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23 marzo 2016

Pasqua di solidarietà: dai profughi di Mosul alle famiglie più povere

 
Una colletta organizzata da un gruppo di cristiani del centro, che ha deciso di “mettere da parte beni di prima necessità e denaro” da devolvere a famiglie cristiane (e musulmane) più povere e bisognose.
E ancora: intere famiglie impegnate nella preparazione di "decorazioni e festoni per ornare e abbellire le chiese".
È una Pasqua all’insegna della festa e della solidarietà quella dei profughi cristiani di Mosul e della piana di Ninive, oggi ospitati nei centri di accoglienza nel Kurdistan irakeno.
Don Paolo Thabit Mekko, 40enne sacerdote caldeo di Mosul, è responsabile del campo profughi “Occhi di Erbil”, alla periferia della capitale. La struttura ospita 140 famiglie, circa 700 persone in tutto, con 46 mini-appartamenti e un’area in cui avviene la raccolta e la distribuzione di aiuti. A questo si aggiungono un asilo nido per i più piccoli, oltre che una scuola materna e una secondaria. 
Nella Settimana Santa la comunità cristiana, vittima di persecuzioni e sofferenze, vuole ricordare a tutti che “c’è ancora vita, c’è ancora speranza” sottolinea don Paolo, il quale non rinuncia a “spronare i fedeli esortandoli a rimanere saldi nella fede. Il loro desiderio più profondo è tornare, un giorno, nelle loro case”. “Guai - aggiunge - a perdere il fervore, smarrire la voglia di festeggiare”. 
Fra le varie iniziative organizzate quest’anno vi è una colletta che ha coinvolto alcune famiglie del centro: “Quanti hanno ricevuto aiuti - racconta il sacerdote - hanno messo da parte denaro e beni di prima necessità da devolvere a famiglie più povere. Non solo cristiane, ma anche musulmane”.  “Speriamo che questa Pasqua - afferma - sia davvero l’ultima in questa condizione di profughi. Noi ci auguriamo di poter tornare nelle nostre case, nei nostri villaggi, e che questa festa sia occasione per ricordare al mondo la nostra disgrazia, il nostro dolore, le nostre sofferenze”.
I profughi cristiani di Mosul e della piana di Ninive si avvicinano alla Pasqua facendo “rivivere le tradizioni e i canti” della festa quando veniva celebrata nei villaggi, prima dell’arrivo delle milizie dello Stato islamico (SI). I fedeli cercano di “recuperare quanto hanno lasciato alle spalle”, nel tentativo di riscoprire “l’appartenenza al luogo d’origine”.
“Rispetto al passato differenze ve ne sono” racconta don Paolo. “Cerimonie e liturgie avevano un carattere peculiare, secondo i costumi dei Padri. Il Venerdì Santo nel mio villaggio si intonava un canto locale” e la comunità partecipava con devozione. Oggi, invece, le famiglie della piana di Ninive sono disperse nei vari centri di accoglienza allestiti a Erbil e nel Kurdistan, altre sono fuggite all’estero in Giordania, Libano, altre ancora in Europa o nel Nord America.
“Qui, oggi, vi è una grande mescolanza fra i profughi - spiega il sacerdote - che provengono da posti diversi e hanno tradizioni diverse. Non è più una festa del villaggio e anche se vivono ad Ankawa [il quartiere cristiano di Erbil] fanno fatica a restare in contatto fra loro. Anche qui si vive una realtà di diaspora”.
Per questo don Paolo ha promosso attività comunitarie che mirano a recuperare le tradizioni dei villaggi nativi. “Con i fedeli di Karemles, dove ero parroco - racconta - per la Domenica delle Palme abbiamo organizzato una piccola processione qui al campo. Certo, non è stata una marcia imponente come ai tempi del villaggio, ma abbiamo comunque intonato i canti tradizionali. Una signora ha disegnato un quadro con la riproduzione della grande collina di santa Barbara, che domina il villaggio. Anche questi sono piccoli segni di appartenenza, il tentativo di mantenere un legame con la terra che hanno dovuto abbandonare”.
Fra le altre iniziative in programma nei prossimi giorni un incontro fra le famiglie del centro di accoglienza per lo scambio di auguri e di doni; e ancora, la distribuzione delle uova di Pasqua da colorare e una celebrazione comunitaria nella piazza del campo. Certo, festeggiamenti diversi da quelli di un tempo, ricorda il sacerdote, quando “si organizzavano veri e propri giochi, si tenevano danze, canti e balli, si sfilava con una solenne processione per le vie del villaggio. Tuttavia, la situazione generale è triste, anche qui in Kurdistan vi sono difficoltà e per questo non ce la sentiamo di promuovere manifestazioni gigantesche”.