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19 gennaio 2016

La prima guerra del golfo, 25 anni fa

Famiglia Cristiana
Lorenzo Montanaro

Il cielo verde su Baghdad. Era la notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991 e gli schermi di tutto il mondo cominciavano a trasmettere i bombardamenti in diretta tv. Iniziava la prima guerra del golfo. Nel conflitto si stima siano morte 200.000 persone, la maggior parte delle quali civili. Papa Giovanni Paolo II usò una frase tragicamente profetica. «Mai più la guerra», disse, «avventura senza ritorno».
Sono passati 25 anni e c'è chi non ha dimenticato. C'è chi, facendo memoria di quei giorni, torna a riflettere sull'assurda follia di ogni guerra e sull'assoluta necessità di promuovere soluzioni alternative.

Don Renato Sacco
, coordinatore nazionale del movimento Pax Christi, in Iraq è stato più volte. La prima occasione fu nel 1998. Erano passati anni, ma gli effetti della guerra si facevano ancora sentire. «Di danni causati dalle armi all'uranio impoverito non si parlava ancora, almeno ufficialmente. Però nascevano bambini con malattie rare e gravi forme di disabilità». Non solo: «Il Paese era stritolato dall'embargo. Mancava tutto, dalle matite alle lampadine. Ricordo ancora il senso di impotenza che si respirava negli ospedali. Le corsie brulicavano di medici e infermieri, a quanto pare anche molto preparati, ma non c'erano medicine. E le incubatrici, che avrebbero avuto bisogno di manutenzione, restavano ferme». 
La foto, scattata nel 2002, ritrae don Renato Sacco (a destra) insieme a don Fabio Corazzina, monsignor Paulos Faraj Rahho (vescovo di Mosul, poi rapito e ucciso) e, in basso, l'attuale patriarca Louis Sako.
Foto  Famiglia Cristiana
La foto, scattata nel 2002, ritrae don Renato Sacco (a destra) insieme a don Fabio Corazzina, monsignor Paulos Faraj Rahho (vescovo di Mosul, poi rapito e ucciso) e, in basso, l'attuale patriarca Louis Sako.

Da allora don Sacco ha visitato lo Stato mediorientale molte volte: nel 2002, alla vigilia della seconda guerra del golfo e ancora l'anno successivo. «Rientrato in Italia, mostravo le immagini delle parrocchie di Bassora e Mosul, i fedeli in fila per la comunione, le liturgie, i chierichetti. E la gente si stupiva. “Ma è questo l'Iraq?” mi chiedevano. Sì, la guerra ci porta a costruire immagini deformate e sclerotizzate. Identifichiamo un intero Paese con il suo regime. Ma i primi a morire sotto le bombe sono i civili». C'è poi un altro incontro, sempre in Iraq, che il coordinatore di Pax Christi non può dimenticare «Quello con monsignor Paulos Faraj Rahho, vescovo di Mosul, poco prima che venisse rapito e ucciso, nel 2008. Erano le avvisaglie di quanto sarebbe accaduto in seguito: l'escalation del terrore fino all'avvento dell'Isis. Già all'inizio del 2014, quando di Iraq non parlava quasi nessuno e i riflettori erano puntati altrove, ogni mese venivano uccise 1.000 persone. Più volte Pax Christi ha denunciato i pericoli e le violenze cui erano sottoposti i cristiani e le altre minoranze. Ma dov'era la comunità internazionale?».

Ecco perché le memorie del '91 hanno qualcosa da dirci sulla storia di oggi. «Per anni» riflette il religioso «Saddam Hussein e Muammar Gheddafi sono stati “amici” dell'Occidente. E per anni abbiamo venduto armi a questi dittatori. Ora qualcosa di analogo sta accadendo con l'Arabia Saudita. Quando ci sono di mezzo enormi interessi economici, l'Italia chiude gli occhi davanti alle palesi violazioni dei diritti umani, alle lapidazioni, al finanziamento dell'Isis. Ma come potremo immaginare un futuro diverso finché armeremo i Governi più sanguinari?».