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30 gennaio 2016

In fuga da Daesh: viaggio tra i rifugiati iracheni in Giordania

By Arab Press
Maddalena Goi

 
La Giordania è uno dei tanti paesi a subire le dirette e drammatiche conseguenze create dai conflitti e dalle persecuzioni mondiali. La posizione geografica del regno, al confine con Iraq e Siria da una parte e i Territori Palestinesi dall’altra, la rende particolarmente sensibile agli influssi di un alto numero di rifugiati e richiedenti asilo. Tuttavia, il paese è molto povero di risorse naturali: le sue risorse idriche sono tra le più scarse al mondo e la sua struttura produttiva è poco diversificata. Questi fattori incidono in maniera significativa sulle sue capacità di accoglienza.
Le più alte concentrazioni di rifugiati si ritrovano alloggiate nelle grandi città come Amman, Irbid, Mafraq e Zarqa, mentre solo il 25% vive nei campi profughi.
La Giordania, prima fra tutti, è stata il santuario di salvezza dei rifugiati palestinesi scappati dalle loro terre in seguito alla nascita dello stato di Israele nel 1948. Ma i profughi più numerosi sono i siriani giunti sin dall’inizio della guerra civile. Secondo le stime realizzate dal governo, attualmente, sono un milione e 400mila i siriani accolti nel regno di cui solo 635.324 registrati all’ONU. Circa il 20% di questi ultimi vive nei campi profughi di Azraq e Zaatari, il resto risiede nei centri urbani. Su appena 6milioni e mezzo di abitanti giordani, i rifugiati siriani costituiscono il 21% della popolazione giordana totale.
I profughi iracheni hanno invece iniziato a giungere nel regno a partire dal 2003, a seguito dell’ultima Guerra del Golfo in cui almeno due milioni di iracheni hanno abbandonato il loro paese. L’esodo iracheno continua ancora oggi con la migrazione forzata di molti per fuggire all’offensiva del sedicente Stato Islamico. Si tratta per lo più delle comunità cristiane siriache oggi perseguitate da Daesh (ISIS). Secondo le stime dell’UNHCR i rifugiati iracheni attualmente registrati in Giordania sarebbero almeno 58mila, mentre gli iracheni cristiani sono 8.500.
A partire dall’agosto 2014, quindici diverse chiese hanno aperto le loro porte in tutta la Giordania per accogliere i profughi iracheni. Molti di questi sono sostenuti e aiutati dalla Caritas giordana di Amman che si occupa di fornire loro i servizi fondamentali fra cui cibo su base regolare, cure mediche e assistenza umanitaria. La maggior parte dei rifugiati proviene dalle città di Mosul e Qaraqosh e, dopo più di un anno, la situazione per loro è rimasta pressoché immutata: molti, infatti, vivono ancora all’interno di queste residenze provvisorie.
Grazie all’aiuto della Caritas giordana è stato possibile visitare tre di queste strutture di accoglienza dedicate ai profughi cristiani iracheni e queste sono le storie raccolte.
(Le foto e le interviste risalgono al periodo di giugno 2015 e sono state realizzate in collaborazione con Telepace Holyland TV, un’emittente italiana attiva in modo stabile in Terra Santa sin dal 2004).

Per rispetto della privacy i nomi sono inventati.
“Mi chiamo Nivin, da Mosul, sono sposata con due bambini. Siamo stati costretti a lasciare Homs a causa di Daesh, siamo fuggiti solo con i nostri vestiti addosso, non potevamo tornare alle nostre case per prendere qualcosa… Siamo fuggiti verso il Kurdistan, ad Erbil e siamo stati lì per qualche giorno poi siamo riusciti ad ottenere un visto e venire in Giordania grazie all’aiuto di un prete. Siamo in dieci persone, due famiglie in una sola stanza. Quando siamo giunti qui credevamo che l’UNHCR ci avrebbe mandato a vivere in un altro paese, non credevamo che saremmo rimasti qui così tanto tempo, è quasi un anno ormai. Quando abbiamo chiamato l’UNHCR per chiedere informazioni, ci hanno detto di aspettare e che ci avrebbero chiamati loro. Ma siamo qui da un anno senza ricevere nessuna comunicazione. Ora mia sorella soffre di cuore e di crisi di panico per quello che ha passato a causa di Daesh. Chiediamo di essere aiutati. Non possiamo tornare in Iraq. È impossibile. Abbiamo perso tutto, le nostre case, la nostra sicurezza, le nostre proprietà… ci hanno preso tutto. Tutti sono scappati. Quelli che sono rimasti a Mosul sono stati costretti o a convertirsi o a pagare la jizya, altrimenti vengono uccisi. Gli altri cristiani sono fuggiti.”

Sono Raid. Mosul è caduta il 10 giugno, dopo sono caduti anche altri territori come Sinjar dove ci sono cristiani e yazidi. Gli uomini di Daesh li hanno uccisi e derubati. Le ragazze invece sono state rapite e violentate, la maggior parte di loro sono giovani tra i 12 e i 25 anni. Centinaia sono finite così e le hanno vendute a Raqqa, in Siria, e a Mosul a prezzi irrisori: 500$ ognuna. Abbiamo lasciato tutto per preservare la nostra anima e la nostra fede. Siamo partiti solo con i vestiti addosso, non abbiamo preso nient’altro. Abbiamo impiegato 15 ore per giungere a Ein Qawa perché c’erano tantissime persone in fuga. Anche la città di Ein Qawa era piena di gente. Siamo rimasti per tanti giorni a dormire sui marciapiedi, per strada o nei giardini.”
Il cristianesimo in Iraq risale a quasi 2000 anni fa. Mosul e le città circostanti sulla piana di Ninive rappresentano il cuore della religione cristiana ma oggi, i cristiani come del resto altre minoranze, non sono altro che una popolazione in fuga.

“Mi chiamo Rita e vengo da Qaraqosh. Siamo scappati dal nostro paese senza nulla, viviamo ora dentro dei caravan. Durante l’inverno siamo morti di freddo, durante l’estate si muore di caldo. Fino a quando dovremo rimanere in queste condizioni? Forse voi potete aiutarci ad uscirne. Io non riesco a camminare, dovrei comprare delle medicine, ognuna costa 400 dinari giordani e avrei bisogno di due confezioni per ciascuna gamba. I nostri figli sono rimasti in Iraq, senza passaporto e senza soldi, e qui non possono venire. Fino a quando rimarremo così? I bambini non possono andare a scuola, non hanno niente da fare, tutti i giorni senza scuola. Dormiamo in 5/6 in un caravan. Non c’è il posto né di entrare né di muoversi. In Iraq abbiamo perso tutto. La comunità cristiana (60mila cristiani siro-cattolici) è in Iraq da lunghissimo tempo. Abbiamo 10 chiese a Qaraqosh ma non ci sono chiese simili nel mondo. E ora tutte le nostre chiese sono state distrutte, tutte. Il nostro cuore si infiamma per le nostre chiese. Ma la cosa che più mi fa male è che hanno distrutto le croci e le icone della Vergine Maria. Tutti sono in lacrime. Non possiamo parlare delle nostre chiese senza che il cuore dentro ci bruci ogni volta
.”
Vivere da profughi non è semplice, le giornate trascorrono nella trepidazione dell’attesa per una chiamata che li trasferisca altrove. I bambini che sono rimasti privati dei loro spazi, della loro istruzione e dei loro affetti nel giro di pochissime ore, non hanno accesso all’istruzione e spesso manifestano il senso del disadattamento e della fuga comportandosi in maniera aggressiva. I profughi godono di uno status temporaneo nel paese, non sono considerati cittadini giordani quindi non sono autorizzati a lavorare né a percepire un salario.

