stating their concern about the Middle East.
“We call upon the international community to act urgently in order to prevent the further expulsion of Christians from the Middle East. In raising our voice in defence of persecuted Christians, we wish to express our compassion for the suffering experienced by the faithful of other religious traditions who have also become victims of civil war, chaos and terrorist violence,” the declaration states.
“Thousands of victims have already been claimed in the violence in Syria and Iraq, which has left many other millions without a home or means of sustenance,” it continues. “We urge the international community to seek an end to the violence and terrorism and, at the same time, to contribute through dialogue to a swift return to civil peace. Large-scale humanitarian aid must be assured to the afflicted populations and to the many refugees seeking safety in neighbouring lands.”
La vicinanza della Chiesa Caldea alle vittime degli attentati a Bruxelles. Lettera del Patriarca Louis Sako.
By Patriarcato Caldeo di Babilonia
Baghdadhope pubblica il testo originale della lettera inviata dal Patriarca di Babilonia dei Caldei, Mar Louis Raphael I Sako, alla Conferenza Episcopale Belga a seguito dei tragici attentati terroristici di Bruxelles.
L'appello è a tutti gli uomini di buona volontà perché "facciano il possibile per arginare la piaga del terrorismo che minaccia la pace nel mondo. "
Date: 24.3.2016
L'appello è a tutti gli uomini di buona volontà perché "facciano il possibile per arginare la piaga del terrorismo che minaccia la pace nel mondo. "
Date: 24.3.2016
Message à la conférence
des évêques Belges
A Son Excellence
Monseigneur Jozef De Kesel,
Président de
la conférence des évêques de Belgique
Excellence,
En mon nom et au nom de toute l'Eglise chaldéenne dans le monde j'exprime ma profonde proximité et compassion à toutes les personnes victimes des attentats de Bruxelles qui ont fait Mardi 22 mars, au moins 34 morts et 200 blessés, et à leurs familles profondément endeuillées et traumatisées.
En mon nom et au nom de toute l'Eglise chaldéenne dans le monde j'exprime ma profonde proximité et compassion à toutes les personnes victimes des attentats de Bruxelles qui ont fait Mardi 22 mars, au moins 34 morts et 200 blessés, et à leurs familles profondément endeuillées et traumatisées.
Nous condamnons vivement ces attentats inqualifiables, qui ont frappé Bruxelles, le cœur de la Belgique et le centre de l'Union européenne, et nous assurons notre solidarité avec vous et le peuple belge. Nous expérimentons malheureusement dans notre pays les méfaits du terrorisme depuis des années, et surtout quand, il y a presque 20 mois, plus de 120 milles chrétiens ont été déplacés sans compter les innombrables victimes.
Nous vous assurons de nos prières pour votre pays et votre peuple pour les familles des victimes et pour le rétablissement des blessés, espérant que ce choc réveillera les consciences et unifiera les efforts de tous les hommes de bonne volonté pour faire tout leur possible pour endiguer ce fléau du terrorisme qui menace la paix dans le monde. Bonne Pâques .
+ Louis Raphael Sako
Patriarche de l'Eglise Chaldéenn
23 marzo 2016
Pasqua di solidarietà: dai profughi di Mosul alle famiglie più povere
By Asia News
Una colletta organizzata da un gruppo di cristiani del centro, che ha deciso di “mettere da parte beni di prima necessità e denaro” da devolvere a famiglie cristiane (e musulmane) più povere e bisognose.
E ancora: intere famiglie impegnate nella preparazione di "decorazioni e festoni per ornare e abbellire le chiese".
È una Pasqua all’insegna della festa e della solidarietà quella dei profughi cristiani di Mosul e della piana di Ninive, oggi ospitati nei centri di accoglienza nel Kurdistan irakeno.
Don Paolo Thabit Mekko, 40enne sacerdote caldeo di Mosul, è responsabile del campo profughi “Occhi di Erbil”, alla periferia della capitale. La struttura ospita 140 famiglie, circa 700 persone in tutto, con 46 mini-appartamenti e un’area in cui avviene la raccolta e la distribuzione di aiuti. A questo si aggiungono un asilo nido per i più piccoli, oltre che una scuola materna e una secondaria.
E ancora: intere famiglie impegnate nella preparazione di "decorazioni e festoni per ornare e abbellire le chiese".
