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28 settembre 2015

Iraq: Kurdistan, presidente Barzani incontra nuovo patriarca Chiesa assira d’Oriente

By Agenzia Nova

Il presidente della regione autonoma del Kurdistan, Masoud Barzani, ha incontrato oggi Mar Gewargis III Sliwa, nuovo patriarca della Chiesa assira d’Oriente, nella chiesa di San Giovanni Battista ad Ankawa, quartiere cristiano della capitale curda Erbil. Lo ha reso noto un comunicato della presidenza. Barzani si è scusato per non aver potuto presenziare alla cerimonia d’insediamento del patriarca. La Chiesa assira orientale ha eletto lo scorso 18 settembre il suo 11mo patriarca. Nato nel 1941 a Habbaniya, in Iraq, Gewargis Sliwa si è formato a Baghdad e negli Stati Uniti, prendendo i voti nel 1980. Ha servito come metropolita in Iraq, Giordania e Russia. In quanto unico alto esponente della Chiesa assira d’Oriente residente in Iraq, Sliwa ha visto in prima persona le persecuzioni dei cristiani ad opera dei terroristi dello Stato islamico. Papa Francesco ha inviato i suoi auguri attraverso un messaggio diretto al patriarca lo scorso 21 settembre.

Il Nuovo Patriarca assiro durante la cerimonia di insediamento: occorre mettere il linguaggio religioso al servizio della pace

By Fides

I discorsi politici e religiosi devono servire a infondere nei cuori lo spirito d'amore e di servizio, e non, al contrario, fomentare conflitto e divisione.

E' questo il concetto-chiave espresso da Mar Gewargis III, nuovo Patriarca della Chiesa assira d'Oriente, in occasione della liturgia per il suo insediamento, che ha segnato l'inizio del suo ministero patriarcale. La cerimonia, trasmessa in diretta sui media locali, si è svolta presso la chiesa di San Giovanni Battista ad Ankawa, il sobborgo di Erbil abitato in maggioranza da cristiani, e dove adesso sono concentrati anche buona parte dei cristiani della Piana di Ninive costretti a abbandonare le proprie case davanti all'offensiva dei jihadisti dello Stato Islamico (Daesh). Alla liturgia hanno partecipato, tra gli altri, anche Nechirvan Barzani, Primo Ministro della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, il Patriarca caldeo Louis Raphael I e il Patriarca siro ortodosso Mar Ignatius Aphrem II. La Santa Sede è stata rappresentata dal Card. Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani.
Mar Gewargis III succede a Mar Dinkha IV spentosi a marzo negli Stati Uniti, dopo un mandato patriarcale durato ben 39 anni. Il Sinodo della Chiesa assira d'Oriente aveva scelto il suo nuovo Patriarca lo scorso 16 settembre. Il 74enne Mar Gewargis Sliwa, già Metropolita di Iraq, Giordania e Russia, era l'unico Metropolita assiro ancora residente in territorio iracheno. La sede patriarcale assira, in seguito all'esilio del Patriarca Mar Eshai Shimun XXIII, ha lasciato il Medio Oriente dal 1933 e dal 1940 è stata insediata presso Chicago, negli Stati Uniti. Dal 2006 è iniziato il progetto di costruzione di una residenza patriarcale a Erbil, che viene portato avanti ancora oggi e che fa pensare a un possibile futuro trasferimento della sede patriarcale nella capitale del Kurdistan iracheno.

25 settembre 2015

Kosita: il copricapo dei patriarchi della chiesa Assira dell'Est.

By Baghdadhope*

Il 27 settembre si svolgerà ad Erbil, nel Kurdistan iracheno, la cerimonia di intronizzazione del nuovo patriarca della chiesa Assira dell'Est, Mar Gewargis Sliwa III.
Come già avvenuto in occasione della nomina a patriarca della chiesa Caldea di Mar Louis Raphael I Sako, Baghdadhope si occupa del copricapo tipico della gerarchia della chiesa Assira dell'Est: la Kosita. 

Foto da Philippi Collection

Di forma cilindrica con sommità piatta o a pieghe ed un bottone in centro la Kosia è circondata da fasce tubolari di colore nero riempite di cotone che si fissano sul retro e la cui cucitura è nascosta da una fascia di tessuto sempre nero largo circa 4 cm.
Alcune Kosita hanno un fascio di fili neri che parte dal bottone sulla sommità fino all'orlo inferiore a formare un triangolo ed è fissato al di sotto delle fasce tubolari.
A parte le fasce nere la Kosita è in genere di colore rosso a rappresentare il martirio sofferto dai membri della Chiesa Assira dell’Est ma sono ammesse altre tonalità dello stesso colore come fucsia, arancione, rosso chiaro e rosso scuro, molto dipende anche dal fabbricante e dallo stesso gusto del vescovo che la indossa.
Anche il numero delle fasce che circondano la Kosita può variare.
Il defunto Patriarca Mar Dinkha IV indossava una Kosita con 4 fasce al posto di tre come più usuale. Secondo il Sig. Philippi* le spiegazioni possibili sono tre: la prima è che ad indossare la Kosita con 4 fasce fosse Mar Yosip Khnanisho, padre spirituale di Mar Dinkha IV che così ne volle commemorare la memoria; la seconda è perché il titolo che Dinkha Khanania assunse al momento della nomina a Patriarca fu quello di Dinkha IV, e la terza è che esse rappresentavano il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo e lo stesso Patriarca.
L’attuale patriarca della Chiesa Assira dell’Est Mar Gewargis Sliwa III ha sempre indossato la Kosita con 3 fasce. 

* Le informazioni sulla Kosita sono state tratte dal blog del Sig. Dieter Philippi (Philippi Collection) che possiede la più vasta collezione di copricapi religiosi, e che ha gentilmente concesso a Baghdadhope il permesso di pubblicare alcune sue foto.  

Kosita a 4 fasce indossata da
Mar Dinkha IV.
Foto da Philippi Collection
Kosita a tre fasce indossata da Mar Gewargis Sliwa
Metropolita della Chiesa Assira dell'Est.
Foto da Ishtartv

Kosita: the headgear of the Patriarchs of the Assyrian Church of the East

By Baghdadhope*

On September 27  the ceremony of the enthronement of the new Patriarch of the Assyrian Church of the East, Mar Gewargis Sliwa III, will occur in Erbil, Iraqi Kurdistan.
As it was for the appointment as Patriarch of the Chaldean Church of Mar Raphael I Louis Sako, Baghdadhope deals with the headgear typical of the hierarchy of the Assyrian Church of the East: the Kosita.
Of cylindrical shape with a flat or pleated top and a button in the center, the Kosita is wrapped by tubular black bands filled with cotton the seam of which is covered by a black band of fabric about 4 cm. wide.
Photo by Philippi Collection
Some Kositas have a bundle of black threads that goes from the button on the top to the lower hem forming a triangle and is fixed beneath the tubular bands.
Apart from the black bands  the Kosita is usually red to represent the martyrdom suffered by the members of the Assyrian Church of the East, but other shades of the same color like fuchsia, orange, light red and dark red are permitted, and much also depends on the manufacturer and on the taste of the bishop who wears it.
The number of the black bands wrapping  the Kosita may vary too. The late Patriarch Mar Dinkha IV wore a Kosita with 4 bands instead of three as more usual.
According to Mr. Dieter Philippi* there are three possible explanations: the first is that Mar Yosip Khnanisho, the spiritual father of Mar Dinkha IV, used to wear a four-bands Kosita and that it was Mar Dinkha’s way to commemorate his memory; the second is that the title that Dinkha Khanania assumed when appointed as Patriarch was Dinkha IV, and the third is that they represented the Father, the Son, the Holy Spirit and the Patriarch.
The current patriarch of the Assyrian Church of the East Mar Gewargis Sliwa III has always worn a three-bands Kosita.