“Siamo una famiglia con due bambine e veniamo da Mosul. Qui non facciamo niente tutto il giorno ma è molto difficile vivere così, ci sono tante famiglie. Vogliamo mandare a scuola i nostri bambini, qui da noi la vita si è fermata, è sospesa. Noi eravamo abituati a lavorare ogni giorno, perché quando lavori nutri la tua personalità, ma qui non c’è lavoro. Ringraziamo le persone che ci hanno accolto, ma chiediamo agli Stati di aiutarci perché riusciamo andare all’estero per ricominciare a vivere e ricreare noi stessi. Non abbiamo un futuro. Siamo usciti da una casa per andare a vivere in una stanza usata come camera, come mensa… Anche la nostra anima è stanca. Non possiamo rimanere così. Abbiamo notizie che ci giungono dall’Iraq e ci comunicano che la situazione è sempre peggio e non pensiamo mai di ritornarci. Ho chiamato un amico di Mosul che ci ha detto che la mia casa ora è abitata da quelli di Daesh, vivono nelle nostre case. Siamo arrivati qui solo coi vestiti addosso. Una migrazione di persone fuggita in queste condizioni, in pochissimo tempo. È impossibile per i cristiani avere un futuro. Ci hanno cacciati dal nostro paese dopo tanti anni. Tutti i nostri sogni sono svaniti e abbiamo perso le nostre case. Le chiese sono esplose così come i resti dell’antichità. Come possiamo tornare? Il bambino che vede la violenza davanti ai suoi occhi che futuro può avere? Il cristianesimo non deve sparire dal Medio Oriente, ma se noi torniamo ci uccidono. Perché non posso andare in un paese che mi rispetta?

Vengo da Qaraqosh e ho 25 anni. Qui non facciamo nulla, pensiamo tutto il giorno. Andiamo in chiesa, stiamo qui, niente… Non c’è nient’altro che possiamo fare. Siamo qui da 10 mesi ed è sempre la stessa situazione, non abbiamo niente da fare. In Iraq andavo all’università di meccanica.  Mi mancavano solo tre esami per finire e per prendere la mia laurea ma non ho potuto fare questi esami perché sono fuggito e ho interrotto gli studi. Non ho nessun progetto per il futuro, voglio solo vivere in una situazione di sicurezza.”
Le minoranze in Medio Oriente continuano ad essere minacciate e perseguitate. Non solo cristiani ma anche yazidi e tutti coloro che rendono “impuro” il califfato, siano essi minoranze religiose o etniche. La Giordania, in questo delicato contesto, rimane un’importante valvola di sfogo per i rifugiati provenienti dai confini limitrofi ed è la diretta testimone del peggioramento della crisi umanitaria dovuta ai conflitti in corso. Ma la monarchia hashemita non solo funge da rifugio per l’alto afflusso di profughi che, altrimenti, si riverserebbero in maniera ancora più evidente e drammatica sulle coste europee, ma la stabilità politica di cui gode la regione la rende un baluardo fondamentale contro il disordine regionale.

The Fourth Anniversary of my Election as Patriarch of Babylon for the Chaldeans (The complete text)

By Chaldean Patriarchate
Louis Raphael I Sako
 
I
Photo by Chaldean Patriarchate
I thank God for everything; for the accelerated painful incidents that took place in the past three years, determining the fate of our people; for all their consequences; difficulties and challenges we faced; for the agony that came along with it. However, these struggles did not kill us since it did not take away our hope, which we are sure it will realized. I would like also to thank all those who encouraged me to go on with determination and potency, especially my two dear auxiliary bishops as well as other bishops, Priests, Nuns and friends inside and outside the country.
 As you know, the Church has named this year as a “Year of Mercy” and I have to be the first one to live and practice mercy. Therefore, I forgive sincerely all those who criticized me and tried to stop our progress to proceed; and I would like to take this occasion to ask everyone who felt that I hurt him/her to accept my apology, although there should be no confusion between administration and personal relationships.
 I utterly realize that my cross is heavy, but I have to carry it with faith, confidence and happiness to serve my Chaldean Church, all Christians in Iraq, and my country as a whole. With the help of those who have the good will, I promise to do my best in; protecting our identity and our presence in this land; rejecting all forms of injustice; supporting peace; promoting the dialogue and coexistence language. I promise also to carry this burden on my weak shoulders, asking God for strength and to enlighten my way, so I can keep giving and scarifying in order to achieve the spirit of my motto in “Authenticity, Unity, and Renewal”.

The list below shows some of our achievements during the past three years:
 1. Adoption of the Synod’s decision in ordaining six Bishops based on their spiritual depth, leadership, open-minded education, and clear vision (so, to have the right person at the right place). I thank God for that.
 2. Reformation the liturgy of serving the Chaldean Mass, Baptism, Wedding etc. so as to maintain its’ Eastern originality that suits the mentality and education of today’s believers, which will help them to live their liturgy on daily basis. Besides, the current circumstances are appropriate for such changes in order to get rid of all strange traditions that are not in line with what the Bible teaches and with our reality (as recommended by Pope Francis in 22 January 2016). The Chaldean Church and other churches worked together to help the displaced families and to relief them.
 3. Activation of the laws to achieve justice among members of Clergy as much as we could, stressing on spirituality, willingness to serve, and unity inside the church to work with each other as one apostolic team . Also thanks to Finance Committee that seized the accounts from corruption.
 4. Enhancement and strengthening of the role-played by the Patriarchate in Iraq, as we believe that the future of our church is on its’ land, without neglecting our churches abroad.
 I am not claiming the ability to do miracles, because God only is capable to do that, and it is not important for me to harvest the fruit of my effort, but is essential that everything is anchored on a solid humanitarian and evangelical base. I believe that the truth will be revealed one day and will emancipate, in spite of all criticism. This situation reminds me of a famous saying state that (a person whose hand is in fire is not like the one whose hand is in water).
 It hurts me to see our beloved country has been torn apart with thousands of wounded and murdered innocent people, millions of displaced and the horrific demolition everywhere. It is time to renew our commitment to the land and to each other as members of the ONE Iraqi family, in spite of our differences. I trust that the existence of enlightened people together with the country’s intellectual and economical wealth will help to rebuild Iraq and enjoy a secure and peaceful life for years to come.
 It is painful that Christians are scattered and dispersed in such “rigid” national and inactive parties, as small apostolic churches that has the name but ineffectual and whose people are trapped by Evangelical incomers. However, I believe that the day will come when they become mature enough to unite in one shining and witness Church, because Christians have no other choice but to build on the ancient history and ennobled mission of the church. As we all know, unity is a special spiritual, humanitarian, social, and political power. Unity also enhances the bonds between us without marginalizing others. As Christians, we are responsible ethically about what is happening to our targeted and overwhelmed people. I hope that this seriousness and bitterness of the reality will push us to unite.
 Displacement and brain drain worries me as it threatens our heritage, language, tradition and our historical existence in this land, which is ours. Therefore, we need an actual support from our brothers and sisters abroad and from the international society to contribute urgently in the process of rescuing our region to help displaced families returning to their homes. We need actions not speeches and promises.
 To overcome this heavy historical burden, and to leave this past behind, we need prayers, big hearts, modesty, and the ability to read, think and analyze “the signs of the times”. We need to respect the other who is different without having decisions and orders, and to be capable to live with our differences. The most important thing is to be with God’s word, live it at home and work. This kind of integration will make the diversity of our ethnical groups and churches a ladder for our unity, knowing that unity is a dream of every Christian, a hope of the church and Jesus’ commandment.
 Finally and based on my experience, fateful indicators, I renew my appeal of 16 January 2016 to form a “Unified Christian Ecumenical Gathering” to act as a political reference for Christians, to deliver a true image of the current situation and to submit a master plan with a practical mechanism for implementation. This Gathering may compete in the upcoming election with a single list of candidates who have the efficiency and courage to serve in a way that the Christians can play their national role in this country and in decision-making. It is an excellent opportunity for us especially that we are living today in an unprecedented situation that threatens our presence. As soon as possible, I will invite Christian Politicians and religious authorities to discuss the project.
 I would like also to call my Chaldean sons and daughters to join the Chaldean League and provide the “Chaldean Home” at this crucial stage, which will ultimately contribute to consolidating our steps toward unity.
 The Lent is at hand, I take this occasion to call on everyone to fasting and prayer as much as possible until the end of our sufferings - our Passover overflowing to the resurrection of life, peace and blessing.
Thank you for your prayers

Mar Sako, tre anni da patriarca: unità e servizio per il futuro della Chiesa in Iraq

By Asia News

 L’ordinazione di sei nuovi vescovi; la riforma della liturgia della messa caldea, del battesimo, dei matrimoni, per “mantenere la peculiarità e l’originalità orientale” e “sbarazzarsi delle strane tradizioni” che “non sono in linea con ciò che insegna la Bibbia”; nuove leggi per “raggiungere la giustizia” fra i membri del clero, rafforzando il lavoro spirituale, il desiderio di servire, l’obiettivo di unità; rafforzare il ruolo del patriarcato in Iraq, perché “il futuro della nostra Chiesa è qui, nella nostra terra”. Sono questi gli obiettivi principali raggiunti dalla Chiesa irakena in questi tre anni, dalla elezione a Patriarca caldeo, il 31 gennaio 2013, di Mar Louis Raphael I Sako e che sua beatitudine ha illustrato in una lettera pastorale diffusa in queste ore.