È una Pasqua all’insegna della festa e della solidarietà quella dei profughi cristiani di Mosul e della piana di Ninive, oggi ospitati nei centri di accoglienza nel Kurdistan irakeno.
Don Paolo Thabit Mekko, 40enne sacerdote caldeo di Mosul, è responsabile del campo profughi “Occhi di Erbil”, alla periferia della capitale. La struttura ospita 140 famiglie, circa 700 persone in tutto, con 46 mini-appartamenti e un’area in cui avviene la raccolta e la distribuzione di aiuti. A questo si aggiungono un asilo nido per i più piccoli, oltre che una scuola materna e una secondaria.
Nella Settimana Santa la comunità cristiana, vittima di persecuzioni e sofferenze, vuole ricordare a tutti che “c’è ancora vita, c’è ancora speranza” sottolinea don Paolo, il quale non rinuncia a “spronare i fedeli esortandoli a rimanere saldi nella fede. Il loro desiderio più profondo è tornare, un giorno, nelle loro case”. “Guai - aggiunge - a perdere il fervore, smarrire la voglia di festeggiare”.
Fra le varie iniziative organizzate quest’anno vi è una colletta che ha coinvolto alcune famiglie del centro: “Quanti hanno ricevuto aiuti - racconta il sacerdote - hanno messo da parte denaro e beni di prima necessità da devolvere a famiglie più povere. Non solo cristiane, ma anche musulmane”. “Speriamo che questa Pasqua - afferma - sia davvero l’ultima in questa condizione di profughi. Noi ci auguriamo di poter tornare nelle nostre case, nei nostri villaggi, e che questa festa sia occasione per ricordare al mondo la nostra disgrazia, il nostro dolore, le nostre sofferenze”.
I profughi cristiani di Mosul e della piana di Ninive si avvicinano alla Pasqua facendo “rivivere le tradizioni e i canti” della festa quando veniva celebrata nei villaggi, prima dell’arrivo delle milizie dello Stato islamico (SI). I fedeli cercano di “recuperare quanto hanno lasciato alle spalle”, nel tentativo di riscoprire “l’appartenenza al luogo d’origine”.
“Rispetto al passato differenze ve ne sono” racconta don Paolo. “Cerimonie e liturgie avevano un carattere peculiare, secondo i costumi dei Padri. Il Venerdì Santo nel mio villaggio si intonava un canto locale” e la comunità partecipava con devozione. Oggi, invece, le famiglie della piana di Ninive sono disperse nei vari centri di accoglienza allestiti a Erbil e nel Kurdistan, altre sono fuggite all’estero in Giordania, Libano, altre ancora in Europa o nel Nord America.
“Qui, oggi, vi è una grande mescolanza fra i profughi - spiega il sacerdote - che provengono da posti diversi e hanno tradizioni diverse. Non è più una festa del villaggio e anche se vivono ad Ankawa [il quartiere cristiano di Erbil] fanno fatica a restare in contatto fra loro. Anche qui si vive una realtà di diaspora”.
Per questo don Paolo ha promosso attività comunitarie che mirano a recuperare le tradizioni dei villaggi nativi. “Con i fedeli di Karemles, dove ero parroco - racconta - per la Domenica delle Palme abbiamo organizzato una piccola processione qui al campo. Certo, non è stata una marcia imponente come ai tempi del villaggio, ma abbiamo comunque intonato i canti tradizionali. Una signora ha disegnato un quadro con la riproduzione della grande collina di santa Barbara, che domina il villaggio. Anche questi sono piccoli segni di appartenenza, il tentativo di mantenere un legame con la terra che hanno dovuto abbandonare”.
Per questo don Paolo ha promosso attività comunitarie che mirano a recuperare le tradizioni dei villaggi nativi. “Con i fedeli di Karemles, dove ero parroco - racconta - per la Domenica delle Palme abbiamo organizzato una piccola processione qui al campo. Certo, non è stata una marcia imponente come ai tempi del villaggio, ma abbiamo comunque intonato i canti tradizionali. Una signora ha disegnato un quadro con la riproduzione della grande collina di santa Barbara, che domina il villaggio. Anche questi sono piccoli segni di appartenenza, il tentativo di mantenere un legame con la terra che hanno dovuto abbandonare”.