* All the information about Kosita comes from the blog of Mr. Dieter Philippi (Philippi Collection) who owns the largest collection of clerical, religious and spiritual headgears and who kindly gave to Baghdadhope the permission to reproduce the photos in the post. 

The 4 bands Kosita worn by the late Mar Dinkha IV.
Photo by Philippi Collection
The 3 bands kosita worn by Mar Gewargis Sliwa as Metropolitan of the Assyrian Church of the East.
Photo by Ishtartv

23 settembre 2015

Ausiliare di Baghdad: riforma della Costituzione, per tutelare diritti e libertà religiosa in Iraq


“Bisogna andare alla Costituzione, perché è all’interno della Carta che deve essere fatta chiarezza sui diritti e sulle libertà individuali. Ma al momento è difficile che cambi qualcosa e vi è una sensazione diffusa di pessimismo”. Così mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare dei caldei a Baghdad, commenta le ultime vicende di cronaca, che confermano una situazione di liberà religiosa negata in Iraq. Nei giorni scorsi Mar Louis Raphael I Sako ha inviato una lettera al parlamento irakeno, in cui chiede di modificare la legge in base alla quale un minore viene registrato come musulmano nel caso in cui uno dei due genitori si converta all’islam.
Per il patriarca caldeo la norma è contraria all’articolo 37-2 della (controversa) Costituzione, secondo cui “lo Stato garantisce la protezione dell'individuo da ogni forma di coercizione intellettuale, politica e religiosa”. La legge è “ingiusta e discriminatoria” contro i cristiani, oltre che una evidente “forma di persecuzione”. Egli ha chiesto la modifica della legge, affinché il minore possa conservare la religione di appartenenza fino alla maggiore età (18 anni). A questo punto sarà il giovane stesso a scegliere quale religione professare, in modo consapevole e libero.
Tuttavia, alla lettera di Mar Sako - il quale ricorda anche che i cristiani rispettano la libertà di cambiare religione, se frutto di una scelta personale - è arrivata la replica di un membro del Comitato per la sicurezza e la difesa, cui era rivolto l’appello. Si tratta del deputato sciita Ammar Tu’ma, il quale ha ribattuto che considerare tale legge come “discriminatoria e persecutoria” è in contrasto con il fatto che anche chi è registrato come cristiano lo è “durante la minore età”. Interpellato da AsiaNews mons. Warduni avverte che solo andando alle radici dello Stato e alle norme che ne fissano la convivenza comune, sarà davvero possibile vedere riconosciuti e sanciti “i diritti di tutti i cittadini”. E non, come avviene ora, con ipotetiche garanzie o tutele “per le minoranze”. “La battaglia contro questa legge - racconta il prelato, che già nel 2002 ne aveva denunciato le storture - dura da oltre 30 anni e vede impegnato tutto il clero cristiano d’Iraq”.
La controversa norma è stata approvata negli anni in cui era al potere Saddam Hussein, forse per compiacere una frangia estremista islamica che già si affacciava sul panorama politico e istituzionale nazionale. “Non so quali siano le vere motivazioni che hanno portato all’approvazione della legge - afferma il prelato - ma l’unica certezza è che viene applicata con rigore e non è stato possibile modificarla. Con la sua lettera, Mar Sako ha ricordato che questa non è vera libertà e ha voluto chiedere ai governanti e ai responsabili di fare attenzione, altrimenti il Paese rischia di affondare”.
L’Iraq può essere salvato “non con le armi, ma attraverso leggi giuste” aggiunge il vicario dei caldei, e questa legge “è contro la libertà e la coscienza. Per questo ciascuno deve fare la propria parte e agire nello spirito della libertà vera e della uguaglianza”. “Del resto solo la cittadinanza e non l’appartenenza religiosa - conclude il prelato - potranno salvare l’Iraq. E noi sosteniamo questa battaglia, non per le minoranze ma per tutti i cittadini che sono chiamati a costruire l’unità della nazione”.

21 settembre 2015

Appello del patriarca caldeo al governo iracheno perchè sia rispettata la libertà nella scelta della religione.

By Baghdadhope*

Alcuni giorni fa il Patriarca della chiesa caldea, Mar Louis Raphael I Sako, ha inviato una lettera al parlamento iracheno per cambiare la legge secondo la quale un minore nel caso in cui anche solo uno dei due genitori si converte all'Islam viene automaticamente registrato come musulmano.
Questa legge è, secondo la lettera del patriarca, contraria all'articolo 37/2 della costituzione irachena secondo il quale "Lo stato garantisce la protezione dell'individio da ogni forma di coercizione intellettuale, politica e religiosa" e si configura quindi come "ingiusta e discriminatoria" nonchè "una forma di persecuzione."
La richiesta avanzata è quella di cambiare la legge in modo che sia consentito al minore di conservare la religione di appartenenza fino al compimento dellla maggiore età (18 anni).
La religione, è scritto in conclusione,  è una questione privata tra l'Uomo ed il suo Dio, ed il professarne una dovrebbe essere il risultato della convinzione e non della coercizione.
I cristiani, è la chiosa, rispettano la libertà di cambiare la propria religione a patto che ciò non sia il risultato di una forzatura.
A qualche giorno di distanza è arrivata la pungente risposta di uno dei membri del comitato per la sicurezza e la difesa cui la lettera era stata indirizzata. Il parlamentare sciita Ammar Tu'ma ha in sintesi ribattuto che il considerare tale legge riguardante i minori come discriminatoria e persecutoria è in contrasto con il fatto che anche chi è registrato come cristiano lo è durante la minore età.
E' ovvio che le due posizioni sono inconciliabili. In Iraq, ad esempio, per i cristiani cattolici il divorzio è impossibile e le soluzioni sono due: cambiare chiesa per passare a quelle ortodosse ed autocefale più pronte ad accettarlo o addirittura la conversione all'Islam che però ricade anche sui figli minori inconsapevoli o addirittura contrari.
Di questa vicenda così sentita e grave da spingere ufficialmente il Patriarca a prendere posizione la cosa tragica è però anche un'altra.
Era il 2002, prima quindi che gli Stati Uniti invadessero l'Iraq, a Baghdad regnava ancora il regime di Saddam, le cose per i cristiani avevano già cominciato a mettersi male ed alla domanda:
Direbbe quindi che sta diventando sempre più difficile essere cristiani in Iraq?
ecco come rispondeva Mons. Shleimun Warduni, allora ed ora vicario patriarcale a Baghdad:

"Direi di sì. Un esempio è quello che riguarda i figli minorenni di una coppia in cui uno dei genitori decida di convertirsi all’islam. I figli, che prima potevano attendere il compimento del diciottesimo anno di età per diventare musulmani, ora vengono forzatamente e immediatamente considerati come appartenenti all’islam. I vescovi hanno chiesto che a questa conversione forzata possa almeno far seguito la libertà di ritorno al cristianesimo alla maggiore età, una richiesta che però è stata respinta dato che dall’islam non si può tornare indietro."
Un tragico déjà-vu da cui si può concludere che malgrado la resistenza e la fedeltà alla patria dimostrata in questi anni per i cristiani tutto è cambiato in peggio.
O, nel migliore dei casi, tutto è rimasto uguale.
Direbbe quindi che sta diventando sempre più difficile essere cristiani in Iraq?
«Direi di sì. Un esempio è quello che riguarda i figli minorenni di una coppia in cui uno dei genitori decida di convertirsi all’islam. I figli, che prima potevano attendere il compimento del diciottesimo anno di età per diventare musulmani, ora vengono forzatamente e immediatamente considerati come appartenenti all’islam. I vescovi hanno chiesto che a questa conversione forzata possa almeno far seguito la libertà di ritorno al cristianesimo alla maggiore età, una richiesta che però è stata respinta dato che dall’islam non si può tornare indietro. - See more at: http://www.rivistamissioniconsolata.it/new/articolo.php?id=1124#sthash.X2fP2Jy9.dpuf
Direbbe quindi che sta diventando sempre più difficile essere cristiani in Iraq?
«Direi di sì. Un esempio è quello che riguarda i figli minorenni di una coppia in cui uno dei genitori decida di convertirsi all’islam. I figli, che prima potevano attendere il compimento del diciottesimo anno di età per diventare musulmani, ora vengono forzatamente e immediatamente considerati come appartenenti all’islam. I vescovi hanno chiesto che a questa conversione forzata possa almeno far seguito la libertà di ritorno al cristianesimo alla maggiore età, una richiesta che però è stata respinta dato che dall’islam non si può tornare indietro. - See more at: http://www.rivistamissioniconsolata.it/new/articolo.php?id=1124#sthash.X2fP2Jy9.dpuf