Nato il 4 luglio del 1948 a Zakho, nel nord dell'Iraq, è stato ordinato sacerdote il 1 giugno del 1974. Da arcivescovo di Kirkuk, egli ha più volte denunciato l'esodo dei cristiani dal Paese - la popolazione è pressoché dimezzata negli ultimi anni - e lanciato appelli ai vertici della Chiesa e della politica locale, oltre che alla comunità internazionale, per garantire loro un futuro. Nel 2008 ha ricevuto il premio Defensor Fidei e, due anni più tardi, il riconoscimento internazionale Pax Christi.
Nel testo, inviato ad AsiaNews, il patriarca di Babilonia dei Caldei e presidente della Conferenza episcopale irakena vuole “ringraziare Dio per tutti”, per “le difficoltà e le sfide che abbiamo affrontato” e per “l’agonia che è derivata”; tutte queste sofferenze, aggiunge, “non sono però riuscite ad annientarci” e “non hanno spazzato via la nostra speranza”.
Nella lettera pastorale mar Sako ricorda che, quest’anno, la Chiesa universale celebra l’Anno giubilare della misericordia e, per questo, “io stesso sono il primo a dover vivere e praticare la misericordia”. Il patriarca caldeo vuole “approfittare di questa occasione per chiedere a quanti sono stati feriti e offesi di accettare le mie più sincere scuse”, anche se invita a non fare confusione “fra amministrazione pastorale e relazioni personali”. Il riferimento è ai contrasti, in parte rientrati, con parte del clero caldeo della diaspora, in particolare una diocesi negli Stati Uniti.
“La mia croce è pesante, ma voglio portarla con fede, fiducia e felicità - aggiunge il primate - per servire la mia Chiesa caldea, tutti i cristiani in Iraq e il mio Paese per intero”. Con il contributo delle persone di buona volontà, aggiunge, “prometto di fare del mio meglio per proteggere la nostra identità […] sostenendo la pace, promuovendo un linguaggio di dialogo e coesistenza reciproca”.
Mar Sako auspica che l’opera per la Chiesa e i fedeli sia ancorata a una solida “base umana ed evangelica”, anche se “fa male vedere il mio amato Paese fatto a pezzi, con migliaia di persone innocenti ferite o uccise, milioni di sfollati e terribili demolizioni ovunque”. Per questo è giunto il momento di “rinnovare il nostro impegno verso la nostra terra e verso il prossimo, in qualità di membri di un’unica famiglia irakena”, a dispetto delle differenze.
Infine, il patriarca Sako torna sulle divisioni - soprattutto politiche - che affliggono i cristiani, che ne vanificano gli sforzi, “L’unità è un potere speciale - ricorda - a livello spirituale, umano, sociale e politico”. Vi è bisogno di azione, non “di discorsi e di vane promesse” che deve concretizzarsi nela nascita di un movimento cristiano unificato che agisca in qualità di referente politico, già a partire dalle prossime elezioni. L’ultimo richiamo è al digiuno e alla preghiera “per il periodo di Quaresima”.

Patriarcato caldeo:
The Fourth Anniversary of my Election as Patriarch of Babylon for the Chaldeans

28 gennaio 2016

Patriarca Younan: per i cristiani l'Iraq e la Siria non devono diventare come la Turchia

By  Aiuto alla Chiesa che Soffre

«Il nostro incubo, la nostra più grande angoscia è che in Iraq e in Siria possa accadere quanto avvenuto in Turchia, dove non possiamo quasi più parlare di una presenza cristiana».

Esprime tutta la sua preoccupazione il Patriarca siro-cattolico Ignace Youssif III Younan, durante la conferenza stampa organizzata questa mattina da Aiuto alla Chiesa che Soffre presso l’Associazione stampa estera.
Il prelato siriaco denuncia il dramma dei tanti siriani che oggi muoiono per mancanza di cibo e assistenza medica, notando come «il popolo paghi il prezzo più alto del conflitto».Il Patriarca ricorda quanti cristiani abbiano già lasciato la Siria e l’Iraq e parla con emozione di Qaraqosh, l’enclave cristiana della Piana di Ninive oggi in mano allo Stato Islamico, fino al 2014 abitata principalmente da siro-cattolici.
«Anche in Siria il numero di cristiani è diminuito drasticamente. Negli anni ’50 eravamo circa il 19% ed ora appena il 5%. Molti hanno già lasciato il paese e tanti altri continuano a partire rischiando la morte in mare».
A proposito delle tante tragedie avvenute nel Mar Mediterraneo, il Patriarca Younan ha auspicato la realizzazione di corridoi umanitari e denunciato una cattiva gestione del fenomeno migratorio.
«Molti dei profughi siriani erano in Turchia già da tre anni, si doveva programmare meglio la loro emigrazione. Non si deve abbandonare questa gente, servono nuove e più giuste soluzioni».
Il prelato esprime profonda gratitudine per tutte le realtà caritative occidentali «che come Aiuto alla Chiesa che Soffre hanno sostenuto e sostengono il nostro popolo. Invito tutti a continuare ad aiutarci attraverso queste istituzioni». Tuttavia il Patriarca Younan accusa i paesi occidentali di aver anteposto i propri interessi geopolitici alla sorte dei cristiani mediorientali. «Ormai anche nei media non si parla quasi più di noi – ha affermato – e mi ferisce profondamente l’indifferenza per la sorte di tanti innocenti».Interrogato su quale possa essere una possibile soluzione militare, il Patriarca siro-cattolico ha risposto che «i bombardamenti aerei per mezzo di droni non sono sufficienti. Se davvero si vuole distruggere Daesh serve un’azione di terra coordinata con gli eserciti nazionali di Siria e Iraq». Il Patriarca preferisce utilizzare l’acronimo arabo con cui è noto lo Stato Islamico e rifiuta espressamente di utilizzare il nome Isis. «È un nome che ricorda un fiore delicato e non può essere usato per dei barbari che uccidono, violentano, schiavizzano e rapiscono donne e bambini». Il prelato ha inoltre notato come l’intervento della Federazione Russa abbia avuto effetti positivi sulle condizioni della popolazione.Younan si rivolge quindi alla comunità islamica e in particolar modo ai leader religiosi musulmani, affinché giunga una chiara ed inequivocabile condanna dei crimini compiuti dagli uomini del Califfato. «Non possono limitarsi a dire che è peccato uccidere i loro fratelli musulmani. Devono condannare anche chi uccide i cristiani e gli appartenenti alle altre minoranze religiose in nome dell’Islam. Ma purtroppo nessuno si è ancora espresso chiaramente in tal senso».
Dall’inizio della crisi in Siria nel marzo del 2011, Aiuto alla Chiesa che Soffre ha realizzato progetti a sostegno della popolazione siriana per un totale di oltre 10milioni e 380mila euro. Di questi, 6milioni e 200mila euro (circa il 60% del totale) sono stati donati nel solo 2015, con particolare attenzione alle città maggiormente colpite dalla guerra, come Homs, Aleppo e Damasco.