Fra le altre iniziative in programma nei prossimi giorni un incontro fra le famiglie del centro di accoglienza per lo scambio di auguri e di doni; e ancora, la distribuzione delle uova di Pasqua da colorare e una celebrazione comunitaria nella piazza del campo. Certo, festeggiamenti diversi da quelli di un tempo, ricorda il sacerdote, quando “si organizzavano veri e propri giochi, si tenevano danze, canti e balli, si sfilava con una solenne processione per le vie del villaggio. Tuttavia, la situazione generale è triste, anche qui in Kurdistan vi sono difficoltà e per questo non ce la sentiamo di promuovere manifestazioni gigantesche”.
How we celebrate Easter in Iraq
By Luxemburger Wort
Hind Al Harby
Hind Al Harby
Christians celebrate Easter in Iraq as they have done ever year, in spite of the 2003 war. While there may be no peace and the security situation deteriorates, hundreds of thousands of Christians continue flock to church to mark the resurrection of Christ. Churches in Iraq are not like churches in Luxembourg, however.
Most of them are surrounded by concrete walls to stop armed attacks. These security measures intensified dramatically in the summer of 2014 when ISIS forces swept into Nineveh province in Iraq and captured the second largest city, Mosul. This city was home to a thriving Christian community for 2,000 years but thousands were forced to flee from the terrorists. Yet elsewhere in Iraq the traditions continue, and are often even celebrated with Muslims. In the week leading up to the Easter weekend, Muslims and Christians prepare desserts for the feast of "Alklejeh".
Most of them are surrounded by concrete walls to stop armed attacks. These security measures intensified dramatically in the summer of 2014 when ISIS forces swept into Nineveh province in Iraq and captured the second largest city, Mosul. This city was home to a thriving Christian community for 2,000 years but thousands were forced to flee from the terrorists. Yet elsewhere in Iraq the traditions continue, and are often even celebrated with Muslims. In the week leading up to the Easter weekend, Muslims and Christians prepare desserts for the feast of "Alklejeh".
They go to the church on the Thursday to commemorate the last supper, where Christ sat down to eat with his 12 disciples.
On the Sunday before, Palm Sunday, olive branches are distributed and farmers often plant them on their land, as a prayer for a good harvest. Women also dye eggs in shades of red and yellow as a sign of joy and love.
The eggs are dyed using traditional materials, for example onion skin and lentils. Also on Sunday, people eat a special kind of bread called "Tkharca Daochgan", made from bulgur and wheat flour and coloured yellow.
On the Sunday before, Palm Sunday, olive branches are distributed and farmers often plant them on their land, as a prayer for a good harvest. Women also dye eggs in shades of red and yellow as a sign of joy and love.
The eggs are dyed using traditional materials, for example onion skin and lentils. Also on Sunday, people eat a special kind of bread called "Tkharca Daochgan", made from bulgur and wheat flour and coloured yellow.
During the morning, people distribute the bread to the poor. After church, they return for a meat dish called "pacha". These are some of the traditions of Christians in Iraq and though not all Iraqi refugees share the same religion, we share a sense of love and tolerance. Regardless of religion, Christians and Muslims are friends and family. Easter teaches us the meaning of friendship and with that in mind, we thank the people of Luxembourg for their kindness and wish you all a Happy Easter.
Hind is one of two asylum seekers writing for a bi-monthly column on Wort.lu/en. Before coming to Luxembourg, she was a TV journalist and programme producer in Baghdad, Iraq. She fled Iraq in 2013 after receiving death threats because of her work.
Click here to read more articles from this series.
Hind is one of two asylum seekers writing for a bi-monthly column on Wort.lu/en. Before coming to Luxembourg, she was a TV journalist and programme producer in Baghdad, Iraq. She fled Iraq in 2013 after receiving death threats because of her work.
Government putting Iraqi and Syrian Christians lives at risk by delay, refugee group says
By ABC (Australia)
By Mohammed Taha and Michael Edwards
By Mohammed Taha and Michael Edwards
Australian Iraqi and Syrian Christians say the Australian Government is moving too slowly and lives are being put at risk by delays in bringing their relatives into Australia.The Australian Government pledged to help by taking in 12,000 Iraqis and Syrians affected by fighting in the Middle East, and were 9,000 expected to end up in New South Wales, with many in the Fairfield area.
But according to official figures, only 26 people have arrived so far, with only a further 124 people approved.
Australian Syrian and Iraqi Christian groups have lodged thousands of visa applications for members of their community stuck in Jordan and Turkey.
When the former prime minister Tony Abbott announced the intake, he said the Government would "move quickly" to resettle the refugees.