18 settembre 2015

Posposto il sinodo della chiesa caldea

By Baghdadhope*

Il sinodo della chiesa caldea previsto ad Ankawa, il sobborgo cristiano di Erbil, nel Kurdistan iracheno, che si sarebbe dovuto tenere dal 22 al 26 settembre è posposto a data da destinarsi.
La ragione del rinvio, come spiega il sito del Patriarcato, è nella richiesta di incontro che il patriarca della chiesa, Mar Louis Raphael I Sako, ha rivolto a Papa Francesco per risolvere i problemi venutisi a creare tra il Patriarcato e la diocesi caldea di San Pietro Apostolo negli Stati Uniti occidentali.
La storia è lunga ma per sintetizzarla basta ricordare che la diocesi americana ha incardinato, negli anni, sacerdoti e monaci che, a parere del Patriarcato, hanno lasciato l'Iraq senza il permesso dei vescovi delle diocesi cui appartenevano. A questi sacerdoti e monaci più volte è stato rivolto l'invito, divenuto successivamente ordine, a tornare in madre patria.
Alcuni, seppure non immediatamente, lo hanno fatto. Altri no.
Per mesi le due parti si sono affrontate a colpi di articoli del codice di diritto canonico delle chiese orientali ma quel che è certo è che l'atteggiamento del vescovo della diocesi americana, Mar Sarhad Y. Jammo, che si è sempre opposto alle decisioni patriarcali facendo anche appello a Roma, rappresenta per il patriarcato un tentativo di minare l'unità della chiesa, e soprattutto la sua autorità e quella del sinodo, che deve essere fermato.
A costo di rivolgersi direttamente al Papa.

Per saperne di più:

 25 maggio 2015
Ennesimo rinvio nella soluzione del problema dei sacerdoti e monaci caldei riparati all'estero senza permesso

 13 maggio 2015
Lo scontro tra il Patriarcato caldeo e una diocesi caldea negli Stati Uniti continua 

 25 febbraio 2015
Congregazione per le Chiese Orientali: sostegno agli iracheni cristiani ed al Patriarcato

30 gennaio 2015
Sinodo caldeo straordinario: alla prova l'unità della Chiesa

Mar Gewargis Sliwa III nuovo Patriarca della Chiesa Assira dell'Est

By Baghdadhope*

Il 16 settembre ad Erbil, nel Kurdistan iracheno, si è riunito il sinodo della Chiesa Assira dell'Est per scegliere il nuovo patriarca successore di Mar Dinkha IV spentosi a marzo 2015. 
A due giorni dall'inizio del sinodo la scelta è ricaduta su Mons.Gewargis Sliwa, già Metropolita di Iraq, Giordania e Russia, che prenderà il nome di Mar Gewargis Sliwa III nel corso dell'ordinazione che si terrà sempre ad Erbil il 27 di settembre. 
Nessun accenno nel comunicato ufficiale su dove sarà stabilita la sede patriarcale che, seguendo l'esilio del patriarca Mar Eshai Shimun XXIII dal 1933 fu a Cipro e dal 1940 negli Stati Uniti.
Nel precedente sinodo di inizio giugno Mar Meelis Zaia, vicario patriarcale per l'Australia e la Nuova Zelanda, nonchè metropolita del Libano, aveva dichiarato che la sede sarebbe stata stabilita ad Erbil. 
Con il ritorno della sede patriarcale della Chiesa Assira dell'Est salgono quindi a tre le sedi patriarcali in Iraq. Ad essa si aggiungono quelle della Chiesa Antica dell'Est, guidata da Mar Addai II e quella della Chiesa Caldea guidata da Mar Louis Raphael I Sako.

Mar Gewargis Sliwa III è nato il 23 novembre del 1941 ad Habbaniya, in Iraq. Dopo aver completato gli studi superiori nella sua città si trasferì a Baghdad nel 1963 dove si laureò ed iniziò subito ad insegnare nelle scuole superiori non solo della capitale me anche nella sua città di origine. Nel 1977 si recò negli Stati Uniti dove intraprese gli studi teologici che lo portarono ad essere ordinato sacerdote nel giugno del 1980 e arcivescovo per l'Iraq l'anno successivo. 

Iraq. Mons Warduni: situazione gravissima, vogliamo la pace


E’ la pace il primo e il più importante diritto negato in Iraq. Ad affermarlo mons. Shelmon Warduni, presidente della Caritas irachena intervenendo ieri all’incontro promosso a Roma dal Pontificio Consiglio Cor Unum ed incentrato sulla crisi umanitaria in Iraq e in Siria.
Amedeo Lomonaco lo ha intervistato:
La situazione umanitaria è molto grave perché mancano i diritti fondamentali essenziali: la pace, la sicurezza e l'uscita forzata dai nostri villaggi e dalle nostre case. E’ questo che ci fa male: vedere le nostre case in mano ad altri mentre noi abitiamo nelle tende. La Chiesa chiede e vuole la pace. La Chiesa vuole e cerca la sicurezza. Noi chiediamo a tutto il mondo di darci i nostri diritti umani. Lo chiediamo all’Onu, all’America, all’Europa. E agli arabi specialmente, che devono avere la mente chiara e vivere in pace, aiutandosi gli uni gli altri per la pace, non per la guerra. Cosa c’è di buono nella guerra? Nella guerra tutto è male: tanti orfani, tante vedove, tanti giovani uccisi. E alla fine non ci sono né vincitori né vinti.
Dietro questo male prodotto anche dall’estremismo islamico, più che un’ideologia forse c’è proprio il diavolo…
Il Cielo si è aperto e i diavoli sono scesi sulla terra. Il cuore è duro, la mente pensa al male più che al bene. Ciascuno vuole i suoi interessi. Questo  è il male. Questo non è cristiano. Cristiano è: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”. L’amore cristiano è sacrificarsi per l’altro, non per me. E’ questo ciò che ha fatto veramente Cristo: è morto per noi. Non c’è amore più forte di questo: dare la propria vita per gli altri. Noi cristiani abbiamo bisogno di questo.

Iraq: missione di solidarietà dei vescovi belgi


Tre vescovi belgi sono da oggi al 21 settembre nel Nord dell’Iraq per una missione di solidarietà. Mons. Guy Harpigny, vescovo di Tournai, mons. Jozef De Kesel, vescovo di Bruges, e mons. Leon Lemmens, vescovo ausiliare per il vicariato di Brabant, saranno ospiti della Chiesa cattolica caldea a Erbil e a Dohuk visiteranno le migliaia di rifugiati. “Non possiamo abbandonare i cristiani del Medio Oriente al loro destino”, dicono i vescovi. “La presenza delle comunità cristiane risale all’inizio dell’era cristiana e nel corso dei secoli queste comunità hanno potuto professare la loro religione in libertà”, si legge in un comunicato diffuso ieri sera dalla Conferenza episcopale belga e ripreso dall'agenzia Sir.

