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31 marzo 2016

«I cristiani hanno il coraggio e la forza per lottare contro i terroristi»

By Tempi
Rodolfo Casadei
 
Le persecuzioni e le tragedie hanno avvicinato fra loro le Chiese dell’Iraq, hanno stimolato un ecumenismo di sostanza e non formale, hanno fatto fare esperienza della carità sotto forma di solidarietà e di accoglienza fra comunità di confessione diversa. Ma sul piano politico hanno frammentato e mandato in diaspora il già rimpicciolito universo dei cristiani iracheni. Da un milione e mezzo che erano alla vigilia dell’invasione del Kuwait nel 1990, sono scesi ai 250 mila o poco più attuali. Nel frattempo, il numero dei partiti che rivendicano la loro rappresentanza è salito a 9 (al tempo di Saddam Hussein erano due, semiclandestini).Dopo l’invasione dei loro storici insediamenti nella Piana di Ninive nell’estate del 2014 da parte dell’Isis, sono pure sorte milizie confessionali che ostentano l’obiettivo di liberare i territori occupati dai jihadisti. Non una o due, ma ben quattro: il numero dei cristiani diminuisce vorticosamente, quello dei partiti e delle milizie che rivendicano di agire a loro nome s’impenna. Da sud (Baghdad) a nord (piana di Ninive) si incontrano i Leoni delle Brigate Babilonia, le Ninevah Plain Protection Units (intorno a Kirkuk), le Ninevah Plains Forces (Teleskoff) e i Dwekh Nawsha (Baqofa e Alqosh).
Le gerarchie ecclesiastiche sono molto scettiche riguardo al fenomeno, e il patriarca caldeo Louis Sako appare il più critico di tutti. Recentemente ha emesso un comunicato per precisare che non c’è nessun tipo di rapporto fra la Chiesa caldea e le Brigate Babilonia, che sono in effetti completamente dipendenti dai finanziamenti e dalle forniture di armi di una milizia sciita estremista. Ma si è anche espresso in termini critici sul fenomeno in generale: «Pensare che il nostro trionfo possa dipendere dalla creazione di fazioni armate isolate per combattere a difesa dei nostri diritti potrebbe condurre ad un altro olocausto, come è già successo in passato», ha scritto il patriarca. «L’unica soluzione legittima ed efficace è quella di arruolarsi nelle forze armate regolari, come l’esercito iracheno o quello che fa capo alla Regione autonoma del Kurdistan iracheno».
Matti Yusuf Yacoub è il presidente dell’Unione patriottica della Mesopotamia, uno dei numerosi partiti che si contendono il sempre più ridotto mercato del voto cristiano.
Questa formazione vanta di essere una delle più antiche, di aver lottato contro il regime di Saddam Hussein al prezzo di molti “martiri” e di essere stata la prima a costituire una milizia armata, le Ninevah Defence Forces. Il suo obiettivo è la creazione di un cantone cristiano che si autogovernerebbe e che avrebbe le proprie forze armate nel contesto di un Iraq o di un Kurdistan (se quest’ultimo dovesse diventare uno stato indipendente) federali.
«Dovevamo mostrare a tutti gli iracheni e al mondo – spiega a Tempi – che i cristiani hanno il coraggio e la forza per lottare contro i terroristi. In dicembre a Teleskoff i nostri uomini hanno combattuto coi peshmerga per respingere l’offensiva dell’Isis, e abbiamo avuto il nostro primo caduto. Il nostro partito ha un programma nazionale, fondato su princìpi umanistici, stato di diritto, inviolabilità della persona, federalismo, riconoscimento del valore del diritto internazionale, convivenza pacifica con tutti i popoli; e un programma nazionalista che prevede la creazione di un’entità autonoma all’interno di uno stato federale. Noi vogliamo rappresentare gli interessi dei popoli originari di questa terra: siriaci, assiri, babilonesi, caldei, aramei. Chiunque si riconosca in queste identità fa parte del nostro progetto».Gli facciamo presente che la frammentazione politica e militare della minoranza cristiana suscita ironie e scetticismo. «La difficoltà di unire politicamente i cristiani iracheni dipende dal fatto che gli attuali partiti cristiani sono in realtà succursali dei partiti iracheni maggiori, riflettono dunque le divisioni politiche a livello nazionale. La pluralità delle milizie dipende prevalentemente dal dato geografico: le istituzioni nazionali sono in crisi, e da sud a nord i cristiani devono fare riferimento a chi ha il potere effettivo sul terreno se vogliono organizzarsi militarmente. Per me l’importante è che dopo che ci saremo liberati dell’Isis, tutte queste milizie confluiscano in un’unica forza armata».
Gli effettivi delle cosiddette milizie cristiane sono stimati ottimisticamente a 3 mila, fra loro ci sono anche volontari stranieri (soprattutto americani) e alcuni iracheni che cristiani non sono. La loro efficacia militare è limitata non per mancanza di volontà o di addestramento, ma di mezzi: dei tremila stimati sicuramente meno di un terzo dispone stabilmente di un’arma.
Il fenomeno delle milizie sembra dunque soprattutto una forma alternativa e vicaria dell’azione politica da parte di partiti che altrimenti avrebbero troppo poca visibilità e non saprebbero come competere per la lealtà dei potenziali elettori. «La storia del mondo mostra che tutti i popoli passano attraverso le stesse lotte, finché trovano i loro autentici leader, quelli in cui riporre le loro speranze. Ma non c’è dubbio che i nostri popoli avranno sempre bisogno di forme di protezione da parte della comunità internazionale. Sono popoli che hanno subito genocidi, come anche recentemente il Parlamento europeo e il Congresso americano hanno riconosciuto, e che sono sempre esposti al rischio del genocidio».