Dr Intesar Naoum, from the Iraqi Christian Association, said the persecuted community needs help.
"The occupation of Mosul by [Islamic State], we've had a lot of Christians evacuate or fled Mosul, most of them are living in Kurdistan of Iraq and thousands of them fled to Jordan for safe haven there," Dr Naoum said.
"They are seeking refugee to other countries, Australia is one of these countries. We are hoping to bring them as soon as possible."
The Iraqi Christian Association said they had lodged more than 300 refugee claims, and some are dated back from two years ago.
An Immigration Department spokesperson told ABC that it was not possible to put a time frame on how long it could take to process the full cohort of refugees, as the processing time varies according to the circumstances of each applicant.
Hundreds of refugee applications but only a few arrivals
Dr Naoum said he has heard little from Immigration authorities other than that the cases are being processed.
"We had around 300 applications and till now I think one or two people of that list has arrived in Australia," he said.
"We have been asked by our community what's happening, it's two years since then and still we haven't received many of our families.
"We had many meetings with the Department of Immigration, we had follow-up emails to them seeking more feedback to these applications and unfortunately we haven't had any feedback."
Mr Hodi said his family lives with the stress of the uncertainty of their relatives being stuck in a dangerous place.
"We are suffering because they suffer there," he said.
"The people there are in danger, they're not safe. We hope that the Government [will] help and I hope that the Government will accelerate the process."
'There is no future for the Christians in Iraq'
Mosul, Iraq's largest city and home to a large Christian community, has been regularly under attack by Islamic State militants, who have carried out massacres and destroyed churches, forcing the terrified Christians to flee.
Last week, the United States declared Islamic State's atrocities as genocide.
Fairfield, 30 kilometres south-west of Sydney, is the hub of Australia's Iraqi and Syrian Christian communities.
Many of the community are people who have fled war and discrimination, and a large number of them still have relatives back in the Middle East.
Sabah Hodi, who fled Iraq in 2012, is now trying to get his mother-in-law, sister-in-law and their family to Australia.
"There is no future for the Christians in Iraq, all the Christians are under threat," Mr Hodi said.
"They kill us, persecute us, they take our homes ... everything."
Aiuto alla Chiesa che Soffre ad Erbil. Porterà con sé una lettera e i doni del Papa
Dal 1° al 4 aprile Aiuto alla Chiesa che Soffre sarà ad Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno. Nell’occasione Papa Francesco ha voluto affidare alcuni paramenti sacri e un suo personale contributo finanziario per i cristiani iracheni al vescovo di Carpi, monsignor Francesco Cavina, che farà parte della delegazione, guidata dal direttore di ACS-Italia Alessandro Monteduro, assieme al vescovo di Ventimiglia-San Remo, Monsignor Antonio Suetta, e a Don Massimo Fabbri in rappresentanza dell’Arcidiocesi di Bologna.
«Non appena il Santo Padre ha saputo di questo mio viaggio assieme ad Aiuto alla Chiesa che Soffre – racconta monsignor Cavina - mi ha telefonato esprimendo il desiderio di inviare un dono ai nostri fratelli nella fede iracheni».
Il Pontefice ha inoltre consegnato a monsignor Cavina una lettera in cui loda il viaggio organizzato da ACS, «iniziativa che esprime amicizia, comunione ecclesiale e vicinanza a tanti fratelli e sorelle, la cui situazione di afflizione e di tribolazione mi addolora profondamente e ci invita a difendere il diritto inalienabile di ogni persona a professare liberamente la propria fede».
Il Papa invita a «non dimenticare il dramma della persecuzione», notando come «la testimonianza di fede coraggiosa e paziente di tanti discepoli di Cristo rappresenti per tutta la Chiesa un richiamo a riscoprire la fonte feconda del Mistero Pasquale da cui attingere energia, forza e luce per un umanesimo nuovo».