La solidarietà concreta della Chiesa belga
​“Questo modello sociale sempre attualmente in pericolo è la ragione per la quale la Conferenza episcopale del Belgio ha accettato l’invito del patriarca dei caldei di Baghdad, Louis Raphaël I Sako, e dell’arcivescovo caldeo di Erbil, mons. Bashar Matti Warda”.
I vescovi belgi informeranno personalmente a Erbil il patriarca della Chiesa cattolica caldea della solidarietà concreta che la Chiesa belga vuole offrire alle Chiese sorelle del Medio Oriente avvalendosi delle organizzazioni attive sul posto come l’Aiuto alla Chiesa che soffre, la Caritas e il Jesuit Refugee Service. 

17 settembre 2015

Iraq-Siria. Papa: comunità internazionale senza risposte. Sandri: Chiesa aiuta tutti

By Radiovaticana

“La comunità internazionale non sembra capace di trovare risposte adeguate” alla crisi in Siria e  in Iraq, Paesi travolti da un “oceano di dolore”. E’ quanto ha detto Papa Francesco rivolgendosi stamani ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio Cor Unum ed incentrato sulla situazione umanitaria in questa tormentata regione mediorientale.
Il servizio di Amedeo Lomonaco:


I conflitti in Siria e in Iraq provocano atroci sofferenze nella popolazione e continuano ad aprire insanabili ferite nel patrimonio culturale di questi Paesi. Milioni di persone - osserva il Papa - lasciano le loro terre di origine:

“Di fronte ad un tale scenario e a conflitti che vanno estendendosi e turbando in maniera inquietante gli equilibri interni e quelli regionali, la comunità internazionale non sembra capace di trovare risposte adeguate, mentre i trafficanti di armi continuano a fare i loro interessi. Armi bagnate nel sangue, sangue innocente”.

Le atrocità dei conflitti, le violazioni dei diritti umani – aggiunge il Santo Padre - sono sotto gli occhi del mondo grazie ai mezzi di informazione:

“Nessuno può fingere di non sapere! Tutti sono consapevoli che questa guerra pesa in maniera sempre più insopportabile sulle spalle della povera gente. Occorre trovare una soluzione, che non è mai quella violenta, perché la violenza crea solo nuove ferite, crea violenza”.

Ad essere colpiti – ricorda il Pontefice - sono i più deboli: le famiglie, gli anziani i malati e i bambini. Sono indifesi anche i cristiani cacciati dalle loro terre, “tenuti in prigionia e addirittura uccisi”. Papa Francesco esorta in particolare gli organismi cattolici, in collaborazione con le istituzioni internazionali, a proseguire nel loro impegno umanitario:

“In Siria ed in Iraq, il male distrugge gli edifici e le infrastrutture, ma soprattutto distrugge la coscienza dell’uomo… Per favore: non abbandonate le vittime di questa crisi, anche se l’attenzione del mondo venisse meno”.


La Chiesa continua ad assicurare il proprio impegno per far fronte alla crisi umanitaria in Iraq e in Siria. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, il prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, card. Leonardo Sandri, intervenuto stamani all’incontro, promosso dal Pontificio Consiglio Cor Ununm:
 Nonostante questo disastro umano, che stiamo vedendo ogni giorno in Medio Oriente, la Chiesa con i suoi mezzi - anche poveri e limitati - è rimasta e sta continuamente aiutando e sostenendo quelli che soffrono in Medio Oriente. La Chiesa non solo non ha abbandonato i cristiani, ma anche i musulmani. Aiuta tutti. Ed io ne sono stato testimone, quando sono stato a Baghdad. Ho visto le opere della Caritas Iraq anche per i bambini e le donne musulmane. Non è un’azione di potere o di prestigio, non è appariscente: è un’azione umile di ogni giorno di assistenza umanitaria. La Chiesa piccola, perseguitata, sofferente ha lavorato e continua a lavorare in questa regione dove ci sono l’esodo, la guerra, i bombardamenti, la fame e quelli che soffrono di più sono le donne e i bambini.

E la Chiesa accompagna anche il dolore dei profughi…

Certo e tutti quelli che accolgono adesso i rifugiati stanno dando il massimo. E tra questi  anche le associazioni cattoliche di aiuto. Ci troviamo di fronte ad una crisi umanitaria. Non è una crisi di religione: è uno sconvolgimento della dignità e della grandezza dell’uomo. Il Papa, soffrendo tantissimo per queste persone sofferenti,  quante volte ha alzato la voce per dire “pace”, per dire “mettetevi d’accordo, trovate una soluzione”. Anche attraverso i nunzi si è cercato in ogni modo di poter dare una soluzione. Ma il Papa non è ascoltato e tante volte è una voce che grida nel deserto. Il mistero dell’iniquità del male governa il mondo - e non sappiamo da chi dipende concretamente - e non porta a soluzioni di pace, di intendimento. Ma la Chiesa è sempre aperta ad essere ponte, ad essere mediatore, quando c’è bisogno e quando è richiesto.

Papa Francesco: a “Cor Unum”, “non abbandonate le vittime” della crisi in Siria e in Iraq

By SIR

“Tante sono le vittime del conflitto: a tutte penso e per tutte prego. Ma non posso sottacere il grave danno alle comunità cristiane in Siria e in Iraq, dove molti fratelli e sorelle sono vessati a causa della propria fede, cacciati dalle proprie terre, tenuti in prigionia o addirittura uccisi”. Nella seconda parte del discorso a “Cor Unum” il Papa si è soffermato sulla tragica situazione in Siria e in Iraq, terre in cui “per secoli le comunità cristiane e quelle musulmane hanno convissuto, sulla base del reciproco rispetto”. “Oggi è la legittimità stessa della presenza dei cristiani e di altre minoranze religiose ad essere negata in nome di un fondamentalismo violento che rivendica un’origine religiosa”, ha ammonito Francesco citando Benedetto XVI: “Eppure, alle tante aggressioni e persecuzioni che oggi subisce in quei Paesi, la Chiesa risponde testimoniando Cristo con coraggio, attraverso la presenza umile e fervida, il dialogo sincero e il servizio generoso a favore di chiunque soffra o abbia bisogno, senza alcuna distinzione”. 
"In Siria e in Iraq, il male distrugge gli edifici e le infrastrutture, ma soprattutto la coscienza dell’uomo”, il grido d’allarme del Papa: “Nel nome di Gesù, venuto nel mondo per sanare le ferite dell’umanità, la Chiesa si sente chiamata a rispondere al male col bene, promuovendo uno sviluppo umano integrale, occupandosi di ogni uomo e di tutto l’uomo”, come raccomanda Paolo VI nella “Populorum Progressio”. “Per rispondere a questa difficile chiamata - la tesi di Francesco - è necessario che i cattolici rafforzino la collaborazione intra-ecclesiale e i legami di comunione che li uniscono alle altre comunità cristiane, cercando anche la collaborazione con le istituzioni umanitarie internazionali e con tutti gli uomini di buona volontà”. “Per favore: non abbandonate le vittime di questa crisi, anche se l’attenzione del mondo venisse meno!”, l’esortazione finale del Papa.

