Un altro colpo alla presenza cristiana è
stata l’emigrazione, talvolta dovuta a persecuzioni dirette, spesso
alle difficoltà economiche, alle guerre, alla pressione sociale. Rimane
il fatto che le comunità cristiane sono tutte microscopiche. Ho visitato
la piccola chiesa armeno-cattolica di Teheran: circa 200 persone, una
sessantina di famiglie. Per 2 anni sono rimasti senza vescovo e questo,
oltre all’emigrazione all’estero, ha contribuito a una maggiore
dispersione. L’episcopio – parola grossa– è una casetta a due piani, con
una scaletta interna ripida e stretta. Metà degli spazi sono dedicati
agli uffici e metà all’appartamento del vescovo,
mons. Neshan
Karakeheyan, amministratore patriarcale di Isfahan, che ha ormai
raggiunto l’età della pensione e sembra molto stanco. Mentre ci offrono
dolci (è domenica) e un tè, mi parla della loro situazione. Il vescovo
fa notare che in Iran non c’è persecuzione violenta e c’è sicurezza per i
cristiani, ma non si può dire che i cristiani abbiano tutti i diritti
come gli altri cittadini: si è ben accetti, ma non si deve fare
proselitismo (e missione); si fa pastorale interna alla comunità, ma
niente visibilità all’esterno; e soprattutto niente conversioni. Un
ritornello che in molti mi hanno ripetuto è che le comunità cristiane
sono costrette a mandare via tutte le persone musulmane che vengono a
chiedere il battesimo, perché questo creerebbe un forte contrasto col
governo.
Ascoltando alcuni laici vengo a conoscere di una certa emarginazione
nella società: gli armeni hanno molti dottori, ma nessuno di loro
diviene primario; vi sono molti soldati (il servizio militare è
obbligatorio), ma nessun armeno diviene generale o colonnello; vi sono
molti insegnanti, ma nessuno è preside. Anche nelle scuole armene, il
direttore è fissato dal governo ed è musulmano. Nelle scuole si segue il
curriculum governativo, ma le scuole cristiane hanno la libertà di non
insegnare l’islam e hanno invece 2 o 3 lezioni alla settimana di
catechismo per gli studenti armeni.
Per molte attività pastorali (catechismo, incontri, ecc…) il venerdì,
che qui è giorno di festa, ha preso il posto della domenica. Qualche
comunità celebra perfino la messa “domenicale” al venerdì perché i loro
membri non riescono ad avere altro giorno libero durante la settimana.
Le chiese cristiane affascinano gli iraniani per il silenzio che vi
domina, l’armonia, la bellezza, i dipinti: la cultura iraniana non ha
mai digerito l’iconoclastia fondamentalista e ha sempre usato la pittura
e la miniatura perfino per dipingere il profeta Maometto. Di recente,
solo durante il periodo di Khomeini vi è stata una chiusura al dialogo
con le altre tradizioni religiose. All’uscita della chiesa, a un lato
dell’edificio, vi è una grotta di Lourdes, con tanti ex voto di persone
guarite o di donne che hanno potuto avere figli grazie alla Vergine.
Davanti alla statua di Maria, una donna si ferma in silenzio, avvolta
nel chador nero. Dopo che si è allontanata, mi dicono che è una
musulmana sposata da diverso tempo e che non riesce ad avere figli. Così
viene spesso davanti alla Vergine per chiedere questa grazia.
Ci spostiamo nella chiesa di san Giuseppe, dove si raduna la comunità
caldea. Nel cortile interno ci accoglie un sacerdote che ci regala le
“palme” della domenica delle Palme. Qui però non si usano i rami di
ulivo, ma quelli di qualche pianta da fiore con lo stelo rosso e con
piccoli germogli di foglie, molto profumate.