«La misericordia – prosegue il Santo Padre – ci invita a chinarci su questi nostri fratelli per asciugare le loro lacrime, per curare le loro ferite fisiche e morali, per consolare i loro cuori affranti e forse smarriti. Non si tratta solo di un atto doveroso di carità, ma di un soccorso al proprio stesso corpo, perché tutti i cristiani, in virtù del medesimo battesimo, sono “uno” in Cristo».In Kurdistan la delegazione incontrerà Monsignor Bashar Matti Warda, arcivescovo caldeo di Erbil, con il quale visiterà i centri profughi, nel sobborgo a maggioranza cristiana di Ankawa. Tra questi anche il Villaggio Padre Werenfried, che prende il nome dal fondatore di ACS padre Werenfried van Straaten, un insediamento di 150 case prefabbricate donate da Aiuto alla Chiesa che Soffre in cui vivono 175 famiglie cristiane. La visita proseguirà nelle scuole prefabbricate donate da ACS, che permettono a circa 7mila bambini iracheni di continuare a studiare. Nei giorni seguenti la delegazione incontrerà anche Monsignor Petros Mouche, vescovo siro-cattolico di Mosul, costretto a vivere ad Erbil assieme ai suoi fedeli dopo che la città è stata conquistata dall’Isis.
«Aiuto alla Chiesa che Soffre ha sostenuto fin dal primo momento i cristiani rifugiati nel Kurdistan iracheno – ricorda Alessandro Monteduro, direttore di ACS-Italia – abbiamo donato loro cibo, case e scuole, affinché potessero vivere dignitosamente. Senza mai dimenticare il sostegno alla pastorale, così che i cristiani potessero continuare a vivere pienamente la loro fede. Una fede a cui coraggiosamente non hanno mai voluto rinunciare anche a costo della vita».
Dal giugno 2014 ad oggi ACS ha donato ai cristiani iracheni oltre 15milioni e 100mila euro. Il sostegno ai cristiani iracheni è stato portato avanti anche in questa Quaresima, durante la quale la sezione italiana della fondazione pontificia ha promosso sei diversi progetti per aiutare i 250mila cristiani rimasti in Iraq. Alla campagna hanno aderito, con generose donazioni, anche le diocesi di Carpi e di Ventimiglia-San Remo.
22 marzo 2016
“Genocidio di cristiani”, storia di una dichiarazione
Lo scorso 17 marzo il Segretario di Stato Usa John Kerry ha dichiarato che i cristiani e altre minoranze religiose in Iraq e in Siria sono vittime di un «genocidio». È soltanto la seconda volta che gli Stati Uniti hanno usato questa definizione per una situazione in atto.
Nell’ottobre 2014 il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, rivolgendosi ai capi delle Chiese cattoliche del Medio Oriente riuniti a Roma, aveva detto: «Nel caso specifico delle violazioni e degli abusi commessi dal cosiddetto Stato islamico la Comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite e le strutture che si sono date per simili emergenze, dovrà agire per prevenire possibili e nuovi genocidi e per assistere i numerosi rifugiati».
Nel luglio 2015, parlando ai movimenti popolari nella città boliviana di Santa Cruz de la Sierra, Papa Francesco aveva dichiarato: «Oggi vediamo con orrore come il Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi».
Una risoluzione a proposito del genocidio, proposta dal parlamentare europeo Lars Adaktusson, (Democratici cristiani, Svezia) è stata approvata a larga maggioranza dal Parlamento di Strasburgo, con un consenso trasversale ai partiti.
Nelle scorse settimane i Cavalieri di Colombo hanno redatto un report di 300 pagine per sostenere la richiesta della dichiarazione del Dipartimento di Stato americano. Il documento riporta i nomi di 1.100 cristiani uccisi in Iraq dal 2003, e descrive le violenze e le atrocità commesse più recentemente su altre 1.500 persone per mano dell’Isis in Iraq e in Siria.
Il patriarca siro-cattolico Younan ha scritto: «Voglio affermare e senza alcuna esitazione dichiarare che i cristiani in Medio Oriente sono stati oggetto di genocidio. Non sono stati tutti uccisi, ma rischiano realmente di essere spazzati via dalla loro patria».
L’ex arcivescovo caldeo di Mosul, Amel Nona, ha dichiarato: «Noi chiediamo con forza di riconoscere come un genocidio ciò che ci è accaduto come cristiani dell’Iraq e in particolare di Mosul e della piana di Ninive».
La conferenza episcopale americana, attraverso il suo presidente, l’arcivescovo Joseph Kurtz, ha chiesto ai cattolici Usa di sostenere la petizione dei Cavalieri di Colombo (firmata da 140.000 persone), e ha espresso soddisfazione per la dichiarazione di Kerry.