Vittime di guerre e tagliagole. La grande fuga dei cristiani

By Il Giornale 
Fausto Biloslavo

I numeri da pulizia etnica fanno venire i brividi. Solo dalla Siria e l'Iraq sono fuggiti davanti a guerre, violenze e persecuzioni 1 milione e 400 mila cristiani.
E altri rimangono intrappolati nelle regioni minacciate dalle bandiere nere, come in Kurdistan dove hanno trovato rifugio precario 120mila persone della nostra stessa fede.
Nei campi ricavati con i container attorno ad Erbil, nel nord dell'Iraq, la speranza dei cristiani di tornare nelle loro case sulla piana di Ninive e Mosul si affievolisce con il passare del tempo. L'alternativa è vendere a prezzi stracciati le proprietà occupate dallo Stato islamico ad agenzie immobiliari senza scrupoli e compiacenti. Ed investire diecimila euro, minimo, per famiglia lungo la rotta clandestina verso l'Europa. L'alternativa più semplice e meno onerosa sarebbe quella di ottenere i visti per raggiungere l'agognato Occidente, ma le cancellerie europee concedono i permessi con il contagocce. Solo la Francia ha allargato un po' le braccia. «Europei svegliatevi! I vostri fratelli cristiani stanno morendo. Aprite le porte e concedete alla mia gente i visti per emigrare e andarsene da questo paese orribile» esortava pochi mesi fa Douglas Bazi, prete in trincea ad Ankawa, il quartiere di Erbil che ospita i profughi fuggiti dal Califfato.
Dal 2003 sono 900mila i cristiani costretti ad abbandonare l'Iraq, antica culla della civiltà. In mezzo milione hanno lasciato la Siria. Centomila sono fuggiti solo dalla città martire di Aleppo. E altri stanno arrivando ad ondate in Europa. Lo scorso anno 42mila siriani, cristiani e musulmani, sono sbarcati in Italia attraversando il Mediterraneo. Negli ultimi mesi il grosso dei siriani è arrivato in Europa via terra lungo la rotta balcanica. Se calcoliamo che il numero totale di persone scappate dalla Siria è di 4 milioni compreso il mezzo milione di confratelli significa che 1 profugo su 8 è in media cristiano.
I tagliagole delle bandiere nere, che combattono contro il regime di Damasco non concedono alternative: o ti converti all'Islam o te ne vai, se non vieni rapito come gli oltre 200 ostaggi cristiani in mano allo Stato islamico. E se c'è un minimo sospetto che non ti opponevi al regime di Assad finisci con la testa mozzata come infedele e spia.
Secondo l'associazione Aiuto alla Chiesa che soffre i profughi cristiani in fuga verso l'Italia sono aumentati del 30% e non arrivano solo da Siria ed Iraq.
Da gennaio al 7 settembre sono sbarcati sulle nostre coste 26mila eritrei, in gran parte cristiani in fuga da una dittatura, che ha sbattuto in galera anche i preti. I migranti dall'Eritrea sono in testa alla classifica per nazionalità seguiti dai nigeriani con 12mila arrivi. I cristiani sono quelli che provengono dalle regioni del nord est infestate da Boko Haram. I seguaci con la pelle nera del Califfo, dopo aver fatto saltare in aria le chiese oltre a rapire centinaia di giovani cristiane e radere al suolo i villaggi degli infedeli si stanno espandendo anche nei paesi vicini. A fine luglio hanno decapitato 16 pescatori cristiani sulle rive del lago che confina fra Ciad e Nigeria.
I copti sotto tiro nella penisola del Sinai, infestata da bande jihadiste, fuggono dall'Egitto. Nella provincia di Minia i cristiani sono nel mirino sistematico dei rapimenti. Si calcola che gli ostaggi cristiani hanno già fruttato 16 milioni di euro in riscatti. I fedeli di Cristo arrivano in Europa anche dall'Etiopia ed in minima parte dal Pakistan, dove sono appena il 2% della popolazione.
In Libano, paese confinante preferito dai cristiani in fuga davanti alle bandiere nere, ci sono 1,1 milioni di profughi siriani. Ed in molti si stanno preparando per raggiungere il miraggio dell'Europa.

www.gliocchidellaguerra.it

L'arcivescovo caldeo di Aleppo: «La Turchia aiuta i gruppi armati»

By Avvenire
Luca Liverani

«Aleppo è nella situazione più drammatica oggi, perché è a 40 chilometri dalla Turchia: e tutti gli attacchi vengono da lì. La Turchia accoglie tutti i gruppi armati, dà loro formazione, armi e aiuti».
Monsignor Antoine Audo, arcivescovo caldeo di Aleppo in Siria, racconta di una città allo stremo, senza acqua ed elettricità da quasi due mesi. «E all’orizzonte non si intravede alcuna soluzione. La comunità internazionale non si muove, ci sono interessi economici e strategici internazionali. E dopo secoli di convivenza con i musulmani, due terzi della comunità cristiana è fuggita».
A portare in Italia la testimonianza del presule è “Aiuto alla Chiesa che soffre', la fondazione di diritto pontificio che dal 2011 ha donato oltre 8 milioni di euro per progetti a sostegno della popolazione siriana. «Aleppo è divisa in due: una parte è controllata dall’esercito governativo – spiega monsignor Audo – mentre la città vecchia, a occidente, è sotto i gruppi armati. Non è il Daesh (l’acronimo arabo dello Stato islamico, ndr), c’è soprattutto al-Nusra». Aleppo, spiega l’arcivescovo, «è attaccata almeno da cinque fronti, ogni giorno, la notte ci sono bombardamenti, entrano, escono. Sotto Assad i cristiani vivevano tranquillamente, questi gruppi estremisti hanno come missione il terrore per affermare la loro potenza».
La comunità cristiana è allo stremo: «Ad Aleppo vivevano 150mila cristiani, oggi ce ne sono 50mila a dir tanto. In Siria noi cristiani abbiamo sempre convissuto con i musulmani. Non vuol dire che non ci siano state difficoltà, ma siamo stati un esempio di convivenza molto positivo».
La situazione socio-economica è tragica: «L’80% della gente è senza lavoro, sono diventati tutti poveri, anche medici e ingegneri vanno alla Caritas per chiedere cibo e aiuto sanitario. I ricchi sono già partiti, la classe media è diventata povera e i poveri sono in miseria». Mancano elettricità e acqua: «In una città di due milioni e mezzo di abitanti è una cosa terribile. Nella chiesa in cui vivo abbiamo un pozzo per noi e per i vicini. Nelle strade i ragazzini gira con le bottiglie vuote in cerca di acqua».
Soprattutto nella comunità cristiana, però, c’è la volontà di continuare a organizzare la vita quotidiana: «Abbiamo programmato l’apertura di sette scuole con borse per tutti gli studenti, grazie anche alla Conferenza episcopale italiana che con 100mila euro ha aiutato 2.500 alunni. I nostri vicini sono soprattutto sunniti, coi quali lavoriamo costantemente: il 70% dei beneficiari della nostre attività e sono musulmani, il resto cristiani. Siamo tutti in pericolo».
Chi può scappa: «Soprattutto i giovani, per evitare l’arruolamento militare. Lo scopo di questa guerra è la distruzione. Fanno di tutto per trovare un po’ di soldi, andare in Turchia e da lì pagare per andare per mare. Sappiamo di morti terribili in mare. Questa è una guerra tra gruppi estremisti contro il regime che ha una qualificazione particolare all’interno dell’islam. E i giovani cristiani si dicono: per quale causa dovremmo combattere? Non c’è un orizzonte di soluzione».
L’arcivescovo è da 25 anni in Medio Oriente, prima in Iraq: «Capisco chi vuole partire anche se per noi è la morte, la fine della nostra presenza. Non abbiamo davanti un’altra scelta. La nostra grande paura è che Aleppo possa diventare un giorno come Mosul ». L’arcivescovo ha notizie frammentarie dei tanti cristiani rapiti: «Dei 230 cristiani in mano all’Is, che vengono da 36 villaggi assiri nel Nord-est, ne sono stati rilasciati una paio di settimane fa una dozzina, non so se perché anziani e malati o perché qualcuno ha pagato: ma vogliono 100mila dollari a persona, quasi 25 milioni di dollari». Nulla sui due vescovi rapiti alla frontiera tra Aleppo e Antiochia: «È una questione strana e complicata, non so nulla da due anni e mezzo ». E padre Paolo Dall’Oglio? «Non posso fare dichiarazioni ufficiali, ho solo una mia opinione personale che tengo per me».