27 gennaio 2016

Aiuto alla Chiesa che Soffre ospita il patriarca siro-cattolico Ignace Youssif III Younan

By Aiuto alla Chiesa che Soffre

Domani 28 gennaio alle ore 11.00 Aiuto alla Chiesa che soffre, in collaborazione con l’Associazione Stampa Estera, ospiterà la testimonianza del patriarca siro-cattolico, Ignace Youssif III Younan, nel corso di una conferenza stampa dal titolo: «Cristiani di Siria: tra guerra, fame, persecuzione e l’indifferenza dell’Occidente».
Dall’inizio della crisi in Siria nel marzo del 2011, ACS ha realizzato progetti a sostegno della popolazione siriana per un totale di oltre 10milioni e 380mila euro. Di questi, 6milioni e 200mila euro (circa il 60% del totale) sono stati donati nel solo 2015, con particolare attenzione alle città maggiormente colpite dalla guerra, come Homs, Aleppo e Damasco.Tra i numerosi progetti, moltissimi sono di natura umanitaria – viveri e beni di prima necessità – senza tuttavia tralasciare il sostegno alla pastorale della Chiesa siriana, che in diverse aree del paese rappresenta l’unico punto di riferimento non soltanto dei cristiani, bensì dell’intera popolazione.Il Patriarca Younan ha più volte richiamato l’attenzione della comunità internazionale sulle drammatiche condizioni in cui vivono i suoi fedeli. «Quello che accade ai cristiani in Siria è sicuramente un genocidio. Chiediamo ai nostri fratelli in Occidente dell’Europa, specialmente ai cattolici, ai veri cattolici, di pensare ai loro fratelli e sorelle del Medio Oriente che stanno sopportando queste persecuzioni», ha dichiarato recentemente il prelato siriano.La conferenza stampa avrà luogo alle ore 11 presso l’Associazione Stampa estera, in via dell’Umiltà 83/C a Roma.Ai saluti iniziali del direttore di ACS-Italia, Alessandro Monteduro, e del presidente dell’associazione stampa estera, Tobias Piller, seguiranno l’intervento del Patriarca Ignace Youssif III Younan ed il dibattito moderato dalla portavoce di ACS-Italia, Marta Petrosillo. Concluderà l’incontro l’intervento del presidente di ACS-Italia, Alfredo Mantovano.

Iraqi Christians in Czech Republic amid EU tensions over refugees

 
Officials say the first of a total of more 153 Iraqi Christians who have been offered asylum in the Czech Republic have arrived in the capital Prague, after neighboring Slovakia also agreed to host Christians. It comes amid by European Union concerns however that it is being is overwhelmed by migrants fleeing war and poverty, most of them Muslims.The Czech government says it approved the Iraqi Christians request for help because they were threatened by the aggression of Islamic State group militants.
Ten of the 153 Christians granted asylum already landed at Prague's international airport Sunday and were to be taken to a hotel near the central city of Jihlava, where they will spend several months.
They originally used to live near Mosul in Iraq.
In December last year neighboring Slovakia agreed to grant asylum to a group of 149 Christians who live in the same troubled region and face extremism there.
American transport
They have been transported by a fund linked to American television and radio personality Glenn Beck who spoke about the operation to safe Christians who he said had been targeted by the so-called Islamic State group.   
"We are taking to bring Iraqi Christians out of the Middle East with something called the Nazarene Fund," he said.
"We have raised about 12 million dollars to do it. Our vetting is by far superior to that of the United States, the United Nations or the European Union. And we are thrilled that they are safe and they are actually going to a Mass to celebrate the blessings that Christ has given them."     
Yet the arrival of Christians in Slovakia and the Czech Republic comes amid mounting tensions between the European Union and several Eastern European countries over a plan to divide as many as 160,000 refugees among member states.
Slovakia and Hungary, both predominantly Roman Catholic countries have even launched legal challenges against the plan.
Catholic support
However a Hungarian Catholic diocese said recently it had offered to take in 1,000 Christian refugees from Syria, but also added that the targeted group had never managed to reach the EU's passport free Schengen border. 
Amid these difficulties, the European Commission says it wants the European Union's Frontex border control organization to help Macedonia screen refugees trying to reach the EU.
German weekly newspaper Bild am Sonntag said the Commission, the EU's executive, supports a proposal of the Slovenian Prime Minister Miro Cerar for strengthening surveillance and that it would be the first time that Frontex goes to work in a country that is not an EU member.
Yet there isn't much time left: Austrian Interior Minister Johanna Mikl-Leitner warned Sunday that the country's newly introduced cap on the number of refugees allowed into the country will likely be reached within a few months.
Key nation
Austria is a key country for refugees as it borders the notorious Balkans route. 
Mikl-Leitner told Germany's Welt am Sonntag that the maximum number of 37,500 refugees would probably be reached before the summer.
The Austrian minister warned that once the cap had been reached the country would either refuse to accept further asylum application or reject refugees on the border.
More than 1 million people from countries like Syria, Iraq or Afghanistan entered Europe last year in what has been called the biggest migration to the continent since World War II.

venerdì, gennaio 22, 2016
Attesi domenica nella Repubblica Ceca i primi 30 dei 153 profughi cristiani iracheni che vi troveranno rifugio

venerdì, dicembre 11, 2015
149 profughi cristiani iracheni arrivati in Slovacchia

22 gennaio 2016

Da Mosul ad Amman per sfuggire a Daesh. La lenta agonia dei cristiani iracheni

By SIR
Daniele Rocchi
 
Nei racconti dei rifugiati iracheni di Mosul si ritrova la disperazione di aver perso tutto e la paura per un futuro che non promette nulla di buono. Oggi l'unica ricchezza è la fede che dona speranza. Speranza anche di avere presto un visto per gli Usa, Canada e Australia. "In Iraq - dicono in coro - non c'è più posto per i cristiani". L'impegno di assistenza di Caritas Giordania e delle parrocchie locali. Una gara di solidarietà che non si ferma. Oggi tutti gli 8.500 cristiani iracheni e le poche centinaia di siriani alloggiano in centri e appartamenti ad affitto agevolato trovati per loro dalla Caritas e dalla Chiesa locale.
 
Non aveva ancora compiuto 18 anni Naeel, quando le milizie nere del Califfato sono entrate, senza sparare nemmeno un colpo di kalashnikov, nel giugno del 2014 a Mosul. La sua vita, dice, e quella della sua famiglia si è fermata in quel momento. Di fede siro ortodossa, Naeel è fuggito lasciandosi dietro i suoi sogni di giovane di belle speranze, studente in procinto di iscriversi all’università, magari seguire le orme paterne, ingegnere meccanico, sposarsi, avere una famiglia, vivere nella sua città natale. Sogni e speranze condivisi con tantissimi altri giovani, come lui costretti a fuggire dal Califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Dall’estate del 2014 Naeel, con suo padre e il resto della famiglia, in tutto 5 persone, vivono nel Centro “Nostra Signora della Pace” di Amman, gestito dalla Caritas Giordania, che opera in seno al Patriarcato Latino di Gerusalemme e che complessivamente assiste circa 8500 cristiani iracheni in tutto il regno Hashemita. Naeel passa le sue giornate facendo qualche lavoretto per il Centro, ma nulla di stabile, studiando un po’. Ma le giornate sono lunghe, soprattutto per un giovane di appena 18 anni con tanta voglia di fare.
“Nel Califfato non c’è spazio per i cristiani, per le minoranze. Non potevamo restare in città. La scelta era tra convertirsi all’Islam, pagare la tassa di protezione o essere uccisi. Non abbiamo rinunciato alla nostra fede e siamo fuggiti con quel poco che siamo riusciti a portare via”.
Della sua casa, di ciò che era la sua vita prima dell’Isis non sa più nulla. “Tramite internet riesco a contattare qualche amico musulmano rimasto a Mosul. Mi dicono che sono stati costretti a seguire le regole imposte da Daesh (acronimo arabo per Stato Islamico n.d.r.) farsi crescere la barba, indossare abiti come tuniche. Dicono che la loro vita  è cambiata. Qualcuno vorrebbe fuggire ma non è possibile, il rischio è troppo grande”.
Naeel è in attesa di un visto per lasciare la Giordania, “gli Usa, l’Australia sono le mete privilegiate”, salvo poi ammettere che “qualunque Paese dove ci sia sicurezza e stabilità andrebbe bene”. Non certo l’Iraq, la sua terra. Quella pare essere stata cancellata quel giorno di giugno di un anno e mezzo fa. “Oggi non c’è più posto per i cristiani in Iraq. Ritornare a Mosul non è possibile. È accaduto altre volte di fuggire, dopo il 2003, con lo scoppio di scontri settari e la presenza di milizie di Al Qaeda. Siamo sempre tornati. Ma stavolta è finita davvero”.
E poco importa se “la comunità internazionale si è mossa tardi, se l’esercito iracheno si è sfaldato e ora ha ricominciato a combattere come si è visto con la riconquista di Ramadi”. Per Naeel e la sua famiglia, come per decine di migliaia di altri cristiani, il tempo è scaduto. Ora è in Giordania.
Speranza in un visto.