«L’annuncio del Segretario di Stato John Kerry è giusto e veramente storico - ha commentato lo scorso 17 marzo il Cavaliere Supremo dei Cavalieri di Colombo, Carl Anderson - Gli Stati Uniti e il mondo sono uniti in questo, e non si volteranno a guardare dall’altra parte».Nel 1948, dopo la Shoah, le Nazioni Unite approvano e presentano la Convenzione sulla Prevenzione e la Repressione del Genocidio.
di recente, nel 1998, un gruppo di Stati ha sottoscritto l’istituzione di una Corte Penale Internazionale (CPI).
Secondo la definizione del crimine data dalla Convenzione, il genocidio consiste nell’intento di annientare, in toto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale.
Il concetto di genocidio aveva trovato la sua prima applicazione giuridica nel processo di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti, condannati per «crimini di guerra» (terzo capo d’accusa), tra cui «il genocidio deliberato e sistematico; ovvero lo sterminio di gruppi razziali e nazionali, diretto contro la popolazione civile di alcuni territori occupati, al fine di distruggere determinate razze e categorie di persone, nonché determinati gruppi nazionali, razziali o religiosi, in particolare ebrei, polacchi e zingari».
Nell’ottobre 2014 il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, rivolgendosi ai capi delle Chiese cattoliche del Medio Oriente riuniti a Roma, aveva detto: «Nel caso specifico delle violazioni e degli abusi commessi dal cosiddetto Stato islamico la Comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite e le strutture che si sono date per simili emergenze, dovrà agire per prevenire possibili e nuovi genocidi e per assistere i numerosi rifugiati».
Nel luglio 2015, parlando ai movimenti popolari nella città boliviana di Santa Cruz de la Sierra, Papa Francesco aveva dichiarato: «Oggi vediamo con orrore come il Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi».
Una risoluzione a proposito del genocidio, proposta dal parlamentare europeo Lars Adaktusson, (Democratici cristiani, Svezia) è stata approvata a larga maggioranza dal Parlamento di Strasburgo, con un consenso trasversale ai partiti.
Nelle scorse settimane i Cavalieri di Colombo hanno redatto un report di 300 pagine per sostenere la richiesta della dichiarazione del Dipartimento di Stato americano. Il documento riporta i nomi di 1.100 cristiani uccisi in Iraq dal 2003, e descrive le violenze e le atrocità commesse più recentemente su altre 1.500 persone per mano dell’Isis in Iraq e in Siria.
Il patriarca siro-cattolico Younan ha scritto: «Voglio affermare e senza alcuna esitazione dichiarare che i cristiani in Medio Oriente sono stati oggetto di genocidio. Non sono stati tutti uccisi, ma rischiano realmente di essere spazzati via dalla loro patria».
L’ex arcivescovo caldeo di Mosul, Amel Nona, ha dichiarato: «Noi chiediamo con forza di riconoscere come un genocidio ciò che ci è accaduto come cristiani dell’Iraq e in particolare di Mosul e della piana di Ninive».
La conferenza episcopale americana, attraverso il suo presidente, l’arcivescovo Joseph Kurtz, ha chiesto ai cattolici Usa di sostenere la petizione dei Cavalieri di Colombo (firmata da 140.000 persone), e ha espresso soddisfazione per la dichiarazione di Kerry.
«L’annuncio del Segretario di Stato John Kerry è giusto e veramente storico - ha commentato lo scorso 17 marzo il Cavaliere Supremo dei Cavalieri di Colombo, Carl Anderson - Gli Stati Uniti e il mondo sono uniti in questo, e non si volteranno a guardare dall’altra parte».Nel 1948, dopo la Shoah, le Nazioni Unite approvano e presentano la Convenzione sulla Prevenzione e la Repressione del Genocidio.
di recente, nel 1998, un gruppo di Stati ha sottoscritto l’istituzione di una Corte Penale Internazionale (CPI).
Secondo la definizione del crimine data dalla Convenzione, il genocidio consiste nell’intento di annientare, in toto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale.
Il concetto di genocidio aveva trovato la sua prima applicazione giuridica nel processo di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti, condannati per «crimini di guerra» (terzo capo d’accusa), tra cui «il genocidio deliberato e sistematico; ovvero lo sterminio di gruppi razziali e nazionali, diretto contro la popolazione civile di alcuni territori occupati, al fine di distruggere determinate razze e categorie di persone, nonché determinati gruppi nazionali, razziali o religiosi, in particolare ebrei, polacchi e zingari».