16 settembre 2015

Così Inghilterra e Francia «discriminano i cristiani» nell’accoglienza dei rifugiati

By Tempi
Leone Grotti

Inghilterra e Francia hanno promesso di accogliere rispettivamente 20 mila e 24 mila migranti, ma le regole stabilite da entrambi i governi «discriminano i cristiani», cioè il gruppo di persone che ha più bisogno di accoglienza.
«CRISTIANI LASCIATI PER ULTIMI».
L’allarme è stato lanciato in Inghilterra dall’ex arcivescovo di Canterbury, Lord Carey, che ha scritto sul Telegraph: «Chi tra noi chiede da mesi compassione per le vittime siriane vive una grande frustrazione perché la comunità cristiana, ancora una volta, viene abbandonata e lasciata per ultima». Il premier David Cameron, infatti, ha annunciato che accoglierà solo chi si trova già in un campo per rifugiati delle Nazioni Unite.
DISCRIMINAZIONE.
«Ma così – continua l’ex primate anglicano – Cameron discrimina inavvertitamente le comunità cristiane, che sono le più colpite dai quei macellai disumani che si fanno chiamare Stato islamico. Non si troverà nessun cristiano nei campi dell’Onu, perché sono stati attaccati e presi di mira dagli islamisti e cacciati da quei campi. Per questo cercano rifugio nelle case private, nelle chiese». Invece che discriminare i cristiani, «l’Inghilterra dovrebbe considerarli una priorità perché sono il gruppo più vulnerabile. Inoltre, noi siamo una nazione cristiana e i cristiani siriani non farebbero fatica a integrarsi. A qualcuno non piacerà quello che sto per dire, ma negli ultimi anni l’immigrazione di massa musulmana in Europa è stata eccessiva e ha portato alla nascita di ghetti che vivono in modo parallelo nella società».
APPELLO DEGLI ANGLICANI.
Dopo la pubblicazione di questo articolo, l’attuale arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, ha parlato personalmente del problema durante un incontro privato con il premier inglese. A lui ha ripetuto le parole pronunciate lunedì davanti alla Camera dei Lord: «Nei campi dell’Onu è diffusa la radicalizzazione e l’intimidazione. Così, la popolazione cristiana è stata costretta a fuggire dai campi. Qual è la politica del governo per raggiungere anche i profughi che non si trovano nei campi?».
«CONSEGNE PRECISE» IN FRANCIA.
Il problema della discriminazione dei cristiani nell’accoglienza dei rifugiati non riguarda solo l’Inghilterra, ma anche la Francia. L’esperto di Siria all’università di Tours, Frédéric Pichon, ha dichiarato lo scorso 11 settembre su Radio Courtoisie: «Oggi pomeriggio ho parlato con un alto funzionario della Repubblica che lavora nell’accoglienza dei rifugiati e che mi ha detto che potevo ripetere questa cosa a tutti. Quindi colgo l’occasione per farlo: esistono delle precise consegne da parte del governo per ignorare il problema dei cristiani d’Oriente».
INUTILE CHIEDERE VISTI.
Innanzitutto, secondo le informazioni di Pichon, il motivo per cui «cristiani iracheni e siriani attendono da otto mesi un visto all’ambasciata di Francia in Libano» è che «i dossier vengono esaminati da una compagnia privata libanese di proprietà di un musulmano sunnita». Continua: «È un alto funzionario, è un prefetto che me l’ha detto e ha consigliato ai cristiani di non chiedere visti ma di tentare di passare per la Turchia» e poi per le strade illegali percorse da tutti gli altri migranti «se vogliono avere delle chance».
CONTRO IL REGIME.
Ma quali sarebbero le «consegne precise» del governo? «Come mi ha detto il funzionario, il concetto è questo: “Si possono accogliere siriani, ma a condizione che non siano favorevoli al regime [di Assad]”. Sottinteso: se siete alawiti o cristiani, siete considerati pro-regime, e quindi il vostro visto» non arriverà mai.
TRADUTTORI ARABI.
Questo non è l’unico problema. Intervenuto alla stessa trasmissione, Marc Fromager, direttore di “Aide à l’Eglise en détresse”, ha rivelato: «È da anni che in Francia ricevo testimonianze di questo tipo. Ad esempio, i cristiani egiziani che scappano dal loro paese perché sono minacciati. Il loro caso viene affrontato con l’aiuto di traduttori dall’arabo, che sono quasi tutti di origine magrebina musulmana. Stranamente, non capita quasi mai che questi cristiani vengano riconosciuti come aventi diritto all’asilo politico e così sono respinti. Invece, i musulmani vengono accolti molto facilmente. Ci vorrebbero dei traduttori neutri sul piano religioso e che facciano bene il loro lavoro in ogni caso. Era evidente che i cristiani [egiziani] erano in pericolo fisico».

14 settembre 2015

Piana di Ninive, i cristiani di Alqosh in processione per la festa della Santa Croce

By Fides

Nella Piana di Ninive, ancora in gran parte sottomessa al controllo dei jihadisti del sedicente Califfato Islamico, nella sera di ieri, domenica 13 settembre, circa mille cristiani hanno compiuto una processione tra campi e colline aride per raggiungere un monastero mariano fuori città e celebrare la solennità della Santa Croce. E' accaduto a Alqosh, città della Piana di Ninive mai caduta nelle mani del Califfato Islamico, che pure ha stabilito la sua roccaforte a Mosul, distante meno di 50 chilometri.
La moltitudine di pellegrini ha voluto ripetere il gesto di devozione che compie ogni anno, raggiungendo, tra canti e preghiere, il Santuario caldeo di Nostra Signora di Alquosh, che dista dal centro abitato più di un chilometro. Al calare della sera, mentre era in corso il pellegrinaggio, la città appariva punteggiata da molte croci luminose accese sui tetti e sulle facciate delle case. Anche la grande croce posta sul fianco della montagna è stata illuminata per tutta la notte, ben visibile anche da molto distante, mentre nel buio sopraggiunto venivano fatti brillare anche i fuochi d'artificio.
Nella città di Alquosh – riferisce il website iracheno ankawa.com - hanno trovato rifugio anche centinaia di famiglie cristiane fuggite dagli altri villaggi della piana di Ninive caduti sotto il dominio del Califfato Islamico. “Con questa processione, e coi segni esteriori ben visibili che l'hanno accompagnata” sottolinea all'Agenzia Fides il sacerdote iracheno siro cattolico Nizar Seeman, “i cristiani di al Qosh hanno mandato anche un segnale commovente, che ci interpella tutti. Hanno voluto dire: siamo ancora qui, anche se nessuno ci protegge, perché abbiamo fiducia che a proteggerci ci pensa il Signore Gesù, con Maria sua Madre”.

Direttore Caritas: Il Libano, più dell’Europa, accoglie i profughi siriani. Ma la soluzione è la fine della guerra


“Per fermare il flusso dei rifugiati il problema è uno solo: risolvere la questione della guerra in Siria”. E per trovare una pace vera “non fallita in partenza” occorre non escludere nessuno dal tavolo delle trattative, neppure Bashar Assad.
P. Paul Karam, direttore di Caritas Libano va subito diritto al punto, partendo dall’esperienza che lui e i libanesi hanno nell’affrontare l’emergenza dei profughi. In oltre quattro anni, il Libano ha ospitato quasi 1,5 milioni di rifugiati siriani e deve affrontare gli squilibri demografici, economici, politici, di sicurezza che tutto questo comporta. Per lui la comunità internazionale è anzitutto indifferente, chiudendo gli occhi davanti alla vendita di armi, ai finanziamenti per i terroristi. Ed è anche incapace a lavorare per il bene comune, lasciando che ogni Paese si muova sullo scacchiere medio-orientale per i propri interessi e on per il bene comune. Il consiglio all’Europa è semplice: occorre trovare una via della pace in Siria, senza escludere nessuno. Ecco l’intervista che p. Paul Karam ci ha rilasciato.