Nel centro lavorano anche Yousif, Yaqoob, caldei, e Kamel, siro ortodosso. I primi due vengono da piccoli villaggi della Piana di Ninive, Kamel da Mosul. Tutti sposati con figli piccoli. Non vivono al Centro poiché dalla Caritas hanno ricevuto in affitto agevolato un piccolo appartamento ad Amman e vengono al “Nostra Signora della Pace” per lavorare. In Iraq erano carpentieri e hanno deciso di continuare la loro professione in Giordania. Nel Centro hanno avuto la possibilità di mettere su una piccola falegnameria e da diversi mesi producono cassette per bottiglie di vino pregiato, compostiere in legno, oggetti artigianali che poi vendono.
“Siamo fuggiti perché Daesh uccide i cristiani” spiegano i tre portando la mano sulla gola per mimare il gesto dello sgozzamento. “Abbiamo figli piccoli, che futuro avrebbero avuto in Iraq? Nessuno. Qui non siamo a casa nostra ma viviamo sicuri. I nostri figli possono studiare e la Caritas ci aiuta in tutto. Vorremmo poter lavorare di più, ma andiamo avanti”.  Anche per loro la speranza è quella di un visto, “in Nord Europa dove abbiamo qualche parente già emigrato”.
In Usa vorrebbe andare Amina, 75 anni di Mosul. Nella fuga dalla città ha perduto quattro familiari, tutti uccisi. Con il marito è in fila per prendere il suo pacco. Una stufa alogena, delle coperte e un po’ di generi alimentari. “La mia città è solo un ricordo – dice con rassegnazione – mi è rimasta solo una figlia che vive negli Usa dove è andata prima che scoppiasse la tragedia del Daesh. Sono cristiana ortodossa e mi avrebbero uccisa se non mi fossi convertita all’Islam. Ma io non rinuncio alla mia fede e sono scappata” conclude sorridendo.
Le famiglie irachene continuano ad arrivare: dal vicariato caldeo di Amman stimano che nell’ultimo mese siano arrivate dai campi di accoglienza di Erbil (Kurdistan iracheno) almeno 50 famiglie. Anche per loro stessa procedura: richiesta di visto per Usa, Canada o Australia dove vivono nutrite comunità caldee e un lungo tempo di attesa – senza poter  fare nulla – per ottenerlo. Si passa il tempo sperando in una chiamata.
I giochi dei bambini.
Mentre gli adulti prendono i loro pacchi, il grande piazzale del Centro si riempie di bambini. Hanno ricevuto una busta con un giocattolo. Tuttavia sembrano preferire un vecchio pallone. Lo rincorrono vocianti tutti insieme, anche le bambine. Non ci sono squadre a contrapporsi. Spunta un volontario della Caritas a richiamarli. Bashar, il volontario, racconta che quasi tutti i bambini sono qui da almeno un anno, qualcuno anche di più. “Sono spensierati, almeno in apparenza, anche se ci chiedono quando potranno tornare ai loro giochi e alle loro case in Iraq. Difficile rispondergli”. Il volontario rimette in gioco il pallone e i bambini tornano a giocare. Spensierati, senza sapere fino a quando

Firenze, la testimonianza di don Imad: «In Iraq i cristiani rischiano di scomparire»

 
Nei Paesi occidentali non è possibile comprendere tutto quello che sta accadendo nel mondo e in particolare in alcune aree del globo. I mass media trasmettono informazioni parziali, insufficienti o non corrispondenti alla realtà su Iraq e Siria. I cristiani iracheni e siriani vivono profondamente il Vangelo ma spesso la pratica e la professione di fede sono contrastate con efferate violenze».
Con queste parole don Imad Khoshaba Gargees nell’omelia alla Messa celebrata sabato 16 gennaio nella parrocchia della Madre della Divina Provvidenza a Firenze ha evidenziato la drammatica situazione delle comunità cristiane in Medio Oriente.
Don Imad, presbitero dell’Arcidiocesi caldea di Erbil in Iraq - laddove lo scorso anno sono giunti 120.000 cristiani, costretti a fuggire dalle violenze dell’Isis - è stato invitato a portare la sua testimonianza dal parroco don Giovanni Nitti (missionario in Albania dopo la caduta del regime comunista) grazie ad Alessandro Leoncini, rappresentante della Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS).
Il sacerdote iracheno ha replicato la sua testimonianza alle Messe celebrate domenica 17 cui è seguito il pranzo sociale a sostegno di ACS. Dopo la celebrazione eucaristica di sabato, nel teatro parrocchiale, si è svolto l’incontro-dibattito di approfondimento con la proiezione di un filmato.
Sono attualmente 150 milioni i credenti cristiani che nel mondo subiscono persecuzioni e gravi sofferenze. Negli ultimi 4 anni in 700.000 sono fuggiti dalla Siria. Dal 2003 il 70% dei cristiani in Iraq ha lasciato il Paese.
Secondo i dati della World Watch List 2016 di Open Doors, nel 2015 sono stati uccisi 7.100 cristiani a causa della loro fede (contro i 4.344 del 2014) e sono state attaccate 2.400 chiese (contro le 1.062 del 2014). 
«A seguito dell’ingresso dell’Isis a Mosul nel 2014 - ha evidenziato don Imad - i cristiani hanno scelto di emigrare dalla città lasciando tutto. Le alternative erano convertirsi all’Islam o essere uccisi. Se nel 2002 i cristiani in Iraq erano 1,2 milioni oggi ne restano 250.000. A causa dello Stato Islamico la comunità rischia di scomparire per sempre. Avevamo oltre 250 diocesi, alcune con un Vescovo Metropolita e due o tre vescovi ausiliari.  Oggi ne abbiamo 17, nessuna delle quali ha più di un vescovo e 15 presbiteri. Attendiamo che i capi dei maggiori Stati occidentali e le massime autorità religiose islamiche si pronuncino chiaramente e agiscano per porre fine alle persecuzioni e alle iniquità di diritto e di fatto».

Attesi domenica nella Repubblica Ceca i primi 30 dei 153 profughi cristiani iracheni che vi troveranno rifugio

By Baghdadhope*
 
L’Europa di Schengen si sta sgretolando di giorno in giorno. Ai sette  paesi che hanno già deciso di introdurre i controlli ai propri confini (Svezia, Danimarca, Norvegia, Germania, Francia, Austria e Malta) dovrebbero presto aggiungersene altri.  Sembra insomma che qualunque paese abbia dei confini di terra con altri voglia spostare il problema altrove, sempre più ad est, proprio in direzione dei paesi dai quali i profughi fuggono. Una situazione che alla fine toccherà  all’Italia ed alla Grecia affrontare da sole perché unici paesi a non avere un altrove che non sia il mare e perchè, se si può cinicamente delegare ad altri il compito dell’assistenza, indifferenti sia alle condizioni dei profughi sia ai problemi che il paese forzatamente accogliente dovrà affrontare, non li si potrà certo rimettere sui barconi diretti ad oriente. 
A ciò si aggiunge il deciso no al sistema di accoglienza dei profughi basato sulle quote assegnate ad ogni membro dell'Unione espresso da parte dei paesi del V4 (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia) che premono per una politica di rimpatri e perché gli hotspot –  le strutture create nei luoghi di arrivo dei profughi per identificarli, fotografarli e raccoglierne le impronte -  siano trasformati in centri di detenzione nei quali trattenere i profughi fino alla loro completa identificazione. 

