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27 ottobre 2014

Iraq, parla Sako: «Non solo armi contro il Califfo, ma educazione. I musulmani non si libereranno dai jihadisti se non cambieranno l’islam»

By Tempi
Rodolfo Casadei

Martedì scorso Sua Beatitudine Louis Raphael Sako I, patriarca di Babilonia e capo della Chiesa caldea, è stato il protagonista dell’incontro pubblico “Sperare contro ogni speranza – Testimonianza dal martirio dei cristiani iracheni”, organizzato a Milano da Fondazione Tempi e dal Centro Culturale di Milano (leggi la nostra cronaca della serata). Alla vigilia dell’evento il patriarca ci ha rilasciato l’intervista che segue.
Eccellenza, sono passati quasi tre mesi dall’esodo dei cristiani di Mosul, Qaraqosh e delle cittadine della Piana di Ninive sotto l’avanzata dei jihadisti dello Stato islamico. Che ne è di queste comunità? In che condizioni si trovano dal punto di vista materiale e da quello psicologico?
Le loro condizioni materiali sono tuttora miserevoli, perché sono fuggiti quasi soltanto coi vestiti che avevano addosso e poche altre cose. Sono scappati in preda al panico. Il morale è basso, perché a due mesi dall’esodo non ci sono novità che facciano loro sperare di poter tornare a breve nelle loro case. I loro villaggi sono tuttora occupati dai jihadisti e le loro proprietà sono state saccheggiate. L’emigrazione sta spaccando le famiglie: alcuni sono partiti per l’estero, altri sono rimasti in Iraq. C’è scoraggiamento sia a livello psicologico sia a livello spirituale.

I profughi si trovano nelle stesse sistemazioni di fortuna nelle quali li abbiamo trovati in agosto?
Col comitato di aiuto abbiamo cominciato a prendere alloggi in affitto per loro, ma non è facile trovare abitazioni per 120 mila persone! Avevano belle case, ampie, adesso devono vivere in dieci per stanza. Recentemente ho visitato una famiglia di 18 persone che vivevano tutte nella stessa stanza! Non hanno più redditi, e allora è la Chiesa che paga per loro gli affitti, grazie ad aiuti finanziari che arrivano da tutto il mondo, da tutte le Chiese d’Oriente e d’Occidente.

Giunge notizia che molti cristiani chiedono di organizzarsi militarmente per difendersi e che effettivamente sono sorte milizie cristiane di vari partiti e di fedeli di diverse Chiese. Cosa pensa il patriarca caldeo di questo fenomeno?
Non è un’opzione realistica. I partiti che promuovono queste milizie sono piccoli e non esercitano influenza sulla politica generale. Organizzare milizie cristiane in queste condizioni è un suicidio. Chi vuole difendere o riconquistare i villaggi farebbe bene a integrarsi nell’esercito nazionale, oppure per quanto riguarda la regione settentrionale nei peshmerga. La verità è che la maggioranza dei cristiani non si fida più di niente e di nessuno, nemmeno dei vicini di villaggio di altra religione: molti di essi hanno partecipato alle razzie contro i villaggi cristiani. La cosa più logica è entrare nelle forze armate dei curdi. Isolate, le milizie cristiane costituirebbero un facile bersaglio.

I profughi cristiani e delle altre minoranze dell’Iraq settentrionale non hanno bisogno solo di aiuti umanitari, ma di giustizia. Cioè di poter tornare in possesso delle case e delle proprietà di cui sono stati derubati. Lo Stato iracheno non appare in grado di rendere giustizia a queste vittime. Cosa dovrebbe fare la comunità internazionale?
Né il governo centrale, né il governo regionale del Kurdistan in questo momento possono fare qualcosa di serio per i profughi. Non hanno i mezzi né per lo sforzo umanitario richiesto, né per riconquistare i territori perduti. Devono usare tutte le loro attuali risorse per organizzare la difesa militare del territorio che ancora controllano. Tutte le capacità organizzative ed economiche sono concentrate nella difesa. Ad aiutare i profughi sono le Chiese e le organizzazioni internazionali.