L’Europa sta affrontando una crisi quasi epocale con tutti i rifugiati – in maggioranza siriani - che premono alle sue porte. Vi è generosità, ma anche inefficienze e chiusure. Diversi si lamentano che i rifugiati sono troppi. Com’è il paragone con il Libano?
Riguardo alla polemica sui profughi, mi permetta di dire subito che per fermare il flusso dei rifugiati il problema è uno solo: risolvere la questione della guerra in Siria. Se fermiamo la guerra e il traffico delle armi, i finanziamenti al terrorismo, tutto può essere controllato. E’ un problema che la comunità internazionale si deve assumere.
Per il resto, capisco molto bene quello che sta davanti ad alcuni Paesi europei con il flusso continuo di persone che fuggono dalla guerra. Noi viviamo questo dramma già da quattro anni e vi siamo ancora immersi.
Il Libano ha più di un milione e mezzo di rifugiati dalla Siria. I registrati sono 1,2 milioni, ma poi vi sono quelli non registrati. A questi sono da aggiungere almeno mezzo milione di palestinesi. Quindi vi sono quasi due milioni di rifugiati per 4,5 milioni di popolazione: il Libano ha un fardello di rifugiati pari circa al 50%  della popolazione! E’ come se l’Italia, invece che 150mila, dovesse ospitare 30 milioni di profughi! Il Libano sta compiendo un gesto davvero eroico accogliendo tutte queste persone, soprattutto se lo paragoniamo con altri Paesi che hanno territorio, possibilità economiche e demografiche molto più ampi e ricchi.
Il problema si pone anche per il futuro: la venuta di un gran numero di profughi porta scosse e squilibri a livello della demografia, della sicurezza, dell’economia e della politica …
Non so se fra qualche anno l’Europa potrà far fronte ai problemi che seguiranno, come ad esempio la crescita di delinquenza (come sta avvenendo in Libano). Non si può andare avanti così, trovando soldi per finanziare armi, scontri ecc e non trovare il modo per fermare tutte queste guerre in Medio oriente.
Non tutti i Paesi della regione sono ospitali come il Libano.
Già: come mai solo alcuni Paesi europei devono accogliere i rifugiati? I Paesi del Golfo, l’Arabia saudita non hanno mai accettato di accoglierli. E’ una domanda che la comunità internazionale deve porsi. Non ci si può accontentare solo di dare soldi per aiutare qualche Paese ospitante, lavandosene poi le mani.
Noi della Caritas aiutiamo tutti, cristiani e musulmani. I Paesi del Golfo danno donazioni a fondazioni islamiche, che poi le distribuiscono ai bisognosi musulmani.
Leggevo qualche giorno fa su un giornale che “l’Arabia saudita ha accolto 500 profughi”, ma in realtà questi erano solo dei migranti economici, dei lavoratori e non dei rifugiati.
Occorre mettere in chiaro chi sono i rifugiati. Papa Francesco dice bene: dobbiamo accogliere gli stranieri, ma secondo le nostre capacità, le capacità del Paese.  Perfino la Germania ha dovuto bloccare il flusso dei profughi perché le sue strutture sono al collasso… E cosa dovrebbe dire il Libano che ha già qui, sul suo territorio una popolazione di rifugiati siriani pari a più di un terzo della sua popolazione?
La comunità internazionale da quattro anni dice: Non vi preoccupate, vi aiutiamo. Ma questo non risolve nulla. E’ necessario aprire trattative con Assad e dialogare per cercare di far terminare questa guerra, cercando la pace più adeguata.
La questione dei rifugiati è molto legata ad Assad: diversi Paesi europei (come Francia e Gran Bretagna) mostrano il dramma dei rifugiati colpevolizzando (solo) Assad per la situazione. La stessa cosa la fanno i Paesi del Golfo. Perfino l’Organizzazione della cooperazione Islamica, conclude che “la piaga dei rifugiati è colpa di Assad”.
Occorre guardare tutta la situazione, qual è la via che può risolvere la guerra in Siria.  Abbiamo già visto il risultato della guerra in Iraq; quello della guerra in Libia; quello delle rivoluzioni in Egitto e in Tunisia….  Io non capisco come mai la comunità internazionale non comprenda che non basta cambiare il leader, non basta togliere di mezzo Assad per far andare bene le cose in Siria. Dopo di lui chi verrà? E’ importante che la comunità internazionale si domandi anche sul futuro di questi Paesi.
Quali sono le vere emergenze?
Noi operiamo in condizioni molto difficili. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati ha ridotto gli aiuti per mancanza di fondi; lo stesso ha fatto il World Food Programme… Come si può pensare che un Paese piccolissimo come il Libano possa risolvere questo grande problema? Non si può andare avanti. La comunità deve affrontare la situazione. E la soluzione è la via della pace, del negoziato, senza escludere nessuno, neanche Assad. Dopo di Assad chi viene? Daesh? Il gruppo che ha ucciso tanti cristiani e musulmani e che ha prodotto il loro esodo da Mosul e la Piana di Ninive? Questa sarebbe la soluzione? Questa sarebbe la primavera araba?
Se va via il regime di Assad, i problemi rimarranno: chi sta vendendo le armi in Medio oriente? Chi sta vendendo il petrolio di Daesh attraverso la Turchia?  Chi sta finanziando le milizie fondamentaliste? In questa guerra ogni Paese sembra avere un interesse particolare. E il Libano e la Giordania sono vittime. A noi tocca risolvere il problema di come nutrire tutti questi profughi, trovare scuole per loro, come medicarli, come trovare i kit igienici…. E la comunità internazionale che dice:  Ci spiace, non abbiamo i fondi, arrangiatevi.
E’ urgente risolvere il problema della guerra, mettendosi attorno a un tavolo, senza escludere nessuno e trovare una pace vera. Spero proprio che la comunità internazionale cerchi il bene comune e non il bene di uno o dell’altra potenza. Il Medio oriente sta soffocando e ha bisogno di una pace vera e non fallita in partenza.

Sako: «Ora i cristiani chiedono a noi di organizzargli la fuga»