Parallelamente al rifiuto delle quote però è proprio in quel blocco di paesi che si sta anche sviluppando un nuovo atteggiamento verso le crisi che hanno creato il problema dei profughi e che ha portato la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia ad accettare sul suolo nazionale - al di fuori del sistema delle quote previste da Bruxelles - profughi di sola religione cristiana provenienti da Siria ed Iraq, da due dei paesi, cioè, dove la loro sopravvivenza è sempre più minacciata.
A cominciare è stata la Polonia dove le prime famiglie cristiane provenienti dalla Siria sono arrivate già nello scorso luglio. A permettere l’evacuazione delle 150 persone componenti le famiglie si sono unite le risorse e gli sforzi di varie entità come il Barnabas Fund, l’organizzazione caritatevole inglese di matrice evangelica che ha varato l’Operazione Rifugi Sicuri (
Operation Safe Havens) così spiegata: “Nei contesti più disperati i cristiani perseguitati non hanno altra scelta che fuggire dai propri paesi per salvarsi la vita. Questa è attualmente la situazione per molti cristiani siriani ed iracheni che vivevano nelle zone ora controllate dai militanti islamisti. L’Operazione Rifugi Sicuri copre i costi del loro trasporto e del loro reinsediamento in paesi sicuri dove possano vivere e celebrare la propria fede liberamente come cristiani.”
Barnabas Fund che ha collaborato con l’organizzazione non governativa polacca
Estera e con il Weidenfeld Fund, creato ad hoc da Lord George Weidenfeld, che aveva deciso di ripagare così il debito di gratitudine che aveva da quando, ragazzino ebreo a Vienna, fu salvato dai quaccheri e dai cristiani inglesi che lo fecero espatriare verso la Gran Bretagna (dove si è spento due giorni fa).
Dopo la Polonia è stata la volta della Slovacchia dove lo scorso dicembre ad arrivare è stato il primo gruppo di
149 iracheni di fede cristiana che, cacciati dalle proprio case nella Piana di Ninive dall’ISIS nella notte tra il 6 ed il 7 agosto 2015, vivevano in condizioni estremamente disagevoli e senza speranza di riscatto alcuno nei containers nel cortile di una chiesa cattolica caldea di Erbil. Nel caso slovacco a finanziare l’arrivo ed il reinsediamento di quei 149 profughi è stato il milionario mormone americano Glenn Beck, creatore del Nazarene Fund per "l’evacuazione dei cristiani particolarmente vulnerabili da paesi come Siria ed Iraq verso nuovi paesi dove possano ricostruire le proprie vite" supportato in tale sforzo dal predicatore evangelico Johnnie Moore e da Nina Shea, direttrice del Center for Religious Freedom dell’Hudson Institute, un centro studi conservatore con sede a Washington D.C.
Ora è la volta della Repubblica Ceca dove domenica 24 gennaio* sono attesi i primi 30 di 153 profughi iracheni cristiani destinati ad arrivare entro qualche mese e provenienti, quelli di prossimo arrivo dal Libano dove hanno già ottenuto lo status di rifugiati, e gli altri da un campo profughi di Erbil diverso da quello dal quale provenivano i profughi arrivati in Slovacchia.
Lo scorso ottobre il primo ministro ceco, Bohuslav Sobotka, aveva
approvato l’arrivo di questi profughi in un incontro avuto con il sacerdote siro ortodosso Padre Benjamin Shamoun
e secondo quanto dichiarato da Martin Frýdl a nome della Fondazione Generazione 21 che ha curato il progetto, i profughi verranno ospitati dapprima in una struttura per le procedure di ammissione per essere poi trasferiti  in un’altra struttura ricettiva nella città di Jihlava dove frequenteranno corsi di lingua ceca prima di essere smistati nei territori delle diocesi che li accoglieranno.  A pagare il progetto che ha un costo stimato di 15 milioni di corone (circa 555.000 Euro) anche questa volta è il Barnabas Fund, sostenuto dall’International Christian Outreach Ministry.  Come è chiaro da questi esempi questi paesi stanno attuando la politica dell'“a casa mia invito chi voglio” e lo fanno con la collaborazione attiva della galassia cristiana non cattolica che, evidentemente e dichiaratamente, ha a cuore la sorte non di tutti i profughi delle guerre che si stanno svolgendo in territori a maggioranza musulmana, ma solo di quelli cristiani che di esse sono tra le principali vittime.
A poco sembra siano valsi i progetti della comunità internazionale, e quella cattolica in particolare, a favore della permanenza/resistenza di quei cristiani nelle loro terre ancestrali a difesa di una cristianità sempre più minacciata.
La Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia non sono la Germania, la Svezia o la Gran Bretagna. Senza nulla togliere a quei paesi è probabile che nessuno di quei profughi avrebbe mai scelto di andare, se avesse potuto, a Varsavia, Praga o Bratislava.
Eppure lo hanno fatto e questo dà la misura della loro disperazione.
Tocca prenderne atto. I mormoni, gli evangelici e persino gli ebrei con Lord Weidenfeld, con pragmatismo lo hanno fatto, ma anche la chiesa cattolica non si è tirata indietro.
Seppure non in prima fila in queste operazioni di espatrio su base volontaria perché ampiamente impegnata a garantire tutto il possibile a chi invece non vuole o non può lasciare i propri paesi, essa non ha mancato di garantire ai profughi che lo hanno fatto il proprio l’appoggio. Così, ad esempio, nel caso della Slovacchia nulla si sarebbe concretizzato senza l’
impegno della diocesi di Nitra ad accogliere i profughi una volta terminato il periodo di quarantena obbligatoria, ed i profughi non avrebbero potuto celebrare il Natale secondo il rito siriaco se non li avesse raggiunti e confortati il sacerdote siro cattolico Firas Durdur con l’approvazione del proprio patriarca. E certo nessuna di queste operazioni si è svolta, malgrado la poca attenzione ad esse riservata da parte degli organi di stampa in Italia ed in Vaticano, senza che i vertici della chiesa non fossero stati avvertiti. E non sarebbe stato d’altronde possibile, non fosse altro perché lo stesso segretario della Congregazione per le Chiese Orientali, Mons. Cyril Vasil S.I. è nato proprio a Kosice, la città slovacca dove i profughi sono atterrati in arrivo da Erbil.      
In questi tempi di incertezza, di confini mobili, di unioni in crisi e di sempre maggiori tensioni tra le componenti della società in Europa, attribuite da alcuni al massiccio afflusso di fedeli musulmani e da altri al massiccio afflusso di profughi tout court, la sorte di quei cristiani siriani ed iracheni in Polonia, nella Repubblica Ceca ed in Slovacchia non può lasciarci indifferenti. E’ il segnale amaro che dà ragione a quel sacerdote iracheno che ben conosce la situazione e che ha
affermato in una dichiarazione al SIR che ormai per loro il conto alla rovescia è già iniziato.
Secondo le ultime notizie la partenza dal Libano potrebbe essere procrastinata per la mancanza di una specifica richiesta che avrebbe dovuto essere presentata almeno tre settimane prima della data fissata  alle autorità libanesi competenti.

21 gennaio 2016

Sako all'Europarlamento: fermate il genocidio dei cristiani

 
“È tempo di assumersi la responsabilità prima che questo conflitto si estenda per altri lunghi anni; questo è il tempo giusto per unire le forze e tenersi per mano, cristiani, musulmani, di fermare i massacri e le distruzioni.  È il tempo di stabilire pace e giustizia. Così facendo saremo i promotori di un punto di svolta in questa terra, degni di raggiungere sicurezza e pace per il nostro popolo. Vi preghiamo di fare quanto è nelle vostre possibilità per fermare questo genocidio prima che sia troppo tardi”.
È l’accorato appello che il Patriarca caldeo di Baghdad, Louis Raphael I Sako lancia al presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, in una lettera a lui indirizzata nei giorni in cui a Strasburgo discute del sistematico massacro delle minoranze religiose ad opera dell’Isis.

Patriarca Sako contro gli "attori esterni" del conflitto

Nella prossima sessione del Parlamento europeo che si svolgerà dall’1 al 4 febbraio sempre a Strasburgo - riporta l'agenzia Sir - dovrebbe essere votata anche una risoluzione sull’argomento. Nella lettera il patriarca caldeo si scaglia contro gli “attori esterni” del conflitto, rei di intervenire solo per “la loro personale ambizione nella Regione. Essi hanno usato democrazia e libertà come copertura per privarci delle nostre risorse naturali, pace e libertà creando caos e terrorismo in Iraq e nel Medio Oriente”. 

Tra gli iracheni cresce l'ossessione per la durata del conflitto

Questo ha comportato, tra le altre cose “il fallimento del sistema scolastico e il peggioramento di quello educativo; l’aumento della disoccupazione; il deterioramento della situazione economica e della sicurezza; la caduta dei servizi pubblici”. Oggi, denuncia Mar Sako, “in Iraq ci sono migliaia di morti, milioni di profughi e di sfollati interni, case e strutture distrutte, e nelle persone cresce l’ossessione per la durata del conflitto”.

Cristiani e minoranze spinti a lasciare l'Iraq
Il Patriarca non esita, poi, a puntare l’indice contro l’agonia dei cristiani e degli altri gruppi etnici causata, a sua detta, da “una ben concertata agenda da parte dell’Iraq di spingere i cristiani e le altre minoranze religiose a lasciare la propria terra”. A ciò si aggiungano le azioni del sedicente Stato Islamico (Is) contro cristiani e yazidi scacciati dalle loro case a Mosul e nella Piana di Ninive. Un comportamento contro le minoranze che può essere definito “genocidio”.