E per quanto riguarda un intervento di polizia internazionale, più volte invocato dalle Chiese orientali, per restituire ai profughi le loro terre e le loro case?
Abbiamo il sacrosanto diritto di essere difesi e protetti, perché si tratta delle nostre case e della nostra terra. E siccome il governo iracheno è incapace di far rispettare questo diritto, c’è una responsabilità morale della comunità internazionale di fronte a questa ingiustizia. Questa responsabilità è più forte per quanto riguarda gli americani, perché all’origine dell’anarchia di oggi ci sono le loro azioni, antiche e recenti. Non basta bombardare i jihadisti, bisogna mandare delle truppe di terra. Dire oggi che l’intervento durerà tre anni o dieci anni, come hanno fatto i responsabili americani, è un modo di incoraggiare l’Isil, non di combatterlo; ed è un modo per scoraggiare i profughi, che capiscono che non potranno tornare per lungo tempo nelle loro case. Nell’immediato è necessario l’intervento militare, ma poi bisognerà soprattutto contrastare questa ideologia che si va diffondendo dappertutto, in Occidente come in Oriente, e che seduce tanti giovani fornendo loro un ideale per il quale vivere o morire. Tanti giovani musulmani che soffrono per l’ingiustizia o la disoccupazione, che sono discriminati per le loro condizioni sociali o per il loro credo religioso, sono attirati dalla propaganda dello Stato islamico.

Cosa pensa di quello che è stato fatto finora a livello di uso della forza, cioè gli attacchi arerei degli Stati Uniti e dei loro alleati, e l’invio di armi all’esercito iracheno e ai peshmerga? 
Penso che è una soluzione parziale che funzionerà per poco tempo. Non siamo nemmeno sicuri che le armi mandate all’esercito e ai peshmerga presto non finiscano nelle mani dei jihadisti o che servano per altre guerre. La soluzione permanente non sta nelle armi, ma nell’educazione, nella formazione umana. Occorre il dialogo, il negoziato. E serve anche la saggezza politica: le rivendicazioni dei curdi, degli arabi sunniti, dei turcomanni potrebbero essere risolte con l’istituzione di un sistema federalista. Questo sarebbe molto meglio che continuare con queste guerre interne che sfoceranno inevitabilmente nello smembramento dell’Iraq.

Lei ha detto in un’intervista che per i musulmani iracheni i cristiani che vivono nel paese «sono come fiori». Cosa intende dire?
Sì, lo dicono tutti: per la loro condotta, onestà, apertura, formazione scientifica e professionale, i cristiani costituiscono una élite. Sono il fior fiore della nazione. Sono differenti dagli altri, sono pacifici, aiutano il prossimo e sono molto qualificati nelle professioni che svolgono. Mentre fra i musulmani, sunniti e sciiti, ci sono problemi politici aperti che sfociano nel conflitto e nella violenza.

Come stanno reagendo i musulmani sunniti iracheni alle vicende di questi mesi? Arrivano segnali positivi o negativi?
Purtroppo sono più numerosi i segnali negativi. Il problema in Iraq è che con la deposizione di Saddam Hussein gli arabi sunniti hanno perso il potere che avevano. Fra loro e l’Isil ci sono forti differenze e contrasti sia politici sia religiosi, ma hanno in comune un obiettivo: diminuire il potere degli sciiti, aumentare quello dei sunniti, creare uno Stato islamico che impedisca l’avanzata sciita. Su questo punto collaborano. L’Isil però vuole uno Stato dove la legge islamica sia applicata sul modo wahabita, mentre gli altri sunniti sono più moderati. Tutti i sunniti oggi soffrono, e questo li porta a provare simpatia per l’Isil, anche se non accettano la loro ideologia estremista. È la solita logica politica: il nemico del mio nemico è mio amico.

Lei ha detto in varie interviste che il terrorismo non si sconfigge solo con mezzi militari, ma è decisiva l’educazione dei musulmani a un retto sentire religioso. Che cosa intende?
C’è una crisi nel mondo musulmano dovuta al fatto che non c’è un’autorità forte e centrale che decide sull’ortodossia. L’obiettivo di una nuova educazione dei musulmani dovrebbe essere quello di contrastare il messaggio di violenza e intolleranza proprio dei jihadisti, che rifiuta il pluralismo, la diversità, la democrazia, la libertà. A questo fine devono cambiare i programmi di religione nelle scuole dei paesi musulmani, si deve parlare dei credenti delle altre fedi in maniera positiva e con rispetto, con apertura. La soluzione è in un islam equilibrato e aperto.