By Vatican Insider - La Stampa
Gianni Valente

«Adesso la nostra gente ci critica. Vogliono che noi troviamo per loro gli aerei, i visti per partire e anche le case di accoglienza nei Paesi europei. Questo è impossibile. Uno Stato non può farlo. E non può farlo neanche la Chiesa».
Si dice preoccupato Louis Raphael I, Patriarca caldeo di Baghdad. Non lo convincono nemmeno certe ricadute della nuova politica europea verso i profughi in fuga dalla Siria e da altri scenari di guerra. Una mobilitazione in cui pure sono state coinvolte anche tante Chiese sorelle del Vecchio Continente. Perplessità a preoccupazioni che sente di condividere con tanti altri pastori delle Chiese d’Oriente.
Come vede le ultime mosse della comunità internazionale riguardo al Medio Oriente? Si muove finalmente qualcosa?
«Venerdì scorso mi sono incontrato alla cattedrale caldea con tutti i capi delle Chiese presenti a Baghdad, insieme a tante suore e sacerdoti. Ci chiediamo come mai accade ora tutto questo, dopo 4 anni di guerra in Siria e dopo 12 di conflitti e stragi in Iraq. Dopo che la situazione si è lasciata incancrenire per così tanto tempo. C’è qualcosa di enigmatico in questa dinamica. Sono preoccupato».
Si riferisce alla questione dei rifugiati? La preoccupa chi apre le porte o chi le chiude?
«La questione non si può affrontare in materia sentimentale e superficiale. Serve un discernimento. Le soluzioni durevoli sono solo quelle che si possono realizzare sul posto. Soluzioni che richiedono tempo, e la pazienza di avviare e accompagnare i processi. Ma questo non sembra interessare ai capi delle nazioni e agli organismi internazionali. Preferiscono operare sull’onda delle emozioni suscitate nell’opinione pubblica». 
C’è chi suggerisce di accogliere prima i profughi cristiani e quelli delle minoranze religiose perseguitate. È una buona idea?
«Questo non si può fare. Diventerebbe un problema anche per noi. Alimenterà tutti quelli che dicono che vogliono dare una giustificazione religiosa alle guerre. Quelli che da una parte e dall’altra dicono che qui i cristiani non possono stare. I Paesi europei devono accogliere chi ha veramente bisogno, senza guardare la religione. E devono evitare di agire alla cieca. E di favorire chi gioca sempre con la pelle dei cristiani».
A cosa allude?
«Esistono agenzie e gruppi che aiutano i cristiani a andar via. Hanno proprio come missione quella di aiutare l’esodo dei cristiani. Lo finanziano. Lavorano per spingere i cristiani a lasciare i propri Paesi, e lo dicono apertamente, presentandola come un’opera a favore dei perseguitati. Non so quale strategia perseguano. Forse, quando questi Paesi saranno vuoti dell’intralcio dei cristiani, sarà più facile scatenare nuove guerre, vendere e sperimentare nuove armi. Bisogna studiare questi fenomeni, altro che chiacchiere».
Ma è possibile fermare padri e madri di famiglia che vogliono dare una speranza di futuro dei loro figli?
«Noi non fermiamo nessuno. Sarebbe ingiusto, oltre che impossibile. Ma non possiamo neanche spingerli a fuggire. Adesso la nostra gente ci critica. Vogliono che portiamo gli aerei, i visti e che gli troviamo le case di accoglienza negli altri Paesi. Questo è impossibile. Uno stato non può farlo. E non può farlo neanche la Chiesa. Una comunità cristiana che è nata in queste terre non può mettersi a organizzare i viaggi dell’esodo che segnerà la sua estinzione. La scelta di partire possiamo rispettarla come scelta personale, ma non possiamo istigarla noi».
Quindi c’è chi chiede alle chiese stesse di organizzare la fuga di massa...
«Vuol dire che adesso c’è davvero il pericolo che nessun cristiano rimarrà in Medio Oriente, in Iraq, in Siria. In questo momento è irresponsabile ogni dichiarazione che adesso possa avere l’effetto di incitare la nostra gente alla fuga. Non si può parlare senza tener conto di tutti i fattori, delle possibili conseguenze e di come le nostre parole possono essere interpretate».
Secondo alcuni, l’apertura improvvisa agli immigrati risponde anche a calcoli economici. Davvero c’è in ballo anche questo?
«Sento dire che vogliono giovani, che non vogliono i vecchi e i malati. E su questa linea convergono governi di destra e di sinistra. C’è qualcosa di strano. Io posso confermare che non vanno via solo gli sfollati. I preti mi raccontano che sta andando via anche chi economicamente non sta messo male, magari ha il lavoro in banca. Gente che non avrebbe bisogno. Sentono che adesso si è aperta un’occasione, temono che presto questa finestra si chiuderà, e ne approfittano. Mentre quelli davvero più poveri non ci pensano a andar via. È una perdita per tutti. Vanno via le forze migliori, le uniche che potevano tentare di ricostruire ciò che è stato distrutto in questi anni. E questo riguarda noi cristiani in maniera particolare. I cristiani con la convivenza, con la loro apertura e la loro umanità, potevano avere un ruolo decisivo nella terra dove sono nati e sono sempre vissuti i loro padri. Potevano anche col tempo aiutare i loro concittadini musulmani a liberarsi dell’ideologia jihadista che fa tanto soffrire anche loro. Noi abbiamo aperto chiese, ma anche scuole, ambulatori e ospedali. C’è una rete di realtà che per tanto tempo ha contribuito realmente a migliorare la convivenza e le vita sociale della collettività, offrendo un servizio a tutti. Adesso anche tutto questo è destinato a spegnersi».
Lei, nell’ultimo anno, ha lottato nella sua Chiesa contro il fenomeno dei preti e dei religiosi che emigravano in Occidente senza il consenso del proprio vescovo…
«I preti e i religiosi che scappano dal Medio oriente sono “emigranti di lusso”. Approfittano del loro status, delle conoscenze e degli appoggi ecclesiastici per scappare, presentandosi come perseguitati e sfruttando questa etichetta per guadagnare anche soldi. A volte, c'è chi con la parola-chiave della persecuzione riesce a mettere in piedi un “business” redditizio e sacrilego.  Molti di loro sono scappati da zone sicure, dove non c’era nessuna persecuzione, e poi hanno aiutato anche tutta la loro famiglia a trovare una bella sistemazione comoda magari in Nord America. Senza l’autorizzazione del proprio vescovo, e tradendo lo spirito del buon pastore».
Ma servono pastori anche nelle comunità dei cristiani mediorientali emigrati in Occidente…
«I vescovi che seguono le comunità della diaspora non possono venire a “rubare” i preti in Medio Oriente. Che li cerchino nelle loro comunità, che loro dicono essere così fiorenti. Se abbiamo abbracciato il sacerdozio in queste terre, la nostra vita è già data al Signore, e non dobbiamo pensare a cercare il lusso per il nostro clan familiare. Questi “emigranti di lusso” hanno dato il cattivo esempio al popolo. Il nostro sacerdozio va speso qui dove la gente soffre. Per stare accanto a loro, mostrare che anche qui, in questa situazione, è possibile vivere la gioia del Vangelo».
Di recente, avete denunciato la sottrazione illecita di case e terreni appartenenti ai cristiani andati via. E questo non solo nelle terre finite sotto il Califfato…
«Le aree sotto il Daesh non vengono liberate. Forse questo fa comodo a qualcuno. Intanto, adesso, anche a Baghdad e a Kirkuk  le case e le terre dei cristiani vengono illecitamente espropriate. C’è il rischio di veder alterati per sempre gli equilibri demografici in quelle zone. Ci vuole un’azione internazionale per imporre che siano rispettati anche i diritti e le proprietà di chi è stato costretto con la forza a andar via e magari pensa di tornare. L’Onu si dovrebbe occupare di queste cose».
Esiste una via per uscire dal supplizio del Medio Oriente?
«L’ho detto all’incontro della Comunità di Sant’Egidio a Tirana, e poi anche a Parigi, alla conferenza organizzata dall’Œuvre d’Orient: Non c’è nessun “bottone magico” che si può schiacciare per risolvere tutto in un momento. Ci vorrà chissà quanto tempo per provare a risanare una situazione così devastata. Per sconfiggere l’ideologia jihadista occorre coinvolgere le autorità musulmane e i governi arabi. Invece i circoli del potere occidentale hanno sostenuto proprio le forze e gli Stati dove i jihadisti hanno sempre trovato più appoggi. Adesso, riguardo ai rifugiati, si fa leva sul senso di umanità che fortunatamente ancora esiste in tante persone. Ma intanto vengono oscurate le connivenze e le protezioni di cui hanno goduto i jihadisti, i flussi di soldi e di armi. Hanno iniziato dal 2003 le guerre contro il terrorismo e per la democrazia, e il risultato è che è nato questo mostro del Daesh. Vorrà pur dire qualcosa».