Appello per un governo iracheno forte
Nella lettera Mar Sako riferisce anche esempi di violazioni e di offese contro i cristiani, non ascrivibili all’Islam in generale, di gruppi fondamentalisti: “il divieto di fare auguri di Natale ai cristiani, la distruzione dell’albero di Natale in diversi centri commerciali,  il rifiuto di costruttori di edificare case e monasteri per i cristiani ritenuti infedeli, l’espropriazione da parte di alcune milizie di case e proprietà cristiane a Baghdad, l’invito alle donne cristiane di indossare il velo seguendo l’esempio della Vergine Maria”. Davanti a tutto ciò il Patriarca caldeo invoca la necessità di “avere un Governo forte, un’istruzione aperta, leader religiosi musulmani che si oppongano ai fanatici e che ci facciano sentire cittadini di questa nazione, con stessi diritti e doveri”.

Per l'Iraq il federalismo è la soluzione più adatta
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Da Mar Sako anche l’idea che “il federalismo sia attualmente la soluzioni più accettabile capace di tenere unito l’Iraq” e la convinzione che “la cultura della tolleranza e del rispetto sia il modo migliore per smantellare il terrorismo alle radici e opporsi all’estremismo”.

20 gennaio 2016

Iraq: raso al suolo dall'Is il monastero di St. Elijah a Mosul


In Iraq, la guerra continua a colpire i simboli sacri delle culture locali e della cristianità. A Mosul il sedicente Stato Islamico ha raso al suolo l’antico monastero cristiano di St. Elijah, costruito nel 590 dopo Cristo. Due giorni fa, invece, i bombardamenti aerei della coalizione hanno distrutto la chiesa siro-ortodossa della Vergine Maria, occupata dai jihadisti.
Giancarlo La Vella ne ha parlato con mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliario di Baghdad dei Caldei:


Se non si ferma la guerra, si sentiranno tante altre terribili cose, perché quando c’è la rabbia, c’è il rancore, può avvenire di tutto. Certa gente è venuta in Iraq per distruggere, per uccidere, per fare cose terribili contro Dio e contro l'uomo. Perciò, noi gridiamo sempre: “Fate cessare la guerra!”. Sarebbe terribile se il mondo non facesse qualcosa – dall’America, all’Europa, ai Paesi arabi. Se non fanno qualcosa insieme per ciò che Dio ha creato, sarà una tragedia.

Questi sono atti che spingono sempre più la popolazione cristiana a lasciare i propri territori…

Certamente. Tutti dicono: “Perché siamo qui? Solo per essere ammazzati? Questa del Monastero di Sant’Elijah, costruito 1400 anni fa, è un’altra tragedia. Ricordo che, quando ero seminarista, il giorno della festa del Santo andavamo lì, anche se c’erano solo le rovine, celebravamo la Messa. Vicino c’erano i soldati che controllavano... Questa notizia mi rattrista e veramente mi distrugge il cuore.

I raid della coalizione su Mosul devastano anche una chiesa

By Fides

Nella notte tra lunedì 18 e martedì 19 gennaio, i bombardamenti aerei compiuti dalla coalizione internazionale su Mosul – conquistata nel giugno 2014 dai jihadisti dello Stato Islamico (Daesh) – hanno colpito la chiesa siro-ortodossa dedicata alla Vergine Maria, nella zona del mercato. Fonti locali hanno riferito al sito d'informazione ankawa.com che la chiesa era occupata da elementi del Califfato, e che è stata devastata dal bombardamento subito.

19 gennaio 2016

The Voice of Kids: VIDEO. La bambina cristiana stella di Internet: l'Isis voleva ucciderla




Grazie alla sua esibizione al programma televisivo libanese The Voice of Kids, Mirna Hana, 11 anni, è diventata una star non solo del programma, ma anche di internet dove il video della sua canzone ha già ottenuto più di 10 milioni di visualizzazioni. Dietro a questa bella storia ce n'è però una ben più terribile. Mirna è irachena e di fede cristiana caldea. Dopo che l'Isis stava avanzando in tutto l'Iraq, il padre otto mesi fa prese tutta la famiglia, che viveva nei sobborghi di Baghdad e fuggì  con loro in Libano. Solo una volta arrivati in esilio la bambina seppe il perchè della fuga: in quanto cristiani, l'Isis voleva rapirla e ucciderla insieme alla famiglia. La cosa l'ha terrorizzata a lungo, ha raccontato in un video, ma ha anche detto che la possibilità di cantare per tutto il mondo è stata la possibilità di mostrare che l'Iraq non è solo guerra e violenza. Mirna ha eseguito infatti una popolare canzone d'amore irachena, Yesterday in a dream, il cui autore era tra i giudici di The Voice, Kazem el Saher. Tutti i giudici quando hanno visto che a cantare era una bambina così piccola sono rimasti a bocca aperta, mentre la pagina facebook della comunità cristiana caldea l'ha soprannominata "la proncipessa caldea di Babilonia."    

La prima guerra del golfo, 25 anni fa

Famiglia Cristiana
Lorenzo Montanaro

Il cielo verde su Baghdad. Era la notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991 e gli schermi di tutto il mondo cominciavano a trasmettere i bombardamenti in diretta tv. Iniziava la prima guerra del golfo. Nel conflitto si stima siano morte 200.000 persone, la maggior parte delle quali civili. Papa Giovanni Paolo II usò una frase tragicamente profetica. «Mai più la guerra», disse, «avventura senza ritorno».
Sono passati 25 anni e c'è chi non ha dimenticato. C'è chi, facendo memoria di quei giorni, torna a riflettere sull'assurda follia di ogni guerra e sull'assoluta necessità di promuovere soluzioni alternative.

Don Renato Sacco
, coordinatore nazionale del movimento Pax Christi, in Iraq è stato più volte. La prima occasione fu nel 1998. Erano passati anni, ma gli effetti della guerra si facevano ancora sentire. «Di danni causati dalle armi all'uranio impoverito non si parlava ancora, almeno ufficialmente. Però nascevano bambini con malattie rare e gravi forme di disabilità». Non solo: «Il Paese era stritolato dall'embargo. Mancava tutto, dalle matite alle lampadine. Ricordo ancora il senso di impotenza che si respirava negli ospedali. Le corsie brulicavano di medici e infermieri, a quanto pare anche molto preparati, ma non c'erano medicine. E le incubatrici, che avrebbero avuto bisogno di manutenzione, restavano ferme». 
La foto, scattata nel 2002, ritrae don Renato Sacco (a destra) insieme a don Fabio Corazzina, monsignor Paulos Faraj Rahho (vescovo di Mosul, poi rapito e ucciso) e, in basso, l'attuale patriarca Louis Sako.
Foto  Famiglia Cristiana
La foto, scattata nel 2002, ritrae don Renato Sacco (a destra) insieme a don Fabio Corazzina, monsignor Paulos Faraj Rahho (vescovo di Mosul, poi rapito e ucciso) e, in basso, l'attuale patriarca Louis Sako.

Da allora don Sacco ha visitato lo Stato mediorientale molte volte: nel 2002, alla vigilia della seconda guerra del golfo e ancora l'anno successivo. «Rientrato in Italia, mostravo le immagini delle parrocchie di Bassora e Mosul, i fedeli in fila per la comunione, le liturgie, i chierichetti. E la gente si stupiva. “Ma è questo l'Iraq?” mi chiedevano. Sì, la guerra ci porta a costruire immagini deformate e sclerotizzate. Identifichiamo un intero Paese con il suo regime. Ma i primi a morire sotto le bombe sono i civili». C'è poi un altro incontro, sempre in Iraq, che il coordinatore di Pax Christi non può dimenticare «Quello con monsignor Paulos Faraj Rahho, vescovo di Mosul, poco prima che venisse rapito e ucciso, nel 2008. Erano le avvisaglie di quanto sarebbe accaduto in seguito: l'escalation del terrore fino all'avvento dell'Isis. Già all'inizio del 2014, quando di Iraq non parlava quasi nessuno e i riflettori erano puntati altrove, ogni mese venivano uccise 1.000 persone. Più volte Pax Christi ha denunciato i pericoli e le violenze cui erano sottoposti i cristiani e le altre minoranze. Ma dov'era la comunità internazionale?».