Dopo alcuni minuti in preghiera, andiamo dal vescovo,
mons. Ramzi
Garmou, un settantenne dall’aria nobile e robusta, che serve circa 2mila
fedeli. Ad una mia domanda sulla missione della Chiesa, anche lui mi
dice che devono allontanare i musulmani che chiedono di essere
battezzati. Anche mons. Ramzi fa notare però che i cristiani in Iran
vivono sicuri, senza attacchi di sorta. E fa il paragone con l’Iraq e
con quanto gli racconta spesso il patriarca di Baghdad,
Mar Louis Sako,
suo superiore.
L’impressione che i cristiani vivano come in un ghetto, tollerati, ma
divisi e isolati dal resto della società, è fortissima quando vado a
visitare il centro Ararat, della comunità armena apostolica. Il centro è
dotato di tutto: piscina, campo di calcio, una chiesa armena moderna,
un bar, e perfino una scuola di danza e di musica per bambine e
ragazzine armene. Al tempo di Khomeini era proibito il canto e la danza.
Anche di recente, sotto Ahmadinejad, il predecessore di Rouhani, vi
sono state campagne moralizzatrici contro i giovani che si trovavano a
cantare e danzare. Ma al presente, almeno a Teheran, si incontrano
giovani che nei giardini suonano la chitarra o osano portare magliette
con le maniche corte..
Per ogni evenienza, la direttrice della scuola di danza mi chiede di
non pubblicare le foto delle piccole e degli esercizi. Va detto che
l’entrata al Centro è proibita ai musulmani. Eppure tutti sembrano
contenti di questa situazione: i musulmani, che me lo presentano come un
esempio di tolleranza, e gli armeni, che applaudono al governo per
questa libertà concessa. Ai presenti chiedo se in questo modo si sentano
influenti nella società. Risposta: per nulla.
Alla fine facciamo visita alla piccola cappellina armena, in stile
moderno, ma con la tipica cupola a cono e con arte armena
contemporanea, piena di afflato spirituale. Attorno all’edificio vi
sono alcune antiche pietre tombali portate là da cimiteri armeni in
tutto l’Iran, segno della lunga storia di questa comunità perseguitata
nei secoli. All’interno della chiesa, vi è una scultura, una Madonna
con bambino stilizzata, che potrebbe figurare molto bene in un museo di
arte moderna. Anche rinchiusa in un ghetto, la creatività non si è
inaridita.
I tre giorni del triduo Pasquale li ho vissuti con la comunità dei
salesiani di Teheran, che hanno la responsabilità della comunità latina.
Essa è una comunità internazionale che attorno al rito latino
raccoglie, insieme a pochi iraniani, diplomatici stranieri e lavoratori
stranieri: indiani, coreani, filippini, congolesi, italiani, inglesi,
francesi. In passato, per la presenza di molti stranieri e di
un’economia galoppante, questa comunità era molto numerosa. Ora
l’embargo e le difficoltà finanziarie dell’Iran hanno ridotto la sua
consistenza a poche centinaia di fedeli. Il padre di questa comunità è
mons. Ignazio Bedini, vescovo di Isfahan dei latini, ormai 75enne. Il
vescovo, amato da tutti, è in Iran da 50 anni e ha vissuto tutti i
passaggi di regime: dallo scià a Khomeini, da Khatami ad Ahmadinejad,
fino a Rouhani. In attesa di dare le dimissioni, si è lanciato nel
progetto di costruire la nuova cattedrale dei latini, che sta emergendo
in un quartiere nuovo, e che sarà dedicata al Sacro Cuore. I
salesiani stanno anche cercando benefattori per sostenere quest’opera
così importante, che rende presente la comunità nei nuovi quartieri
della capitale. Il terreno – molto difficile da ottenere - è stato
concesso da Rouhani, ma il progetto ha dovuto sottostare alle regole di
sempre: la facciata non deve essere visibile dalla strada.
Parlando con
diversi cristiani, si percepisce il timore che la
ventata di novità di Rouhani sia solo passeggera. E vi è anche un po’ di
sfiducia perché
“in tutti questi anni abbiamo sentito parlare molto e
promettere molto, ma poi non si è verificato nulla”.