Oggi ci sono sintomi di un cambiamento in questa direzione nelle scuole e nelle moschee?
Non ancora, c’è un grande lavoro da fare in questa direzione. Occorre intervenire sui programmi religiosi dei canali televisivi, spesso sbilanciati, sui sermoni degli imam nelle moschee. Adesso sono quasi interamente dedicati a spiegare le differenze fra le varie correnti religiose, e a dire che si tratta di eresie ed errori. Questo finisce per generare odio verso le altre religioni e i loro credenti in chi ascolta. Bisogna spiegare che il jihad non può essere una guerra contro chi è diverso; deve essere una battaglia di idee contro questa ideologia che distrugge i monumenti del nostro patrimonio storico e uccide le persone in carne e ossa. Serve un jihad per il bene, la stabilità, la pace, il rispetto.

Ha visto la lettera dei 120 saggi islamici che condannano le azioni dell’Isil? Che cosa ne pensa? Secondo alcuni meritano un ringraziamento, ma quello che hanno scritto non è ancora abbastanza.
Ho incontrato il principe Ghazi di Giordania, uno degli ispiratori di questo testo. È un primo passo, ma ci vuole di più. La spiegazione dei versetti coranici deve essere più approfondita e devono essere cercati i punti comuni fra musulmani e cristiani. Invito i musulmani a fare una profonda riflessione non solo sulla dottrina religiosa, ma sulla sua pratica. Nel mondo d’oggi occorre separare la religione dalla politica, perché la religione si basa sui valori, la politica sugli interessi. Dunque ci vogliono interventi più chiari e più forti, che non solo condannino gli atti dei terroristi, ma che dimostrino che la rottura con loro è totale, che non c’è nessuna simpatia e soprattutto che non si sta praticando un doppio linguaggio.

Eccellenza, i cristiani d’Oriente stanno facendo tantissimo per i cristiani d’Occidente con la loro testimonianza di fedeltà a Cristo fino al martirio, con la loro partecipazione alla croce di Cristo che ne fa i co-redentori dell’epoca contemporanea. Cosa possiamo fare noi occidentali per loro, soprattutto cosa dovrebbero fare le comunità cristiane d’Occidente?
La realtà odierna della società occidentale è una delle cause della calamità che si è abbattuta su noi cristiani orientali. I jihadisti pensano che in Occidente il cristianesimo ha fallito: non c’è morale, non c’è più rispetto per la religione, c’è soltanto la celebrazione del piacere, del libertinaggio e dell’omosessualità. Hanno paura che la cultura edonista occidentale venga imposta al mondo musulmano per distruggerlo come tale, e questa è una delle ragioni della loro violenza. Io penso che c’è bisogno di un ritorno alla religiosità, che l’educazione secolarizzata dei bambini non risponde al vero bisogno umano. Quando poi crescono scoprono che l’orizzonte dell’edonismo non soddisfa, e che c’è bisogno di altro. Bisogna rispettare di più i valori spirituali, senza mescolare Stato e religione. Serve una laicità positiva, che rispetta la religione. E i cristiani devono unirsi perché il pericolo è comune, devono avvicinarsi fra loro.

In che modo devono avvicinarsi? Cosa possiamo e dobbiamo fare insieme, cristiani d’Occidente e d’Oriente?
Pregare insieme, avviare rapporti permanenti, realizzare gemellaggi fra le Chiese. Non solo per inviare soldi, non solo per quello: ci sono cose più importanti. Si tratta di fare sì che i fratelli perseguitati sentano la vicinanza dei fratelli che vivono nella pace, si tratta di realizzare la comunione. Sono iniziative alla portata di tutti: una parrocchia, un gruppo di famiglie, una comunità. E dovremmo agire insieme anche sul piano politico: fare pressione insieme sui governi occidentali affinché facciano pressione sui governi locali perché facciano rispettare i diritti umani nei paesi in cui vivono i cristiani d’Oriente. Fare manifestazioni di piazza, marce di solidarietà, incontri pubblici. Sono tante le iniziative possibili.