Ecco perché le memorie del '91 hanno qualcosa da dirci sulla storia di oggi. «Per anni» riflette il religioso «Saddam Hussein e Muammar Gheddafi sono stati “amici” dell'Occidente. E per anni abbiamo venduto armi a questi dittatori. Ora qualcosa di analogo sta accadendo con l'Arabia Saudita. Quando ci sono di mezzo enormi interessi economici, l'Italia chiude gli occhi davanti alle palesi violazioni dei diritti umani, alle lapidazioni, al finanziamento dell'Isis. Ma come potremo immaginare un futuro diverso finché armeremo i Governi più sanguinari?». 

Iraq: Stato islamico si finanzia vendendo proprietà famiglie cristiane di Mosul

By Agenzia Nova

Lo Stato islamico in Iraq ha messo in vendita le case e le proprietà appartenenti alle famiglie cristiane di Mosul per finanziare la propria organizzazione. Secondo quanto riporta il sito web arabo “Le 360”, alcuni abitanti della zona hanno rivelato che sono stati affissi in città dove si annuncia la messa in vendita di proprietà immobiliari appartenute ai residenti cristiani. Con questi fondi, il gruppo terroristico mira ad arginare la mancanza di fondi e pagare i propri affiliati. Nell’area di Dour Qasem si sarebbe tenuta un’asta, annunciata con gli altoparlanti dalle auto della polizia. Lo Stato islamico ha mesos in vendita le case dei cristiani presentandole come bottino di guerra. Si tratta di 400 abitazioni, 19 negozi e 167 depositi.

Il Patriarca caldeo critica le sigle politiche cristiane

By Fides

I rappresentanti dei gruppi politici iracheni legati alla diverse comunità cristiane “non sono riusciti nel corso degli anni a soddisfare le legittime aspirazioni del loro popolo”, perseguendo agende ristrette e concentrandosi nella tutela di interessi personali o di piccoli gruppi. Così il Patriarca caldeo Louis Raphael I ha voluto denunciare l'inadeguatezza delle sigle e degli attivisti politici che pretendono di rappresentare le diverse comunità cristiane nello scenario iracheno, ribadendo che essi, con le loro scelte miopi e di corto respiro, finiscono per contribuire al progressivo indebolimento della presenza cristiana nel Paese sconvolto dal terrorismo e dalle derive settarie.
L’intervento del Patriarca è avvenuto ieri, lunedì 18 gennaio, nel primo giorno del cosiddetto “digiuno di Ninive”, che precede di tre settimane quello quaresimale e durante il quale, per tre giorni, i caldei si astengono dal cibo e dalle bevande dalla mezzanotte fino al mezzogiorno del giorno successivo, evitando per tutti e tre i giorni di mangiare cibi e condimenti di origine animale.
In particolare, nel suo intervento, il Patriarca ha stigmatizzato la frammentarietà dell'azione politica portata avanti da sigle e attivisti che fanno capo alle diverse Chiese e comunità cristiane. Anche alle ultime elezioni politiche, svoltesi della primavera 2014, gli attivisti politici legati alle comunità cristiane si sono presentati all'appuntamento elettorale in ordine sparso, divisi in 9 piccole liste.
Il Patriarca caldeo, nel suo intervento di ieri, ha rinnovato l'appello a tutte le Chiese e comunità cristiane irachene a creare una lista unitaria di cristiani abilitati a presentarsi alle elezioni anche in virtù della propria competenza professionale, per servire i propri fratelli perseguitati e l'interesse generale del Paese. Se tale appello sarà lasciato cadere nel vuoto dalle altre Chiese, il Patriarca Luis Raphael ha espresso l'intenzione di favorire comunque la creazione di una lista politica unica in rappresentanza delle istanze delle comunità caldee.

18 gennaio 2016

Siria. Mons. Audo: troppi interessi per proseguire la guerra

 By Radiovaticana

I civili siriani stremati, affamati e uccisi sovente barbaramente ogni giorno, in balia di un conflitto endemico che si protrae da quasi cinque anni tra milizie governative e filogovernative e svariati gruppi ribelli, tra cui spiccano i jihadisti dell’Is. Ultimo dramma il massacro compiuto ieri nei sobborghi della città di Deir ez-Zor, importante polo petrolifero siriano: 300 i morti, tra cui 150 decapitati ed altri crocifissi, e 400 ostaggi rapiti. E mentre le operazioni militari internazionali non trovano unità d’intenti, la diplomazia segna il passo in attesa della riunione di fine gennaio a Ginevra tra delegazioni di governo e opposizioni. Roberta Gisotti ha intervistato mons. Antoine Audo, vescovo di Aleppo dei Caldei, presidente della Caritas siriana:

Possiamo dire che oggi in Siria la prima cosa e la più terribile sia questa logica della violenza, legittimata da ogni gruppo. E penso anche ci sia tanta gente che voglia continuare questa violenza, soprattutto adesso in vista del 28 gennaio quando ci sarà l’incontro di Ginevra. Penso che sia per loro un’occasione per far montare la violenza e dire così che non c’è alcuna una soluzione politica al problema, ma che si deve continuare a fare la guerra e attuare la logica della violenza. Se non ci sarà una autorità a livello internazionale capace di mettere fine a questa violenza, penso che le cose continueranno come prima.
Mons. Audo, come giudica le azioni condotte finora dalla comunità internazionale per riportare la pace in Siria? Che cosa è mancato?
Penso che, a livello internazionale, siano tanti gli interessi di quelle nazioni impegnate in questo conflitto. Parlano di pace, ma nella realtà ci sono interessi economici ad alto livello, ci sono interessi per vendere armi… Così si continua la guerra! Penso che non ci sia una vera determinazione nel voler arrivare alla pace, questa è la nostra impressone dall’interno della Siria. Come credenti, come cristiani, preghiamo e facciamo di tutto per resistere, per incoraggiare uno spirito di riconciliazione e di pace. Ma da cinque anni le cose sono terribili per noi…
A questo punto, lei non crede più ad una soluzione che arrivi dall’interno del Paese?
Sì, ma con un sostegno a livello internazionale e regionale. Penso che questa lotta, anche quella fra sunniti e sciti a livello regionale, abbia tanti interessi sia da parte dell’Arabia Saudita e della Turchia, sia anche da parte dell’Iran. Nella regione si fa sì che ciascuno cerchi i propri interessi, sostenuti a livello internazionale.
Nei giorni scorsi, si è parlato in sede di Consiglio di Sicurezza dell’Onu della situazione umanitaria in Siria e sono stati fatti appelli per raccogliere una grande cifra – 8 miliardi dollari – per aiutare, si è detto, oltre 20 milioni di siriani in gravissime difficoltà dentro e fuori il Paese. Ma, viene da pensare che i tempi siano davvero stretti se la gente muore, anche barbaramente, ogni giorno…
Ci sono due realtà: quella della violenza e quella dell’insicurezza, la ragione per cui non si riesce ad avere una vita, un lavoro… Per questa ragione, tutta la gente è divenuta povera, soprattutto coloro che vivono all’interno della Siria. Un ingegnere importante, con grandi responsabilità, mi ha chiesto se – come presidente di Caritas Siria – avessi potuto fornire un "basket-food" per 200 famiglie di ingegneri di Aleppo che non ce la fanno a vivere, perché non hanno più alcun mezzo, non hanno lavoro, non hanno soldi… E se gli ingegneri non riescono più a vivere, che cosa dire delle povere famiglie senza formazione e senza mezzi? Ed è così in tutta la Siria.
Per quanto riguarda, invece, i cristiani sappiamo naturalmente che sono stati tra i più colpiti e che gran parte sono fuggiti…
In un certo senso, noi cristiani siamo come tutti gli altri: abbiamo gli stessi problemi di sicurezza e di lavoro. Ma, in secondo luogo, questi gruppi armati possono attaccare i cristiani perché sono senza alcuna difesa. Questo aiuta a far sì che questi gruppi fanatici realizzino una vittoria importante a livello interno, a livello regionale. Il secondo problema è che i cristiani rappresentano una formazione libera a livello internazionale e riuscire a far partire i cristiani rappresenta una vittoria per questi gruppi armati, proprio perché così pongono fine ad una resistenza di moralità, a una convivenza insieme, a un accettare la differenza. Non sono numerosi i cristiani ed è quindi molto facile fare qualsiasi cosa per farli partire dal Paese.